Roma,Teatro dell’Opera:”Madama Butterfly”

Roma, Teatro dell’Opera, Stagione Lirica 2011-2012
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in tre atti, libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal dramma omonimo di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly, Cio-cio-san DANIELA DESSI’
Suzuki  ANNA MALAVASI
Kate Pinkerton    ANASTASIA BOLDYREVA
B.F.Pinkerton  ALEXEY DOLGOV
Sharpless   AUDUN IVERSEN
Goro  SAVERIO FIORE
Il Principe Yamadori  PIETRO PICONE
Lo Zio Bonzo  ALESSANDRO SPINA
Yakusidè  MASSIMO MONDELLI
Il Commissario Imperiale  RICCARDO COLTELLACCI
L’Ufficiale del Registro  FRANCESCO LUCCIONI
La madre di Cio-cio-san    CARLA GUELFI
La zia EMANUELA LUCHETTI
La cugina  CRISTINA TARANTINO
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Giorgio Ferrara
Scene Gianni Quaranta
Costumi Maurizio Galante
Luci Daniele Nannuzzi
Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo
Roma, 23 febbraio 2012
La prima domanda che ci si pone quando si esce da uno spettacolo come la   Madama Butterfly, in questi settimane al Teatro dell’Opera di Roma, è perché?! Perché creare un nuovo allestimento della suddetta opera a soli due anni di distanza dall’ultimo? La risposta a questa domanda potrebbe essere: perché si realizza un nuovo spettacolo scenico, degno di tal nome, di un’opera molto amata,  oppure si dispone di un cast adeguato… Ebbene abbiamo assistito a una rappresentazione che non soddisfaceva nessuno dei due criteri.
La regia di Giorgio Ferrara era praticamente inesistente! ‘E vero, si potrebbe obiettare che Madama Butterfly è un’opera assolutamente statica, ma quello che abbiamo visto l’altra sera sfiorava il ridicolo. Si è voluto dare un’impronta minimalista. Bene, ma un allestimento con questa impostazione può essere quello ispirato al teatro Nộ giapponese, già sperimentato più volte, non così provinciale (con tutto il rispetto per quest’ultimo, che spesso riesce creare allestimenti tradizionali, dignitosi, con pochi fondi)  e non certo da quello che è il  teatro della capitale d’Italia. Le scene di un grande professionista come Gianni Quaranta sono apparse particolarmente estranianti: pannelli gialli altissimi, come enormi paramenti sacri, che dovrebbero creare  le pareti scorrevoli della casa di Cio-cio-san. Questi elementi si aprivano, si giravano in vari momenti ma senza mai un’aderenza con quello che avveniva in scena. Un esempio per tutti. Durante il  duetto d’amore, queste pareti si  muovono in modo inadeguato, mentre i due  protagonisti che sembravano più intenti a cercare di capire qualcosa di quello che succedeva intorno, cantando ai due poli opposti del palcoscenico, senza il minimo coinvolgimento emotivo.
Decisamente banale la gestualità dei  cantanti, improntata al solito clichè, ma forse molto più impacciati rispetto a quelli che potevano apparire in un allestimento tradizionale. Imbarazzante la recitazione di Pinkerton, praticamente sempre con le mani conserte davanti o dietro, con la mobilità del corpo paragonabile a uno stoccafisso; così come la stereotipata visione di Sharpless con bastone da passeggio e pose inamidate, in questo caso anche più alienante il fatto che il cantante, piuttosto giovane, dovesse rappresentare in tal modo una persona di una certa età. Per la protagonista stesso discorso, forse un po’ meno evidente per la grande esperienza scenica della cantante.
Lo stesso concetto è applicabile anche agli altri: il povero Sharpless cui viene chiesto se desidera un altro bicchiere di whisky, ma nessuno lo degna di attenzione. Il Bonzo “volante” o ancora  Goro che appare, immobile tra le quinte-pannello e viene aggredito da Suzuki che nemmeno lo guarda.  Anche i movimenti del coro praticamente non esistevano affatto.
I costumi di Maurizio Galante erano poi del tutto astrusi anche se  coerenti con l’allestimento. I  giapponesi tutti vestiti d’oro, Suzuki agghindata come una sorta di combinazione tra tra Aida e la principessa Leila di Guerre stellari,  Goro sembrava un  Radames o un Ramfis. Lascino perplessi anche i costumi della  protagonista, un vestito da sposa che sembrava una tenda o l’apertura  a farfalla del kimono scuro che mostrava un interno decorato come una tovaglia fiorata!
Le cose non sono andate meglio sul piano musicale. La direzione di Pinchas Steinberg è apparsa svogliata,  diseguale, con sonorità incontrollate che penalizzavano le voci, attacchi fuori tempo, in particolare con il soprano e il tenore, e con il coro. Poche prove? Non si può giustificare altrimenti per  un direttore di fama internazionale che  ha dato vita molto spesso ad interpretazioni di gran lunga superiori. Il coro, in pessima forma, ha pasticciato diversi passaggi nella scena del matrimonio e il  coro a bocca chiusa è stato veramente modesto.
La protagonista, Daniela Dessì, non è più in grado di sostenere tutto l’arco drammatico di Cio-cio-san. La voce è palesamente stanca e la massacrante parte della geisha non è più nelle sue corde. Le scelte di repertorio alquanto azzardate ( la recente Gioconda e in un prossimo futuro  come protagonista di  Turandot) hanno lasciato il segno e almeno in questa serata la cantante non è riuscita se non in quale raro momento a essere una Butterfly convincente. Così, se la navigata esperienza le ha permesso di arrivare al termine di “Un bel dì vedremo”, sfruttando a fini espressivi il canto sfibrato, nel resto dello spettacolo era in affanno. Il disagio è parso chiaro già dall’aria di entrata e culminerà in un finale d’atto veramente calamitoso, farfugliato e con i centri del tutto sfocati ai limiti dell’inudibile. Negli atti successivi, il secondo atto in particolare, dominato dal  canto di conversazione, si è colto  qualche sprazzo della cantante di classe (in particolare in “Che tua madre dovrà”, o nel duetto dei fiori), con un uso di suoni e fraseggi sommessi. Purtroppo però non appena il canto si fa drammatico e teso, il suono oscilla e gli acuti sono al  limite dell’urlo. Vedi il finale dell’opera, quel tremendo “Tu, tu piccolo Iddio”, dove solo il pathos della pagina stessa ha saputo sprigionare una pur lieve commozione nel pubblico che ha applaudito con calore.
Il tenore Alexey Dolgov è apparso del tutto inadeguato alla parte di B.F.Pinkerton: timbro anonimo, emissione incerta, sembrava che la voce non venisse fuori, con il classico effetto “patata in bocca”, tutto ciò aggiunto a un’inerzia interpretativa tale da rendere il personaggio praticamente evanescente. Il giovane baritono norvegese Audun Iversen è stato un ottimo Sharpless, nobile nel fraseggio, capace di modulazioni della voce di grande espressività. Peccato che le intemperanze orchestrali e la banalità della regia non lo abbiano valorizzato. Molto brava anche Anna Malavasi nei panni di Suzuki, con un bel timbro, una profondità vocale impressionante, si è fatta apprezzare particolarmente nel duetto dei fiori e nel terzetto dell’atto terzo, anche  grazie all’apporto del baritono. Alquanto modesto il livello delle parti di fianco. Foto C.M.Falsini – Opera di Roma