Pasolini-Callas:L’amore impossibile (seconda parte)

Pier Paolo Pasolini:“Cara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel  sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un´angoscia leggera leggera, non più che un´ombra, eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po´ di nevrosi: ma oggi in te c´era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale  brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch´io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare.
Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora.
Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so.
Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l´intera, intatta luminosità. C´è poi anche il fatto che io parlo poco, oppure mi esprimo in termini un po´ incomprensibili. Ma a questo ci vuol poco a mettere rimedio: sono un po´ in trance, ho una visione o meglio delle visioni, le “Visioni della Medea”: in queste condizioni di emergenza, devi avere un po´ di pazienza con me, e cavarmi un po´ le parole con la forza. Ti abbraccio.

Maria Callas:“Caro Pier Paolo, ho ricevuto il libro poi la tua cara lettera. Sono infelice per te – ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico, sono infelice che non posso essere vicina in questi momenti difficili per te, come lo sei stato tu spesso con me. Tu sai bene in fondo che sarebbe andata così. Se ricordi a Grado in macchina si parlava con Ninetto di amore e che ne so io. Dentro in me – le mie antenne tu dici –  me lo dicevano quando Ninetto diceva che  non si innamorerebbe mai – sapevo che diceva delle cose che era troppo giovane per capire. E tu in fondo uomo tanto intelligente lo dovevi sapere. Invece ti attaccavi anche tu a un sogno, fatto da te solo perché è così anche se ti addoloro con questa predicuccia piccola. La realtà è quella che devi affrontare ma non puoi perché non vuoi. Tu rinascerai, ci sono riuscita io – donna – con tanta sensibilità, eppure ho capito che solo in noi possiamo basarci. Tu ahimè non prendermi in giro. E’ triste anche e sopratutto per me dirlo. Sugli altri non si può fidare a lungo. E’ legge di natura. Noi dentro dobbiamo trovare la forza, almeno apparente, non ti faccio da madre, caro, ma ti consideravo mai come mio padre. Pier Paolo i libri sanno tanto sì, ma non la dura realtà, e non insegnano quello che io credo, e morirò credendo. Cioè che l’uomo solo può fare, di pura volontà, amor proprio ed orgoglio. Quello che io cerco di fare. In realtà se mi capisci, ma in fondo vedo forse non tanto, piedi per terra bisogna averli sempre poi sognare sì, ma è sogno non realtà. La realtà è creazione, dignità, non borghesia come dici, o forse non ho capito bene il libro. Io vivo nella borghesia servendomi di lei perché l’artista ha bisogno di lei. Ma in realtà io vivo sola, nella fede che posso, devo, perché sono guardata da tutti. E si ha il dovere di fare, una volta messi lassù. Non si può fare ciò che si vorrebbe. Anch’io vorrei, certo, ma allora si accetta essere criticati perché chi riesce la gente lo colloca alto, e così hai dei doveri. Se no allora si lascia e si fa quello che si vuole. Non si trovano scuse per noi, anche se gli altri danno tanto. Certo le parole sono parole, facili a scrivere a te – ma quando è che crescerai P.P.P.? Non è giunta l’ora di essere più ricco e maturo, anche se fanciulli si è sempre grazie a Dio. So che mi odierai per quel che ti scrivo. Ma ti ho sempre detto la verità, e ti chiedo scusa che invece di coccolarti ricevi queste stupide parole. Te le avevo   già dette e ti chiedo perdono. Sono qui, peccato che non vieni, chi sa perché poi. Gli amici sono per i momenti difficili, te l’ho detto sempre. Sarò qui tutto l’Agosto anche. Vorrei avere tue notizie. Sono sempre tua caramente con l’amicizia di sempre. Scrivimi qui Draconizzi Petacci Marmari. Grazie del telegramma da Londra.
Maria (fanciullona)

21 luglio 1971.
Carissimo P.P.P. ho ricevuto la tua cara lettera qui a New York, venuta via, stufa del mare e di Parigi perché quest’anno mi sono ripresa dal riposo più presto del solito e Parigi offre poche possibilità di lavorare la mia musica, che poi in fondo è l’amica che non tradisce. La pace che tu pensi che ho ce l’ho davvero, me la impongo. Ti ho detto mio carissimo amico che credo in noi creature umane. Io ed io sola ho fatto quello che mi spetta nella società, il rispetto, certo sono come tu dici sana – è vero – ma so anche che l’orgoglio mi salva da tante cose. Tu sai che è la strada la più dura subito a seguire ma alla lunga è l’unica. Non aspetto niente da nessuno – che se possono l’amicizia – che è tanto. Ma so anche stare tanto sola sto bene con me. Rare volte mi tradisco. Ancora tu dirai che faccio prediche. No P.P.P. non te ne faccio – sono anzi addolorata che soffri. Dipendevi troppo da Ninetto e non era giusto. Ninetto ha il diritto di vivere la sua vita. Lascialo fare. Guarda di essere forte, lo devi, come tutti abbiamo passato di là in un modo o in un altro, so che immenso dolore che è, più delusione che altro forse. Certe parole valgono nulla per consolarti, lo so. Avrei voluto che tu avessi sentito il bisogno venire da me, passare qualche 5 minuti duri, perché sono solo qualche 5-10 minuti di dolore atroce poi diventa un poco meno, ma non ne hai sentito il bisogno della mia amicizia e sono addolorata di questo. Ma capisco anche questa tua reazione. Amico mio vorrei avere tue notizie. La nostra amicizia merita questo almeno, non credi. Io sarò qui fino alla fine di Novembre, poi torno a Parigi. Qui ho tanti buoni amici, e vivo letteralmente nella musica, quindi sono assai tranquilla, sarò ancora di più se mi dai tue notizie spesso. Sfogati pure con me, come mi sono sfogata io a te tante volte. T’abbraccio forte con tanto affetto e sono sempre credimi la tua migliore amica (presunzione forse).
Maria. –
5 settembre 1971
Il Poeta-regista, Dacia Maraini, Albero Moravia, Pier Paolo Pasolini e Maria Callas erano un quartetto piuttosto collaudato a condividere tempo e spazio insieme: “Abbiamo fatto due viaggi in Africa, di un mese ogni volta, e uno nello Yemen. La Callas era abituata agli alberghi di lusso ma si adattava anche agli ostelli, come è successo quando ci siamo mossi all’interno dell’Africa con la Land Rover (Intervista di Annalisa Serpilli comparsa sul Sole 24 ore l’11 settembre 2007). Ed è proprio da quella Land Lover che parte il racconto di Dacia Maraini Il Poeta-regista e la meravigliosa soprano (supplemento del Corriere della Sera del 26 luglio). Il semplice ricordo lascia spazio alla felice tessitura di un vero e proprio racconto dove l´io narrante si cela timidamente dietro una “ragazza dagli occhi cilestrini”, confidenziale epiteto che non lascia spazio ad ambiguità e di cui scopriremo solo alla fine la paternità. La limpidezza del ricordo bene contrasta con l´opacità della terra bruciata africana. Pasolini concluderá il Frammento alla morte con queste parole: “Africa! Unica mia alternativa”. In effetti l’Africa era per il poeta-regista il naturale controcanto dell’Occidente: nera, mitica e preindustriale, essa si opponeva alla civiltà bianca, razionalistica e borghese, e fu proprio durante questi viaggi che Pasolini elaborò la sua Poetica sull´Africa e la sua interpretazione di Medea. Cosí Moravia descrive un documentario di Pasolini sull´Africa: “per niente esotica e perciò tanto più misteriosa del mistero proprio dell’esistenza, coi suoi vasti paesaggi da preistoria, i suoi miseri villaggi abitati da un’umanità contadina e primitiva. Pasolini ‘sente’ l’Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano”.
Umori, sensazioni, stupori, scoperte. Tutto stratifica lungo il percorso narrativo di questo breve racconto inedito di Maraini, lasciandoci intravedere le autentiche movenze dei protagonisti (gli stivali di Pasolini sulla terra bruciata, gli ampi occhiali di Maria Callas) così come raramente ci è dato sapere. Assaporiamo appena, grazie alla discrezione signorile e delicatissima della nostra autrice, le intime dinamiche sentimentali, gli sguardi fugaci, quell´incontro irripetibile tra alcuni dei più grandi del panorama culturale del novecento. Maraini, una di loro, ci concede poi di procedere oltre l´evento umano del viaggio, sorvolando con lo sguardo elefanti, coccodrilli, zanzare, grilli e termiti. Ed è lí, di fronte ad alla visione “sorprendente e primordiale” della natura africana, che lo sguardo attento della narratrice si corrompe in emozione assoluta, sorprendendosi in lacrime. Ed è forse quello stesso rapimento, quello che accompagnò Maraini dopo la prima volta di fronte alla Divina; era a Parigi, la Tosca , qualche tempo prima del  viaggio in Africa. Non avrebbe mai pensato, allora, che avrebbe condiviso con quella “pantera” una piccola stanza e due lettini di ferro smaltato.
In effetti l´occhio femminile di una Maraini giovanissima, è l´unico sopravvissuto in grado di poter traghettare fino ai   nostri giorni la testimonianza  di un tempo gravido di esperienze intense vissute da chi, primo fra tutti Pasolini, riuscì a tradurre in arte il senso profondo dell´Africa. Maraini, attraverso parole fresche e puntuali nella rievocazione, ci accompagna persino dentro la casa della madre di Pasolini, mostrandoci una donna fortissima nella sua ferrea volontà di madre friulana, di “maestra” conscia di non avere rivali. È un piacere lasciarsi portare per mano laddove forse, ognuno di noi, avrebbe voluto essere, nel modo in cui molti avrebbero voluto raccontare.
I quattro personaggi, Moravia, Pasolini, Callas e Maraini, sembrano davvero usciti dalla fiaba della vita, ognuno con il proprio fardello simbolico che riconosciamo già come parte integrante della “nostra” stessa storia: il vecchio mentore, scrittore di fama saggio ma brontolone, l´eroe trascinante, puro e intoccabile, la diva timida, capace di stupire per la sua carica di intima umiltà, la “giovane scrittrice”, un angelo viaggiatore testimone privilegiato di un mondo che le trascorrerà splendido e tragico sotto gli occhi. Scompaiono nello spazio di una pennellata ogni stereotipo: scompare l´autore taciturno (Moravia sarà l´unico a parlare in teatro!), l´intellettuale trasgressivo e la diva capricciosa. Scompare l´apparente algido distacco dell’autrice per lasciare il posto a tratti di pura emozione. Non c’é traccia di vanto in questo privilegio, solo la naturalezza di un’esperienza vissuta nella strabiliante consapevolezza di possedere quel magico strumento di trasporto che è la scrittura, che brilla tra le nostre dita come facevano i gioielli nelle mani di Maria Callas. (Fine seconda parte)