“Il Barbiere di Siviglia” al Teatro Petruzzelli di Bari

Teatro Petruzzelli di Bari – Stagione Lirica 2012
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Opera buffa in due atti, libretto di Cesare Sterbini.
Musica di Gioachino Rossini
Il Conte d’Almaviva SERGEY ROMANOVSKY
Don Bartolo FILIPPO POLINELLI
Rosina  EKATERINA METLOVA
Figaro JONATHAN BLESS
Don Basilio EVAN HUGHES
Berta NORAH GRAHAM SMITH
Fiorello CLEMENTE ANTONIO DAILOTTI
Un Ufficiale CARLO PROVENZANO
Coro e Orchestra della Fondazione Petruzzelli
Direttore Lorin Maazel
Maestro del Coro Franco Sebastiani
Regia, scene, costumi e luci Denis Krief
Maestro del Coro Franco Sebastiani
Clavicembalo Giuseppe la Malfa
Allestimento del Teatro Lirico di Cagliari
Bari, 23 aprile 2012
Mettere in scena opere come il Barbiere di Siviglia – al pari di Don Giovanni, Bohéme, Carmen, Rigoletto – rappresenta sempre una sfida molto rischiosa. All’assoluta celebrità dei titoli deve infatti corrispondere la novità dell’allestimento, la freschezza dell’interpretazione. Lo spettacolo rappresentato al Petruzzelli – importato dal Lirico di Cagliari – ha solo in parte concretizzato le idee sottese alla brillante intuizione del regista (qui anche scenografo, costumista e light designer) Denis Krief: Figaro va letto come il Dioniso delle Baccanti di Euripide, all’insegna del travestimento e del vino, personaggio ‘altro’ rispetto alla costellazione delle dramatis personae in quanto privo di spessore psicologico e puramente ludico. Un’incarnazione di squisita teatralità; rimasta tuttavia a uno stadio potenziale stante l’immaturità vocale e ancor più attoriale del giovane baritono americano Jonathan Beyer. La scelta – questa imputabile a Maazel – di proseguire la prassi amputatoria nei confronti della grande scena e aria finale del conte d’Almaviva  ha inficiato l’altra intuizione di fondo: il Barbiere smaschera la corruzione di un’aristocrazia potente e senza scrupoli. La violenza intrinseca ad Almaviva s’esplicita solo alla fine del dramma, grazie a un mirabolante virtuosismo vocale che funge da equivalente sonoro della ‘sbottonatura’, ossia dell’agnizione risolutiva. Con quale coraggio Bruno Cagli nel programma di sala definisca questo ‘numero’ “pagina non necessaria all’economia drammatica”, liquidandolo semplicemente come “un pezzo da concerto”, io non lo so, considerando che proprio là risiede la chiave di lettura dell’intera opera (che poi gli interpreti l’abbiano tagliata a ridosso della ‘prima’ dimostra soltanto la misura in cui la musica era calibrata sulle doti del primo tenore Manuel Garcìa; in linea con questa logica non si dovrebbe più eseguire il 90% delle arie settecentesche (torno a citare Cagli) “ardue anche per [gli interpreti] dell’epoca, figuriamoci per quelli dei nostri gironi!”). So invece che registi, direttori d’orchestra, cantanti e studiosi (presunti tali) dovrebbero leggere un aureo libro che chiarifica il senso ultimo dell’opera di Rossini – sulla base di un’imponente messe di documenti – a scapito di Figaro e a vantaggio del conte (Saverio Lamacchia, Il vero Figaro ossia il Falso factotum, Torino, De Sono, 2009). È il frutto di una nuova musicologia italiana mai gratificata dell’interesse degli uomini di teatro che preferiscono adagiarsi sui comodi, ma rotti e impolverati, divani della convenzione collaudata. Certo il tenore leggerissimo Sergey Romanovsky non avrebbe mai retto Cessa di più resistere, ma allora perché cimentarsi con Almaviva? Ekaterina Metlova è un contralto scuro ben adeguato al personaggio di Rosina (troppo spesso declinato da soprani soubrettistici) ma non possiede l’agilità richiesta dalla parte, né la sensualità (lo avevamo già notato nella sua interpretazione di Carmen). Il baritono Filippo Polinelli ha buona dizione, mediocre gestualità e poco volume nella zona grave, così come il basso-baritono Evan Hughes, qui penalizzato dal regista che ne accentuava in modo eccessivo gli aspetti caricaturali (far accompagnare il fraseggio meccanicistico della “Calunnia” con il lancio di pezzetti di pane in faccia agli astanti è una scelta apprezzabile solo per i ragazzi di scuola media che vedono sul palcoscenico quanto fanno nelle mense durante le gite fuori porta). Se alla complessiva immaturità del cast (comunque anagraficamente non poi così giovane) si aggiungono stacchi di tempo di lentezza parossisitica, l’opera non può che collassare. Beninteso, non è un fatto di durata cronometrica, è un travisamento della drammaturgia di Sterbini e di Rossini. Peccato, perché la scatola scenica (ispirata all’architettura di Siza) di Krief era perfetta per il gioco continuo tra fuori e dentro che anima questa storia di assedio erotico; le sue scene possedevano un potenziale dinamico, non attuato dall’orchestra e dalle voci; le sue luci esibivano una forza connotativa che doveva essere accompagnata da una mimica adeguata. Ma la maggior parte del pubblico poco si cura di quanto qui si è scritto; basta sentire la Sinfonia e Largo al factotum e si torna a casa contenti. Foto Carlo Cofano © Teatro Petruzzelli di Bari