Torino, Teatro Carignano:”Leggenda”

Torino, Teatro Carignano, Stagione Lirica Teatro Regio 2011
LEGGENDA”
Opera in un atto (Prologo, quattro scene ed Epilogo) su libretto di Alessandro Solbiati
Musica di Alessandro Solbiati
Nuova commissione del Teatro Regio
Ivan MARK MILHOFER
Alëša ALDA CAIELLO
Grande Inquisitore URBAN MALMBERG
Spirito del Non Essere GIANLUCA BURATTO
Madre LAURA CATRANI
Gesù Cristo TOMASO SANTINON
Sestetto vocale PIERINA TRIVERO, DANIELA VALDENASSI, ROBERTA GARELLI, SABINO GAITA, MARCO SPORTELLI, ENRICO BAVA
Mimi ANDREA BALDASSARRI, STEFANO BOTTI, NICOLETTA CABASSI, MICHIELE LIUZZI, SAX NICOSIA
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia, scene, costumi, coreografia e luci Stefano Poda
Nuovo allestimento
Torino, 24 settembre 2011

È un po’ improprio definire “opera” questa Leggenda di Alessandro Solbiati, che il Teatro Regio di Torino ha commissionato e proposto in prima assoluta il 20 settembre, nell’ambito del festival MiTo Settembre Musica. Il termine “cantata” sarebbe stato certamente più appropriato, e avrebbe reso giustizia alla partitura senza creare aspettative destinate ad essere deluse. La fonte da cui l’opera è tratta, del resto – il capitolo del Grande Inquisitore dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij – ha ben poco di teatrale, costituendo un esempio da manuale di meta-letteratura, un poema inventato e narrato da un personaggio del romanzo, attraverso il quale si esplica una profonda riflessione sul tema della libertà e della felicità dell’uomo.
Solbiati ha voluto mantenere l’impostazione narrativa e meta-narrativa della fonte, rappresentando contemporaneamente, su tre piani scenici successivi, i personaggi del romanzo, Ivan e Alëša, che intercalano i propri commenti alla narrazione della leggenda del Grande Inquisitore, in parte esposta da Ivan, in parte messa in bocca allo stesso Inquisitore, che si muove, con l’interprete muto di Gesù Cristo, nel secondo piano scenico. Infine, quando l’Inquisitore rievoca le tentazioni vissute da Cristo al termine dei quaranta giorni nel deserto, ecco comparire, nel terzo piano scenico, lo Spirito del Non Essere, il maligno tentatore, che ripete, ma solo a titolo di rievocazione, le parole riferite dai Vangeli. Il risultato è una complessa architettura narrativo-meditativa che restituisce la natura di riflessione mediata sugli interrogativi della vita e della società (cui Solbiati intende dare un significato attualizzato, pensando al controllo delle coscienze che può essere esercitato nella società moderna dominata dai media), ma che resta estranea alla dimensione teatrale. Lo stesso Solbiati, del resto, afferma di aver cercato di comporre una musica che fosse il più possibile “narrativa”. Ciò detto, visto che il compositore ha deciso di definirla “opera”, useremo questo termine anche noi.
L’opera, si diceva, restituisce la natura di riflessione sui grandi interrogativi dell’umanità, ed in specie sulla questione della libertà e della felicità dell’uomo, ma la restituisce con un certo senso di pesantezza in luogo del vigore della scrittura di Dostoevskij (che, peraltro, in più passi viene citato alla lettera): questo forse per l’eccessiva prolissità (un atto unico di 90 minuti), e più ancora per l’inspiegabile procedere sillabato e rallentato di tante pagine affidate ai solisti, che conferisce ai personaggi una balbuzie incoerente rispetto alla loro grande abilità dialettica. Sicché i passi più piacevoli e affascinanti sono indubbiamente le pagine sinfoniche, nelle quali si percepisce la capacità di delineare situazioni ricorrendo a un linguaggio che non ignora gli sviluppi novecenteschi della musica classica ma resta fedele ad una sana intelligibilità. Penso, in particolare, alle atmosfere rarefatte del preludio coi tremolii dissonanti degli archi, o alla scena finale, dove il bacio dato dal Cristo muto all’Inquisitore è accompagnato da figure agitate ascendenti e discendenti, che conducono poi al lento spegnersi del lungo postludio.
L’esecuzione è sicuramente stata più che buona: la direzione di Gianandrea Noseda, ha incarnato perfettamente lo spirito della partitura, prestando attenzione a valorizzarne ogni dettaglio sinfonico. La regia di Stefano Poda, statica e ieratica, era coerente con la drammaturgia dell’opera, a parte l’evitabile eccesso di nudi integrali tra i mimi. La figura di Gesù Cristo, muto, è stata interpretata con grande classe da Tomaso Santinon.
Quando si ascolta una partitura nuova, è difficile valutare i cantanti scindendo la loro interpretazione dall’opera eseguita; è tuttavia mia impressione che tutti siano stati oltremodo all’altezza, e che non si debba certamente a loro mancanze il soltanto tiepido successo che lo spettacolo ha avuto alla sua prima replica: fortemente incisive le due donne, i soprani Alda Caiello (nel ruolo en travesti di Alëša) e Laura Catrami (bravissima nella parte della Madre che chiede di risuscitare la figlia); abile nel valorizzare sia i passi a mezza voce sia gli scatti fulminanti il basso Urban Malmberg (Grande Inquisitore); notevole per il timbro e la fermezza della voce il basso profondo Gianluca Buratto (Spirito del Non Essere); capace di fungere da filo conduttore di tutta l’opera il tenore Mark Milhofer (Ivan).
Lascia qualche perplessità la scelta di rappresentare lo spettacolo al Teatro Carignano, non perché la sala settecentesca fosse stonata rispetto all’opera, che anzi risaltava maggiormente per effetto di contrasto, ma perché la partitura è stata concepita da Solbiati per gli spazi del Regio: il compositore ha voluto un’orchestra voluminosa e ricchissima di timbri, per la quale ha anche studiato una precisa disposizione spaziale (tanto per cominciare, un’orchestra in buca ed una in platea) che non è stato possibile attuare del tutto nella piccola sala del Carignano. Quanto alla capienza di pubblico, però, il Regio sarebbe stato decisamente eccessivo.
Foto Ramella & Giannese – Teatro Regio di Torino