Salerno, Teatro Verdi: “Il Trovatore”

Salerno, Teatro Verdi, Stagione Lirica 2011
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro atti e otto quadri, su libretto di Salvatore Cammarano, tratto dalla tragedia El Trovador di Antonio García Gutiérrez.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna PAOLO GAVANELLI
Leonora MARIA AGRESTA
Azucena DOLORA ZAJICK
Manrico MARCELLO GIORDANI
Ferrando CARLO STRIULI
Ines STEFANNA KYBALOVA
Ruiz ENZO PERONI
Un vecchio zingaro ANGELO NARDINOCCHI
Un messo FRANCESCO PITTARI
Orchestra Filarmonica Salernitana “Giuseppe Verdi”
Coro del Teatro dell’Opera di Salerno
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Luigi Petrozziello
Regia e luci Renzo Giacchieri
Salerno, 5 ottobre 2011
Chi scrive non si  imbatteva nel Trovatore dall’estate 2010, occasione della ripresa veronese dell’allestimento targato Zeffirelli nelle lande areniane. E riconosco che ritrovare a distanza di un anno Manrico con la “mamma”, Leonora e tutti gli altri nei “ristretti” spazi del teatro lirico salernitano fa uno strano effetto: da un lato conferma che il titolo non sia un autentico capolavoro (specie se confrontato con il fratello minore e la sorella maggiore della trilogia) dall’altro ci obbliga ad abituare in fretta l’occhio all’asciutta essenzialità con cui Renzo Giacchieri guida la narrazione della vicenda. Nei piccoli spazi del “Verdi” infatti il diaframma della compartecipazione fra artisti e pubblico si stringe a vantaggio della dimensione intima del dramma. Così, degli spazi areniani restano solo tre nomi: quello di Daniel Oren (“aidologo” fra i più raffinati), Dolora Zajick (“alter-ego” di Azucena e Amneris) e Marcello Giordani (“turandottico e butterfliano” sagace).
Il primo, a dispetto del “minuscolo spazio vitale” della buca, pare abbia a che fare con un’orchestra di organico cospicuo… e questo non tanto per la risaputa partecipazione nella direzione (salta sul podio come un giovanotto e accompagna con il labiale e gesti ampi il canto) quanto soprattutto per i risultati ottenuti in termini di volume e dinamica. Oren conosce Verdi e conosce ogni recondito angolo della partitura di un’opera che scava e approfondisce, che vive come dramma crudo e cupo d’affetti contrastanti e contrastati, che filtra nell’ottica del teatro, rifuggendo l’effetto fine a se stesso. Ne deriva una lettura delle tinte quanto mai fosche e notturne (come le «spoglie» degli zingari): lo si nota fin dalle battute iniziali del breve preludio (con l’impasto di timbri fra viole e violoncelli), così come alla fine della prima scena e in molti altri momenti cruciali e secondari del dramma (come il sinuoso colore che accompagna il «Che avvenne?» di Ines prima della cavatina di Leonora). Oren è poi scrupolosamente attento al testo, al libretto, al senso e all’emozione della parola “scenica e non”; la asseconda e la esalta, in modo particolare nei duetti (lodevoli i risultati in quello finale fra Manrico e Azucena) e nei cori (che presa quello staccato martellante degli armigeri «Sarebbe tempo presso la madre / All’inferno spedirla»). Di fronte ad una prestazione tanto maiuscola sorvoleremo sul taglio del da capo nella cabaletta della cavatina di Leonora e nella «pira» di Manrico (anche se, per lo meno in uno spazio chiuso, ci piacerebbe sentirle eseguite integralmente); loderemo ancora invece le indubbie qualità del concertatore che accompagna i cantanti con mano esperta raggiungendo  una perfetta fusione fra buca e palcoscenico, mentre l’orchestra dal canto suo risponde ad ogni sollecitazione (spesso anche verbale) con attenzione e precisione.
Dolora Zajick colma i risaputi problemi di dizione con un canto generoso, partecipe, torvo nei colori in cui la parola è assoggettata alle regole della ritmica. In questo modo la sua “vampa” stride in maniera accattivante per i contrasti nei colori e il duetto con Manrico diventa una grande pagina di canto in cui la componente verbale e musicale si compenetrano con equilibrio. Si inserisce su questa linea anche il lavorio sulla martellante incisività di acciaccature e trilli, su alcune frasi cruciali del dramma che nelle sue corde mutano in espressioni autentiche di sofferenze da scolpire nella mente e nel cuore del pubblico (mi riferiscono in particolare al «Mi vendica!» e a «No, soffrirlo non poss’io / io tuo sangue è sangue mio»). Insomma, la Zajick è Azucena memorabile per la profondità della cavata, il fascino del timbro e l’intensità della compartecipazione emotiva.
Marcello Giordani dipinge un Manrico dal canto luminoso, schietto e sincero che non manca l’appuntamento con la grande romanza (che cesella con smorzature pregevoli),  ma nel complesso non convince pienamente. La costante presenza in grandi teatri e ai festival estivi e non ultima la frequentazione con un repertorio di stampo smaccatamente verista hanno viziato il suo organo al canto di fibra e di spinta. Così, anche negli angusti spazi del “Verdi”, gli acuti sono spesso risolti con il ricorso all’effetto e il registro di passaggio rivela alcune zone d’ombra. Una prestazione alla quale oltretutto mancano anche quell’eroicità di timbro e accento richieste dalla scrittura verdiana.
La Leonora di Maria  Agresta non avrà forse un volume “areniano” e un timbro particolarmente accattivante, e non avrà forse neppure tutto il peso drammatico utile al personaggio, ma al “Verdi” si lascia ascoltare con grande interesse. Il soprano salernitano possiede una buona musicalità (che raggiunge l’eccellenza nel recitativo che precede la grande aria del IV atto) e un fraseggio scrupolosamente orientato alla “parola scenica”. L’attrice può migliorare è vero, e il registro acuto è forse leggermente sbiancato, ma lo studio e l’approfondimento della tecnica (che comunque ha dimostrato saldamente di possedere) lasciano luminosi margini di miglioramento.
Rimane da riferire del Conte di Luna di Paolo Gavanelli, per il quale si può parafrasare un’espressione usata in altri contesti da Roberto Mori: “il volenteroso mulinare” d’ugola “di un ex grande” cantante. Spiace davvero dover stigmatizzare così una prestazione, ma il canto di Gavanelli ha ormai da tempo perso musicalità e elasticità, scivolando in una sorta di fastidioso “declamato”. L’organo è affaticato e stanco, in più punti sfibrato, scomposto e affetto da rilevanti problemi di intonazione, in modo particolare nel terzetto del I atto, nel «Balen» (dove si inerpica per i tortuosi e sgradevoli sentieri della mezza voce) e nella successiva cabaletta.  Inutile coprire a dismisura o “ingolare” i suoni nel tentativo di mascherare i difetti di una voce logorata, anche da alcune scelte artistiche.
Una volta osservato che il Ferrando Carlo Striuli “entra tardi in partita” ma lo fa con un canto molto elegante e dalle intriganti risonanze, e una volta lodata l’eccellenza dei comprimari (l’Ines di Stefania Kybalova, il Ruiz Vincenzo Peroni, il vecchio zingaro di Angelo Nardinocchi e il messo Francesco Pittari) resta da riferire dell’allestimento. Le scene e i costumi provenivano da un allestimento storico e, anche se in alcuni momenti le rughe gli anni lasciavano piccoli segni, nella maggior parte dell’opera, complici le suggestive luci curate dallo stesso regista, esaltavano il carattere notturno del dramma verdiano. In queste ambientazioni nobilmente oleografiche, la regia di Giacchieri segue senza stravolgimenti la narrazione della vicenda e si concentra sul rapporto fra Manrico e Azucena; un rapporto basato fin dall’inizio sul tatto e sul contatto fisico, dapprima della madre verso il figlio e poi, nel finale, con l’incedere del dramma, del figlio verso la madre. Nel successo vibrante arriso alla produzione vanno a pieno titolo inseriti l’orchestra Filarmonica salernitana e il coro del Teatro, eccellentemente preparato Luigi Petrozziello.
Foto Pasquale Stanzione.