«Di ragion la trasse amore …». “Lucia di Lammermoor” a Novara

Novara, Teatro Coccia – Stagione Lirica 2012-2013
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in tre atti
Libretto di Salvadore Cammarano
dal romanzo “The bride of Lammermoor” di Walter Scott
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton SERBAN VASILE
Lucia JESSICA PRATT
Sir Edgardo di Ravenswood FRANCISCO CORUJO
Raimondo Bidebent  GIOVANNI BATTISTA PARODI
Lord Arturo Bucklaw ALESSANDRO SCOTTO DI LUZIO
Alisa CINZIA CHIARINI
Normanno ALESSANDRO MUNDULA
Orchestra de “I Pomeriggi Musicali” di Milano
Coro del Circuito Lirico Lombardo
Direttore Matteo Beltrami
Maestro del coro Antonio Greco
Regia Henning Brockhaus
Scene e costumi Josef Svoboda
Ricostruzione allestimento scenico Benito Leonori
Costumi Patricia Toffolutti
Coproduzione dei Teatri del Circuito Lirico Lombardo: Grande di Brescia, Sociale di Como AS.LI.CO., Ponchielli di Cremona, Fraschini di Pavia; della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, Teatro dell’Aquila di Fermo, del Teatro Coccia di Novara e Teatro Alighieri di Ravenna
Novara, 4 Novembre 2012

Il collaudato, pluriennale, allestimento di Brockhaus e Svoboda della Lucia di Lammermoor è giunto al Teatro Coccia di Novara il 2 e il 4 Novembre, ma con protagoniste diverse; dopo la prima locale Ekaterina Bakanova non ha infatti cantato la replica a causa di una indisposizione, ed è stata sostituita da Jessica Pratt; quest’ultima – va detto sin dall’inizio – ha conseguito notevole successo nel corso di tutta l’opera, e un’autentica ovazione le è stata tributata al termine della rappresentazione.
Dell’allestimento, ormai ben noto al numeroso pubblico della ripresa itinerante tra Lombardia, Piemonte, Veneto e Marche, si può soltanto ricordare una certa meccanicità, funzionale a restituire atmosfere cupe e tetre brughiere, tutta concentrata sull’azione propriamente musicale. Il velario verticale che appare ora come una parete rocciosa, ora come un paesaggio innevato, ora come pesante manto di tessuti, si presenta leggermente polveroso (anche nell’effetto simmetrico di dispiegarsi in apertura e ripiegarsi nel finale); per fortuna intervengono proiezioni video ad alleggerire e muovere un po’ la scena, altrimenti interamente dominata da una maestosa scalinata, con campi di margherite e onde marine nei momenti felici e allucinati del canto di Lucia. Anche i costumi dei personaggi e dei figuranti, nella loro varietà cromatica, contrastano felicemente con l’uniformità delle strutture di sfondo.
Ma più che la parte scenica, l’elemento conduttore della rappresentazione è stato quello orchestrale: il giovane direttore Matteo Beltrami lascia percepire un lavoro di buona concertazione e di accurato studio della partitura; anzi, in una pagina introduttiva del programma di sala egli stesso avverte il pubblico di aver scelto una versione ottocentesca, al fine di «ristudiare un capolavoro noto, analizzarlo insieme», porgere una Lucia tradizionale e al medesimo tempo accantonata dalle edizioni criticamente più affidabili. A dire il vero, il risultato complessivo è molto interessante, perché Beltrami ha modo di sottolineare in continuazione i colori scuri dell’opera, e per questo mantiene sempre percepibili (quando non in evidenza) le sonorità del corno e in generale degli ottoni. Probabilmente il direttore ha inteso anche adeguarsi alle tinte corrusche e umbratili dell’allestimento, senza però compiacersi dell’immobilità scenica; anzi, le ha contrapposto tempi agili, quando non decisamente rapidi (come nel duetto Enrico-Lucia Se tradirmi tu potrai o nel coro Per te d’immenso giubilo). L’orchestra risponde in modo adeguato a tali richieste, anche se con qualche piccola sprezzatura (proprio da parte degli ottoni, evidentemente giunti piuttosto affaticati al termine della recita, in particolare i corni in “Tombe degli avi miei”).
A collegare l’orchestra e la parte vocale della protagonista è stata l’arpa, che in questa versione sostituiva il flauto (o la Glass harmonica) nella scena della pazzia: sin dal primo atto l’arpa era collocata al centro della scena, sulla scalinata che domina tutto, e le sue risonanze giungevano nitidissime (forse anche troppo) insieme alla voce della Pratt (analogo rilievo all’arpa anche nella seconda parte, perché durante la scena della pazzia lo strumento era collocato nel palco di proscenio a destra, dunque ancora in posizione superiore al resto dell’orchestra; la bravissima solista si è disimpegnata molto bene nel duplice accompagnamento).
Il soprano australiano, che canta il ruolo di Lucia sin dal 2007, ha porto al pubblico novarese un’interpretazione di alto livello, molto convincente, tutta giocata sull’alternanza di piani e pianissimi, sulle modulazioni d’intensità, e allo stesso tempo su scatti e movenze improvvise nell’emissione vocale. Ma l’ascoltatore non deve giudicare frettolosamente: tale mobilità nella voce è voluta dall’impostazione di un personaggio non deciso e autorevole, bensì fragile e non del tutto equilibrato; la voce della Pratt, in altre parole, sembra modulata per tradire l’instabilità nervosa del personaggio, e dunque non ha per obbiettivo la bellezza di ogni frase, quanto piuttosto l’incisività e il dolore. L’uniformità si apprezza invece nei momenti più belcantistici: molto belle le agilità accompagnate dall’arpa nella seconda scena del I atto (applauditissima la romanza “Regnava nel silenzio”) così come quelle della prima parte della scena della pazzia (“Ardon gl’incensi”: la cantante ha dovuto concedere il bis della cadenza in seguito all’insistenza degli applausi e delle richieste del pubblico entusiasta). L’attenzione per i momenti virtuosistici a volte va a discapito del fraseggio, così come dell’emissione delle note basse, che restano un po’ fragili; ma di fronte alla generosità dell’artista, che si cimenta in sovracuti sin dalla fine del duetto con Raimondo, e poi nel concertato che segue il celebre sestetto, oltre che naturalmente nei momenti della follia, i rilievi sulle note basse o sull’esilità del suono, anche degli stessi acuti, sono di secondaria importanza. Non va neppure dimenticato il delicato ruolo di sostituta, evidentemente contattata dal teatro in tempi assai ristretti, che la Pratt ha accettato di sostenere. La sua Lucia è certamente diversa dalla fanciulla inerme, dolce e trasognata di un’intera tradizione di soprani lirici o leggeri; è invece donna fragile e oppressa da un destino di sciagura, oltre che circondata da personaggi meschini o ingannatori; agitata e nervosa, trova momentanea pace soltanto nel virtuosismo del suo canto; per un attimo anche l’interprete si compiace delle agilità, dei trilli (emessi alla perfezione), delle filature in pianissimo, insomma di tutto quel che la tecnica trasforma in un coinvolgimento emotivo per il pubblico; e come dar torto all’una o all’altro? Così l’opera vive, nell’intensità di un’interpretazione, nelle emozioni di chi ascolta.
Il resto della compagnia vocale è apparso di un livello artistico inferiore a quello della protagonista, anche se tutti hanno tentato di affrontare la rispettiva parte con grande professionalità; e non è atteggiamento scontato. Francisco Corujo canta con grazia, ha bella voce, ma troppo leggera per il ruolo di Edgardo; è infatti preda del nervosismo (che gli fa sbagliare alcuni attacchi, oltre che alcune parole del libretto), e prima dell’inizio della seconda parte è annunciato che intende portare a compimento la recita nonostante «una forte indisposizione». Alla complessa scena finale (Tombe degli avi miei … Tu che a Dio spiegasti l’ali) il tenore giunge molto affaticato, e con voce tremula, ma nel complesso non sgradevole; Corujo ha offerto una prova forse discutibile, ma non per difetto di preparazione (il suo fraseggio era anzi in più momenti apprezzabile); più probabilmente per un errore di repertorio.
Serban Vasile è un baritono dalla voce un po’ corta per il ruolo di Enrico; canta con impostazione corretta, dimostra una buona capacità di fraseggiare e opportuno impeto, ma negli acuti l’emissione è forzata e perde gli armonici; esito grave, in una voce che già di per sé non è particolarmente ricca di colori e di vibrazioni. Scenicamente, però, Vasile ha reso molto bene il livore e le paure del personaggio, oltre che la sua truce autorità sulla sorella Lucia. Il Raimondo di Giovanni Battista Parodi è autorevole, dalla voce ben timbrata, anche se con qualche piccolo difetto di intonazione. Molto corretto e musicale l’Arturo di Alessandro Scotto di Luzio, dalla voce chiara, argentina, bene impostata. Un po’ spigolosi l’Alisa di Cinzia Chiarini e il Normanno di Alessandro Mundula. Più che discreta la prestazione del Coro AsLiCo, abbastanza omogeneo nei registri che lo compongono, efficace soprattutto in apertura e nella scena conclusiva dell’opera.
Al di là dei grandi momenti protagonistici, in cui la Pratt ha infiammato di passione il teatro, va detto che anche alcune scene d’insieme hanno sortito un effetto assai espressivo: i duetti tra Lucia ed Enrico prima, Raimondo poi, le comparse del coro, ma in particolare il sestetto Chi mi frena in tal momento, uno dei concertati più affascinanti di tutta la storia del melodramma; a Novara, durante questo numero chiuso, tutto è funzionato alla perfezione, dal velluto orchestrale al tono di rimpianto o di spavento delle singole voci soliste, e poi del coro. E in quel momento la forza d’insieme del teatro musicale si faceva sentire potentissima. Tutti concordavano con Edgardo: «Io son vinto … Son commosso».
Foto Mario Finotti © Teatro Coccia Novara