Venezia, Teatro Malibran: “L’inganno felice”

Venezia, Teatro Malibran, Atelier Teatro Malibran 2012
“L’INGANNO FELICE” 
Farsa per musica in un atto, libretto di Giuseppe Maria Foppa, dal libretto omonimo di Giuseppe Palomba per Giovanni Paisiello
musica di Gioachino Rossini
Bertrando DAVID  FERRI DURA’
Isabella MARINA BUCCIARELLI
Ormondo MARCO FILIPPO ROMANO
Batone FILIPPO FONTANA
Tarabotto OMAR MONTANARI
Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia
Direttore Stefano Montanari
Maestro al fortepiano Stefano Gibellato
Regia Bepi Morassi
Scene Fabio Carpente
Costumi Faderica De Bona
Luci Andrea Sanson
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
nel bicentenario della prima rappresentazione
Venezia, 25  febbraio 2012

Ormai siamo abituati alle Tetralogie trasposte in tempi recenti con i cattivi rigorosamente in versione ‘nazi’ o Wotan nei panni di un distinto signore in cappotto tweed c
on il bastone da passeggio al posto della runica lancia, per cui non provoca particolare sussulto l’apparizione nella rappresentazione di questa farsa per musica, peraltro decisamente venata di tragedia, di personaggi con addosso una divisa militare italiana più o meno dell’epoca della prima guerra mondiale con corredo di tricolore recante lo stemma sabaudo. Soltanto stupisce che questa minestra riscaldata (absit iniuria verbis) venga riproposta per l’ennesima volta nel (vano) intento di creare qualcosa di nuovo. Ciò non significa che l’iniziativa della Fenice di coinvolgere i giovani (in questo caso studenti dell’accademia di Belle Arti di Venezia) nella realizzazione di nuovi allestimenti non vada incoraggiata e, quindi, non debba avere ulteriori sviluppi, come del resto è nei progetti del teatro veneziano proprio in relazione alle altre opere in un atto composte dal geniale pesarese, agli esordi della sua carriera, per le scene del San Moisè.
Come nelle classiche rappresentazioni tragiche l’antefatto dell’intricata vicenda viene rievocato  dai personaggi sulla scena, mentre il coup de théâtre finale è costituito, come di prammatica, dalla collaudatissima agnizione, che pone fine al lungo doloroso distacco dei due protagonisti. L’opera è caratterizzata, fin nel titolo stesso, dalla figura dell’ossimoro, dal convivere di situazioni drammatiche e momenti squisitamente lirici, da un misto di serio e di faceto, che la partitura rossiniana riesce a rendere mirabilmente alternando struggenti pagine belcantistiche a concitati pezzi d’insieme, in cui non mancano i proverbiali crescendo; una partitura che già dimostra la tipica freschezza nell’orchestrazione fin dalla sinfonia, il cui schema formale, articolato e dinamico, sarà seguito dal compositore anche nelle successive opere composte per il San Moisè.
A questo proposito, ci è sembrato che la direzione di Stefano Montanari, pur  ossequiosa della scrittura rossiniana, non riesca a renderne sempre la brillantezza e la verve, e a volte risulti alquanto pesante, anche in conseguenza di una scansione dei tempi talora opinabile.
Quanto agli interpreti vocali, tra tutti svetta il puro timbro dello spagnolo David Ferri Durà, nel ruolo del Duca Bertrando (che si presenta ossessionato dal ricordo della moglie misteriosamente scomparsa), tipico tenore di grazia, agile e preciso nelle colorature come nelle note sopracute, sottilmente espressivo negli squarci melodici che contrassegnano la sua parte, oltre che accurato nel fraseggio: lo ha dimostrato nell’ardua cavatina «Qual tenero diletto», quanto, ad esempio, nel vivace concertato insieme a Isabella e Tarabotto, «Quel sembiante, quello sguardo», dove del pari sfoggia le sue brillanti doti vocali. Intensa e rigorosa appare, nei panni di Isabella/Nisa (sposa di Bertrando) Marina Bucciarelli, soprano lirico dalla voce potente ed estesa, nonché sorretta da una sicura padronanza tecnica, seppur screziata da un timbro troppo marcatamente ibrido, che la penalizza soprattutto nei passaggi d’agilità. Ne risulta in ogni caso un’interpretazione convincente come nell’aria «Al più dolce e caro oggetto», un cui l’artista sa rendere il carattere nel contempo lirico e drammatico del proprio ruolo.
All’altezza della situazione anche gli interpreti degli altri tre ruoli dell’opera, affidati ad altrettante voci di baritono. Omar Montanari, quale Tarabotto (il generoso minatore che si è preso cura di Isabella), pur dotato di una voce dal timbro che suona piuttosto metallico, riesce a rendere la forza morale del personaggio con giusto accento e chiarezza di fraseggio, come risulta fin dalla scena iniziale culminante nella lettura della lettera che gli rivela la vera identità della sua protetta; una lettura accompagnata mirabilmente da Stefano Gibellato al fortepiano in uno dei momenti più emotivi dell’opera. Montanari si rivela espressivo e giustamente vivace anche nell’unica situazione veramente comica del lavoro rossiniano, il duetto «Va taluno mormorando», nel corso del quale tenta invano di far ubriacare Batone, l’accorto confidente del perfido Omar, un personaggio negativo degnamente impersonato da Filippo Fontana, una promettente voce forse ancora un poco acerba e dall’impostazione un tantino troppo aperta, ma omogenea nel registro grave come nell’acuto. Non resta che un cenno al ruolo del cattivo per eccellenza, il perfido Ormondo (per intendersi, colui che ha fatto rapire Isabella), cui dà voce con autorevolezza Marco Filippo Romano, come nell’aria «Tu mi conosci e sai», breve e dalla linea vocale di maniera quasi ad esorcizzare il male. Nell’apoteosi finale, non a caso, il bene trionfa anche in forma di una luce dorata che illumina la scena mineraria fino ad allora immersa in una cupa penombra.  Successo caloroso.
Foto Michele Crosera – Teatro La Fenice di Venezia