Palermo, Teatro Massimo: Bruno Bartoletti dirige Barber, Britten e R. Strauss

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Sinfonica 2012
Bruno Bartoletti dirige Barber, Britten e R. Strauss
Orchestra del Teatro Massimo
Direttore Bruno Bartoletti
Tenore John Marc Ainsley
Corno Radovan Vlatvovic
Soprano Kristin Lewis
Samuel Barber: Adagio per archi op. 11
Benjamin Britten: Serenata per tenore, corno e archi op. 31 – Prologue; Pastoral; Nocturne; Elegy; Dirge; Hymn; Sonnet; Epilogue.
Richard Strauss: “Mondschein” da Capriccio op. 85
Vier Letzte Lieder:Frühling; September; Beim Schlafengehen; Im Abendrot.
Palermo, 4 marzo 2012

Terzo appuntamento della stagione 2012 del Teatro Massimo di Palermo, il concerto del 4 marzo ha visto in programma alcune delle più belle pagine musicali del Novecento, geograficamente dislocate fra Stati Uniti, Inghilterra e Germania. A compiere questo viaggio, l’orchestra del Teatro Massimo, guidata dalla bacchetta di un veterano del repertorio di ogni epoca e genere quale è Bruno Bartoletti, già direttore al Massimo de La fanciulla del West (nel dicembre 2010) e che a fine febbraio doveva salire sul podio per La traviata, ma che in un secondo momento è stato sostituito da Carlo Rizzi. Come per le recite dell’opera verdiana, anche in questo caso i musicisti hanno suonato in borghese, ribadendo i motivi dell’abbandono dell’abito istituzionale nel comunicato contro la direzione artistica della fondazione. Comunicato che è stato letto alla presenza dei soli archi, protagonisti della prima parte dello spettacolo, incentrata su Samuel Barber e Benjamin Britten. Di Barber è stata proposta la composizione sicuramente più nota, l’Adagio per archi op. 8, eseguito per la prima volta a New York nel 1938. Ieratico nei gesti, Bartoletti calibra il flusso sonoro con particolare attenzione, curvo su sé stesso e tutto concentrato nel supremo sforzo di catturare la profondità di uno dei brani più struggenti del ‘900. L’orchestra, tesa nell’ascolto, ha saputo raccogliere e restituire la medesima atmosfera, attaccando sempre a colpo sicuro e dimostrando ben poche incertezze.
Agli archi si sono poi aggiunti il tenore John Marc Ainsley e il cornista Radovan Vlatković interpreti della Serenade op. 31 di Benjamin Britten. Il ciclo di songs del compositore inglese si distingue per il clima rarefatto e intimamente notturno, che però è stato reso in maniera discontinua. Ainsley, profondo conoscitore del pensiero di Britten e fra i suoi più accreditati interpreti a livello internazionale, ha timbro luminoso e accattivante, e sa certamente come affrontare le difficoltà di questi brani. Inspiegabilmente però pecca di intensità, sia sul piano della dinamica che su quello dell’espressione; vi sono momenti di maggiore pathos, come ad esempio all’inizio di Lyke Wake Dirge, di cui Ainsley sa cogliere la dolente inquietudine, ma per il resto l’interpretazione risulta sottotono e in più occasioni la sua voce coperta dall’orchestra. Di livello superiore la performance del corno solista: Vlatković amplifica ed enfatizza la melodia, sovrapponendovi incisi di carattere fiorito ed elaborando con sicurezza discorsi autonomi. Nel sottile dialogo con l’orchestra emerge una gamma di ricchi colori, condotta in modo spigliato lungo sentieri sicuri. Ma è soprattutto in Epilogue che si raggiunge il massimo coinvolgimento, nell’effetto straniante del “dietro le quinte” che crea un’atmosfera di lontana nostalgia, mentre in sala le luci si abbassavano progressivamente, fino a spegnersi del tutto.
Il legame fra prima e seconda parte è stato offerto proprio dal corno, che nelle composizioni di Richard Strauss incluse in programma rivestiva una funzione decisamente importante (ricordiamo che il padre di Richard, Franz Strauss, era suonatore di questo strumento). Purtroppo la mancanza di Vlatković ha fatto la differenza, per lo meno nell’esecuzione di Mondschein dall’opera Capriccio (1942). In questa raffinatissima musica “al chiaro di luna” è appunto il corno a prevalere, evocando con il suo timbro un carattere di dolce malinconia. Sfortunatamente tutto questo non è avvenuto e a mala pena potevamo percepire il suono dello strumento, quasi sommerso dal resto della compagine orchestrale. Ancor più complesso il discorso per i Vier Letzte Lieder, senza dubbio fra i capolavori più alti nella storia della musica occidentale, al di là di ogni classificazione di genere e periodo. In questo caso Bartoletti si rivela abile concertatore, per quanto talvolta scelga dei tempi eccessivamente sostenuti. Nel complesso svolge il suo compito con cognizione e della partitura decide di enfatizzare le caratteristiche più luminose, come avviene sia in Frühling che in September (bravissimo il primo violino nell’esecuzione dell’assolo di Beim Schlafengehen, al quale il direttore ha saputo conferire adeguata enfasi). Invece più di un dubbio lo si deve esprimere sul soprano statunitense Kristin Lewis da noi apprezzata a Palermo, tempo fa, ne Il trovatore. La cantante, però, non si rivela un’interprete straussiana altrettanto ideale e appare ingessata dall’inizio sino alla fine, dando quasi l’impressione di essere lì per caso, a svolgere un compito controvoglia. Nel registro medio e grave manca poi di volume, e questo influisce in modo determinante sulla resa dei Lieder. Solo negli acuti riesce a dare maggiore corpo alla voce, ottenendo un più intenso coinvolgimento emotivo. Eppure in Im Abendrot, dove tutto questo dovrebbe essere evidente, è ancora l’orchestra a condurre il gioco, nell’impalpabile amalgama dei timbri strumentali che costituisce senz’altro uno dei fattori di assoluto fascino di questa raccolta.