“Ne congiunga il nume in Ciel”. La Lucia di Lammermoor di Donizetti tra Walter Scott e romanticismo cattolico (Parte seconda)

I  due testi a confronto
Nel libretto di Cammarano il pubblico, rispetto al romanzo di Scott, viene catapultato in medias res, in quanto, come ha notato Portinari, è subito messo al corrente della rivalità fra le due famiglie[1], che si esprime nell’odio di Enrico, esploso in seguito alla notizia dell’amore della sorella per Edgardo.
Molte delle vicende narrate da Scott prima del tragico epilogo vengono rievocate da Cammarano in alcuni momenti attraverso narrazioni o brevi accenni fatti dai protagonisti; l’episodio, in cui Lucia viene salvata da Edgardo dalla furia di un toro, viene narrato, nella seconda scena della prima parte, da Normanno ad Enrico, che, nello stesso tempo, viene informato anche degli incontri della sorella con il signore di Ravenswood, mentre la leggenda della fonte, teatro degli incontri tra i due amanti, è narrata da Lucia alla sua damigella Alisa. Nella descrizione di questi fatti è possibile, inoltre, notare alcune differenze tra il modello letterario e la sua riduzione librettistica; nell’episodio del toro, infatti, alla scarna narrazione fatta da Normanno ad Enrico, nella quale non viene fatto alcun cenno alla presenza del padre della donna, riassunta in queste parole

M’udite. Ella sen gìa colà del parco
nel solingo vial dove la madre
giace sepolta… Impetüoso toro
ecco su lei si avventa…
quando per l’aria rimbombar si sente
un colpo e al suol repente
cade la belva.

(I, 2)
corrisponde una pagina ricca di particolari nel romanzo di Scott:
Sembrava inevitabile che il padre o la figlia, o entrambi dovessero cadere vittime dell’incombente pericolo, quando uno sparo dal boschetto vicino arrestò l’avanzata dell’animale. Il tiro era stato così ben diretto, fra la giuntura della spina dorsale e il cranio che la ferita si dimostrò istantaneamente fatale, mentre, se fosse stata inferta in qualsiasi altra parte del corpo, avrebbe difficilmente impedito l’impeto della belva. Con un balzo in avanti ed un terribile muggito, più per la forza d’inerzia dello slancio precedente che per l’azione delle membra, giunse a circa tre metri dall’attonito Cancelliere, dove rotolò sul terreno, ricoperto dal nero sudore della morte e agitato dal tremito delle ultime convulsioni. Lucia giaceva a terra, priva di sensi, inconscia della miracolosa liberazione di cui era stata oggetto. Suo padre era quasi altrettanto fuori di sé, tanto rapido ed inaspettato era stato il passaggio dalla orribile morte che sembrava ormai inevitabile, alla perfetta sicurezza. [2]

Nel romanzo di Scott questo episodio costituisce l’occasione per una forma di riavvicinamento tra la casata dei Ravenswood e quella del Lord Cancelliere, che non avrebbe opposto alcuna resistenza al matrimonio della figlia con il suo salvatore i cui desideri di vendetta erano stati sopiti dalla bellezza della fanciulla. Walter Scott, da questo momento in poi, sembra far intravedere la possibilità di una pace tra le due famiglie, se non fosse per la fiera opposizione della moglie del cancelliere, Lady Asthon, dipinta da Scott come un personaggio dal carattere tanto altero da incutere timore persino al marito. [3]

Nella leggenda della fontana della Sirena,
Cammarano, rispetto al suo modello, eliminò tutti gli elementi soprannaturali riducendo l’omicidio della donna amata da uno dei Ravenswood, avvenuto presso la fontana in questione, teatro degli incontri tra i nostri amanti infelici, in un delitto passionale perpetrato per motivi di gelosia. La narrazione dell’episodio, fatta da Lucia ad Alisa, non è nient’altro che una scarna sintesi, con alcune differenze sostanziali, dell’analogo passo presente nel romanzo di Scott, come è possibile notare dal raffronto tra le due versioni, delle quali quella di Cammarano,

Quella fonte mai,
senza tremar, non veggo … Ah, tu lo sai;
un Ravenswood, ardendo di geloso furor, l’amata donna
colà trafisse; l’infelice cadde nell’onda, ed ivi rimanea sepolta …
(I, 4)

pone l’accento sul carattere iracondo dei Ravenswood, mentre quella del modello inglese[4], popolata da ninfe e da presunte manifestazioni sataniche, rivela il gusto per il soprannaturale e per il mistero tipici di quell’isola, senza togliere a quel luogo il carattere sinistro che promana dalle due versioni.
Un ultimo accenno a quello che potremmo definire l’antefatto della vicenda è presente ancora nella scena successiva che conclude la prima parte dell’opera nella quale Edgardo fa riferimento al giuramento fatto contro la famiglia di Lucia dopo la morte del padre.
In questa scena, che costituisce l’unico momento in cui i due infelici amanti si trovano da soli, Edgardo ci viene presentato non solo all’apice della sua carriera e della sua fortuna politica, in procinto di partire per la Francia per risolvere delle delicate questioni diplomatiche, ma anche tenero amante di Lucia, con la quale si scambia un pegno di amore e di fedeltà.
Durante l’assenza di Edgardo, che, nel romanzo di Scott, è giustificata da un invito di un nobile amico del nostro protagonista nella sua residenza ad Edimburgo, vengono accelerati i preparativi delle nozze con Arturo Buklaw, unica persona in grado di risollevare, nelle intenzioni di Enrico, le sorti della sua famiglia. Come nel romanzo di Scott, anche nel libretto di Cammarano la situazione precipita proprio il giorno delle nozze con l’irruzione di Edgardo nel castello degli Asthon dove era stato firmato da poco il contratto che avrebbe legato per sempre Lucia ed Arturo; la reazione furibonda di Edgardo genera la risposta immediata di Enrico, che sfida l’odiato nemico e sostituisce il fratello Douglas Asthon del romanzo. Da questo momento Cammarano seguì la successione degli eventi del romanzo con Lucia che perde il lume della ragione ed uccide lo sfortunato consorte.

che questa non fosse una calunnia. […] L’interesse – interesse della sua famiglia, se non unicamente il proprio – appariva chiaramente come il movente delle sue azioni. […] Era stato notato ed accertato che nella maggior parte delle sue cortesie e dei suoi com-plimenti, lady Ashton non perdeva mai di vista il suo obiettivo, come il falco che alle sue evoluzioni nell’aria, coi suoi occhi penetranti persegue sempre la preda prescelta; in conseguenza di ciò un certo dubbio e un certo sospetto caratterizzavano i sentimenti con cui i suoi pari ricevevano le sue attenzioni. […] A quel che si diceva, anche suo marito, sulle cui fortune il suo ingegno e la sua accortezza avevano esercitato una così energica influenza, la considerava con rispettoso timore».
[1] Ivi, pp. 53-54: «La tradizione, che ha sempre lavorato, almeno in Scozia, a fiorire con un racconto leggendario un luogo già di per sé interessante, aveva attribuito a questa fontana una causa di speciale venerazione. Una bella e giovane donna aveva incontrato uno dei signori di Ravenswood che andava a caccia in quei pressi, e come una seconda Egeria, si era accattivata l’affezione del Numa feudale. Si incontrarono, in seguito, di frequente, e -sempre al tramonto, avendo gli incanti della ninfale natura di lei completato la conquista che la sua bellezza aveva iniziato, tanto più che il mistero aggiungeva, per entrambi, sapore all’intrigo. Ella appariva e spariva sempre vicino alla fontana, con la quale, perciò, il suo amante giudicò che avesse inesplicabili rapporti. E poneva anche alcune restrizioni ai loro incontri che avevano, quindi, ancor sapore di mistero. Dovevano incontrarsi solo una volta alla settimana – il venerdì era il giorno fissato – e dovevano assolutamente separarsi non appena la campana della cappella dell’eremitaggio nel bosco vicino, ormai ridotta un rudere, batteva le ore del vespro. In confessione, il barone di Ravenswood mise l’eremita a conoscenza dei suo singolare amore e padre Zaccaria tirò l’inevitabile e ovvia conclusione, che cioè il suo signore si era impigliato nelle reti di Satana con pericolo sia per l’anima che per il corpo. Descrisse al barone questi pericoli con tutta la forza della retorica monastica e dipinse con i colori più spaventosi la vera natura e la persona dell’apparentemente bella naiade che non esitò a denunciare come un emissario del regno delle tenebre. L’innamorato ascoltò con ostinata incredulità e fu solo in seguito alle insistenze dell’anacoreta che acconsentì a sottoporre ad una prova l’essere e la condizione della sua amata; a tale scopo aderì alla proposta di padre Zaccaria di far suonare i vespri mezz’ora più tardi del solito alla loro prossima intervista. […] All’ora stabilita gli amanti si incontrarono e l’intervista si protrasse oltre l’ora in cui essi usualmente si separavano per il ritardo con cui il monaco suonò l’abituale coprifuoco. Nessun cambiamento si verificò nella forma esteriore della ninfa; ma, non appena le ombre allungantisi la fecero consapevole che l’ora abituale dei vespri era passata, si staccò dalle braccia del suo amante con un urlo di disperazione e dicendogli addio per sempre si tuffò nella fontana e sparì ai suoi sguardi. Le bolle d’acqua provocate dal suo inabissarsi, quando salirono alla superficie erano rosse di sangue, da cui il barone fu portato a credere che la sua insana curiosità aveva determinato la morte di quell’essere misterioso e affascinante».
( Fine seconda parte)

 


[1] F. Portinari, Pari siamo! Io la lingua, egli ha il pugnale. Storia del melodramma attraverso i suoi libretti, Torino, E.D.T., 1981 p. 106.

[2] W. Scott, Op. cit., p. 52.

[3] Ivi, p. 23:«Lady Ashton era di una famiglia più nobile di quella del suo consorte, vantaggio di cui non mancava di avvalersi all’estremo per mantenere – ed eludere – l’influenza di suo marito sugli altri e anche la propria su di lui, a meno che questa non fosse una calunnia. […] L’interesse – interesse della sua famiglia, se non unicamente il proprio – appariva chiaramente come il movente delle sue azioni. […] Era stato notato ed accertato che nella maggior parte delle sue cortesie e dei suoi com-plimenti, lady Ashton non perdeva mai di vista il suo obiettivo, come il falco che alle sue evoluzioni nell’aria, coi suoi occhi penetranti persegue sempre la preda prescelta; in conseguenza di ciò un certo dubbio e un certo sospetto caratterizzavano i sentimenti con cui i suoi pari ricevevano le sue attenzioni. […] A quel che si diceva, anche suo marito, sulle cui fortune il suo ingegno e la sua accortezza avevano esercitato una così energica influenza, la considerava con rispettoso timore».

[4] Ivi, pp. 53-54: «La tradizione, che ha sempre lavorato, almeno in Scozia, a fiorire con un racconto leggendario un luogo già di per sé interessante, aveva attribuito a questa fontana una causa di speciale venerazione. Una bella e giovane donna aveva incontrato uno dei signori di Ravenswood che andava a caccia in quei pressi, e come una seconda Egeria, si era accattivata l’affezione del Numa feudale. Si incontrarono, in seguito, di frequente, e -sempre al tramonto, avendo gli incanti della ninfale natura di lei completato la conquista che la sua bellezza aveva iniziato, tanto più che il mistero aggiungeva, per entrambi, sapore all’intrigo. Ella appariva e spariva sempre vicino alla fontana, con la quale, perciò, il suo amante giudicò che avesse inesplicabili rapporti. E poneva anche alcune restrizioni ai loro incontri che avevano, quindi, ancor sapore di mistero. Dovevano incontrarsi solo una volta alla settimana – il venerdì era il giorno fissato – e dovevano assolutamente separarsi non appena la campana della cappella dell’eremitaggio nel bosco vicino, ormai ridotta un rudere, batteva le ore del vespro. In confessione, il barone di Ravenswood mise l’eremita a conoscenza dei suo singolare amore e padre Zaccaria tirò l’inevitabile e ovvia conclusione, che cioè il suo signore si era impigliato nelle reti di Satana con pericolo sia per l’anima che per il corpo. Descrisse al barone questi pericoli con tutta la forza della retorica monastica e dipinse con i colori più spaventosi la vera natura e la persona dell’apparentemente bella naiade che non esitò a denunciare come un emissario del regno delle tenebre. L’innamorato ascoltò con ostinata incredulità e fu solo in seguito alle insistenze dell’anacoreta che acconsentì a sottoporre ad una prova l’essere e la condizione della sua amata; a tale scopo aderì alla proposta di padre Zaccaria di far suonare i vespri mezz’ora più tardi del solito alla loro prossima intervista. […] All’ora stabilita gli amanti si incontrarono e l’intervista si protrasse oltre l’ora in cui essi usualmente si separavano per il ritardo con cui il monaco suonò l’abituale coprifuoco. Nessun cambiamento si verificò nella forma esteriore della ninfa; ma, non appena le ombre allungantisi la fecero consapevole che l’ora abituale dei vespri era passata, si staccò dalle braccia del suo amante con un urlo di disperazione e dicendogli addio per sempre si tuffò nella fontana e sparì ai suoi sguardi. Le bolle d’acqua provocate dal suo inabissarsi, quando salirono alla superficie erano rosse di sangue, da cui il barone fu portato a credere che la sua insana curiosità aveva determinato la morte di quell’essere misterioso e affascinante».