Dal Tribuno all’Imperatore: grande successo per Albrecht e Volodin

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione concertistica  2012-2013 
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Marc Albrecht
Pianoforte Alexei Volodin 
Richard Wagner: Rienzi. Ouverture
Ludwig van Beethoven: Concerto n. 5 in mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra Imperatore
Johannes Brahms
: Quartetto n. 1 in sol minore per pianoforte e archi; orchestrazione di Arnold Schönberg 
Torino, 25 ottobre 2012

Non è neppure detto che l’ascoltatore se ne accorga, ma spesso l’esperienza musicale di un concerto è inevitabilmente condizionata dal brano d’apertura, dalla sua qualità, dallo slancio e dalla convinzione con cui gli esecutori lo porgono al pubblico. In occasione del concerto diretto da Marc Albrecht alla RAI di Torino, con la partecipazione del talentuoso pianista trentacinquenne Alexei Volodin, è accaduto precisamente questo, e almeno per tutta la prima parte della serata: l’ouverture dell’opera giovanile di Wagner, Rienzi, der Letzte der Tribunen, ha galvanizzato l’ascoltatore con un clima di Medioevo militante e trionfante, predisponendolo ad accogliere il Beethoven eroico per eccellenza, quello del quinto concerto per pianoforte e orchestra.
Se a questo si aggiunge che, dopo l’Imperatore, Volodin ha reso omaggio alla platea con due brani chopiniani fuori programma, un notturno e un valzer, allora si completa un quadro che pareva assemblato appositamente per affiancare più aspetti del grande Romanticismo, in un periodo che coincide con la prima metà dell’Ottocento (dal 1808-1809 del concerto beethoveniano agli Anni Quaranta del grand-opéra di Wagner e delle ultime composizioni di Chopin). In realtà, la metamorfosi decadente e sfranta di tale Romanticismo si proiettava anche sulla seconda parte del concerto, grazie all’ombra lunga e alle sonorità cangianti del Quartetto n. 1 di Brahms per archi e pianoforte nell’orchestrazione di Schönberg (un altro spaccato cronologico significativo: dal 1861 della composizione da camera al 1937 del rivestimento sinfonico). E tutto pareva dipendere proprio dal primo brano, da quel Rienzi dal sapore così “teutonico” e per certi aspetti così amabilmente pompier.
Della sinfonia melodrammatica Albrecht ha reso molto bene quell’agogica che la apparenta a una tipica ouverture italiana (magari dell’ultimo Rossini, come Guillaume Tell), caratterizzata da una stretta drammatica in cui l’intreccio tra i due temi fondamentali (in particolare l’inno Santo Spirito Cavaliere, tra i Leitmotive dell’opera) raggiunge il culmine. Ma, oltre che sul fattore agogico, il direttore ha puntato l’attenzione sulla qualità musicale dell’avvio (con i solitari squilli della tromba: bravissimo Roberto Rossi) e dello sviluppo, e sull’opposizione tra i ritmi concitati della tragedia di Rienzi e la retorica fastosa con cui si celebra l’improbabile rinascita della Res Publica romana. Per questo è risultato magnifico il ritmo di marcia della seconda sezione dell’ouverture, sostenuto da un tempo adatto alla solennità.
Le formule sicure della scrittura wagneriana hanno quindi ceduto lo spazio agli sperimentalismi beethoveniani del concerto Imperatore, con l’ingresso in sala del concertista russo. Direttore e pianista erano in perfetta sintonia alla ricerca di quella “serena grandezza” che è la cifra dominante del concerto. Se l’orchestra suona con grande precisione, Volodin applica a Beethoven una tecnica finalizzata a valorizzare il singolo suono, la nota sgranata, staccata dalle altre e dunque sempre nettamente distinguibile. Tale presupposto è quanto mai difficile da realizzare in modo coerente, perché l’autonomia del suono di ogni nota rischia di tradursi in tempo rallentato, specie in corrispondenza dei passaggi più articolati e virtuosistici. In realtà, Volodin riesce a mantenere la correttezza ritmica e la caratura esecutiva dello staccato in maniera perfettamente convincente, senza mai un cedimento. Nel finale, per esempio, è stato molto espressivo l’effetto di contrapposizione tra lo staccato martellante del pianoforte e il legato degli archi, nell’enunciazione e nel dialogo sul tema principale dell’Allegro. Il pubblico ha risposto con grandi acclamazioni e applausi, e il pianista non ha esitato a offrire ben due bis: prima il Notturno n. 20, e poi il Valzer op. 64 n. 1 di Chopin. Improvvisamente, tutt’altra atmosfera ha avvolto la sala dell’Auditorium “Toscanini”, e il pubblico si è lasciato incantare dalla metamorfosi della solarità che volgeva in elegia e struggimento, per poi concludersi in un bozzetto divertente e raffinatissimo (il celebre cagnolino che rincorre la propria coda del valzer di Chopin). Ma in particolare il Notturno sembrava richiamare ancora l’ambientazione del Rienzi: rovine di un’antica civiltà, nostalgia di un passato irrecuperabile, Wagner e Chopin che prodigiosamente contemplano insieme la stessa veduta. Gli applausi per Volodin raggiungevano l’apice.
Dopo l’intervallo Albrecht è tornato alla guida dell’OSN RAI per dirigere la riscrittura di Schönberg del Quartetto n. 1 per archi e pianoforte di Brahms. L’inventore della tecnica dodecafonica era solito affermare che questo quartetto rappresentasse la “V Sinfonia di Brahms”; in effetti, la versione sinfonica nell’interpretazione di Albrecht esalta il lavoro compiuto da Schönberg per realizzare un paziente e appassionato inventario di tutte le formule strumentali e timbriche di Brahms, riunite in una sorta di grandiosa rapsodia. È come se Albrecht volesse dire agli ascoltatori che i temi sono di Brahms, ma strumentazione e colori sono di qualcuno che – per sconfinata ammirazione – ha voluto essere più brahmsiano dell’autore; ecco perché la partitura è stata affrontata con leggerezza, tenue ironia, garbo mondano, anche nei passaggi più robusti e imponenti. Nel terzo movimento, per esempio, Albrecht accentua i tratti più ironici della riscrittura schönberghiana, fino a trasformare l’Andante con moto in un’allegra fanfara bandistica. Ma il direttore non cerca affatto di edulcorare o di rendere omogenee le difformità interne; anzi, ne approfitta per fare emergere le dissonanze (anche in modo marcato, come nel finale) e i confini tra fattori differenti della nuova strumentazione. Ogni frase è scolpita nelle sonorità e nei colori, appunto per rendere conto del caleidoscopio strumentale in cui Schönberg ha trasfigurato l’originario quartetto. L’ultimo movimento (Rondò alla zingarese) è a mezza via tra le Danze Ungheresi dello stesso Brahms e le Danze Slave di Dvořák: un vortice di gioia musicale che non manca di contagiare e trascinare tutto il pubblico.
Oltre che con il successo dell’Imperatore (pezzo sempre molto amato) Albrecht ha conquistato con la musicalità e con la chiarezza della sua direzione. In particolare perché è riuscito a porgere con levità anche una partitura apparentemente così intellettualistica come quella brahmsiano-schönberghiana; essa dovrebbe presupporre il lavoro di origine per essere apprezzata appieno, e invece è risuonata al pari di una complessa sinfonia di metà Ottocento, tanto ricca di temi, sonorità, ritmi, e naturalmente di struggimenti. Da Wagner a Schönberg, attraverso Beethoven, Chopin, Brahms; che altro si potrebbe pretendere di più bello da un concerto?