Intervista a Nicola Sani

Incontro il Maestro Nicola Sani a Bologna presso il Teatro Comunale di cui è Direttore Artistico per parlare del suo lavoro di ricerca nell’ambito della musica sperimentale, poiché rappresenta come compositore italiano la nuova generazione delle avanguardie musicali. Dal 2004 è Presidente della “Fondazione Isabella Scelsi”, dal 2006 al 2009 è stato direttore artistico del Teatro dell’Opera di Roma, membro del board di Opera Europa, associazione con sede a Bruxelles che riunisce i maggiori teatri d’opera europei. Dall’aprile 2011 è direttore artistico del Teatro Comunale di Bologna.  Lo scorso 2012 ho avuto modo di assistere alla prima esecuzione assoluta di un suo  lavoro commissionato da Ex Novo Musica per pianoforte e live electronics con controllo “motion capture”intitolato” No landscape”.
La musica contemporanea si esprime attraverso linguaggi e strutture sconosciuti al grande pubblico vorrei cercare di avvicinare chi ci segue spiegando innanzitutto  cos’è la ricerca della musica nello spazio?
Il rapporto tra la musica e lo spazio mi ha sempre affascinato. C’è uno stretto rapporto con la teatralità, ma teatro non inteso solo come palcoscenico della drammaturgia del suono nello spazio e quindi come rapporto di un fatto esterno che riguarda la drammaturgia dell’ascolto. Il fatto che il suono provenga da diversi punti dello spazio crea una forma di dialogo e di drammaturgia del suono che può prescindere dalla presenza di un palcoscenico.
Tutto ciò ha radici lontane e ti faccio due esempi correlati fra loro. Nel 1570 uno dei più grandi polifonisti inglesi che si chiamava Thomas Tallis ha scritto un mottetto straordinario “Spem in alium”per otto cori di cinque voci, in cui ogni gruppo è disposto nello spazio intorno al pubblico o all’auditorio. Questa disposizione crea un incredibile impatto con la sonorità perchè non solo gli otto gruppi circondano l’ascoltatore,ma in ogni gruppo le voci cantano parti reali, indipendenti ed autonome. È veramente affascinante quello che si crea. Se tu pensi che all’epoca erano appunto queste le uniche forme di rappresentazione, non esisteva l’opera e  non esisteva il teatro musicale. La suggestione che doveva creare l’avvolgimento di voci era incredibile. Pensa alle rifrazioni del suono che ci sono nelle grandi cattedrali!
E’ un rapporto che è proseguito ovviamente anche nella musica contemporanea…
Certo, questo rapporto con la spazialità è stato quello su cui si è basato il Prometeo (1981) di Nono. Luigi Nono(Venezia 1924) nel momento in cui ha rappresentato i vari gruppi orchestrali e i vari solisti come punti sonori nello spazio, ha creato quello che lui aveva chiamato “tragedia dell’ascolto” come rappresentazione nel senso etimologico e tragico del suono. Questa rappresentazione del suono come fosse un fatto scenico, drammaturgico, è legato a Tallis e alle esperienze dei grandi polifonisti che pensano al suono nello spazio. Quindi le radici della spazialità del suono, della ricerca del suono nello spazio sono lontane , antiche e hanno un rapporto molto forte da una parte con la polifonia inglese, e dall’altra come diceva Nono, con la Venezia dei Gabrieli  (Venezia 1500ca.), vedi il doppio organo di San Marco. Quindi questo è un rapporto che la musica del nostro tempo si porta appresso ed ha riscoperto in qualche modo.
Che esista una teatralità al di fuori del teatro e che questa teatralità sia data dallo spazio è cosa affascinante perchè apre delle considerazioni sull’uso per esempio del timbro.
Noi abbiamo pensato spesso al movimento del suono nello spazio, un compositore che ha lavorato molto su questo aspetto è Luciano Berio (Oneglia 1925) con la creazione di “Tempo Reale”, però ancora più interessante di questo è il concetto che quando noi muoviamo un suono nello spazio muoviamo un oggetto finito: prendiamo uno strumento e il suono di questo strumento lo spostiamo da destra a sinistra o sopra e sotto, comunque lo muoviamo spazialmente intorno a noi.  Invece molto interessante è, a mio avviso , decostruire il suono nello spazio, cioè aprire letteralmente il suono come se fossimo davanti ad una scatola magica e dentro questo suono prelevare gli elementi e distribuirli nello spazio. Ecco che un suono, invece che provenire da un unico punto proviene da più punti, dando la possibilità di creare dei punti di energia diversi a seconda del punto in cui siamo seduti e da cui ascoltiamo. Questo ci dà la nozione di prospettiva sonora che è assolutamente nuova. Se tu guardi un oggetto o un edificio dal punto in cui sei, cambierà a seconda del punto di osservazione, hai dunque una visione prospettica. L’idea di un ascolto prospettico è qualcosa che manca nella nostra cultura e cioè il fatto che noi ascoltiamo in maniera diversa a seconda del tipo di zona nella quale siamo posizionati perchè la distribuzione del suono nello spazio è diversa. Quindi abbiamo delle componenti che sono da una parte e delle componenti che sono da un’altra parte, esse stesse provengono però da un unico suono o progetto sonoro. Nella musica di oggi si tende a” comporre il suono” e non “col suono”, comporre il suono significa comporlo non solo sulla carta, ma anche nello spazio, e quindi distribuire energie parziali che fanno parte di un progetto sonoro in più punti nello spazio.
Dunque è questo il concetto di base del tuo ultimo lavoro?
Questo è “No landscape”, che è basato su questa idea . In più a tutto ciò si aggiunge la straordinaria potenza del “Tempo reale”, cioè come ho detto prima, la distribuzione di parziali componenti del suono. Questo è un tipo di procedimento che è stato utilizzato dai compositori a partire dalla seconda metà degli anni 90, ma sulla visione di programmazione, diremmo sulla carta, facendo quasi un lavoro da laboratorio, sezionando il suono e distribuendolo nei punti dello spazio secondo le logiche della partitura. È un processo molto complesso per cui non molto  utilizzato, ma c’è chi lo ha affrontato, soprattutto la famosa scuola spettrale, e chi ha lavorato sul progetto di spazio acustico come il gruppo di ricerca francese “Itinéraire”(Tristan Murail, Hugues Dufourt, Gérard Grisey, Michael Lévinas) che prende le mosse dalle sperimentazioni di Giacinto Scelsi (La Spezia 1905).  Scelsi è legato alla scuola spettrale, quindi in lui c’è una derivazione di questo, ma farlo in “tempo reale” è un fatto nuovo, che ha una grandissima suggestione in quanto questo lavoro di parcellizzazione nello spazio viene gestito direttamente dall’esecutore, dall’interprete, che può quindi intervenire dinamicamente su questo processo.
Si ricrea ogni volta che viene eseguito?
Esatto. In”No landscape”avviene un fatto ancora più interessante: nel “tempo reale” noi siamo abituati a considerare il rapporto tra interprete e l’elaborazione in” tempo reale” come un rapporto dualistico, ovvero l’interprete esegue e chi fa l’elaborazione in tempo reale elabora, cioè modifica. C’è sempre stato anche nelle cose più nuove  di Live Electronics una sorta di demandare da parte del compositore e dell’interprete a chi elabora in tempo reale le funzioni del processo di trasformazione del suono, il cosiddetto Live Electronics. Quindi la presenza di una regia del suono che ha il compito di gestire la parte di elaborazione. Con” No landscape” viene sperimentato per la prima volta un nuovo strumento, risultato di ricerca molto approfondito e messo a punto dal Laboratorio SaMPL di Padova, che è il più importante centro di elaborazione del suono, basato sul dispositivo Phase Space “Impulse”, che utilizza la tecnica del “motion capture”.
In cosa consiste questo sistema”motion capture”?
Consiste nel fotografare, non dal punto di vista di immagine, ma da quello tecnico. Per chiarire userò un verbo sbagliato di origine inglese che è” mappare”. Questo sistema fa una “mappatura” di un determinato spazio, un perimetro che definiamo con l’uso di quattro telecamere che puntiamo nello spazio. All’interno di questo spazio completamente digitalizzato in cui ogni punto corrisponde al punto di una griglia definita dal computer, quindi ad un punto sulla mappa, e ad ogni punto può corrispondere un parametro sonoro. Muovendomi come esecutore all’interno di questo spazio definisco dei cambiamenti nei punti su cui intervengo. Spazio e suono sono dunque direttamente collegati, mentre faccio un cambiamento nello spazio, lo faccio nel suono spazialmente in quanto le quattro telecamere definiscono una porzione d’ambiente che corrisponde  alle coordinate xyz di altezza, larghezza e profondità.

É per questo che trovi ispirazione dal pittore americano Mark Rothko?
Sì, una potente forma d’ispirazione è data da Mark Rothko, che è forse uno dei pittori che hanno più lavorato sull’idea di corrispondenza tra lo spazio fisico e lo spazio mentale. É molto interessante come lui lavorasse su mappature dello spazio e la creazione di queste zone dai contorni indefiniti. Possiamo dire che è l’esplosione nell’arte astratta della suddivisione dello spazio di Mondrian, ma in Rothko diventa una totalità: lo spazio non è più diviso in quadrati, ma questi quadrati assumono delle dimensioni che invadono la tela, con contorni molto sfumati. Quello che mi interessa è di lavorare su questi contorni che io chiamo periferie del suono e che hanno la possibilità di arrivare alle estreme conseguenze nei processi di elaborazione. Quindi “No landscape”è legato sia alla ricerca come paesaggio interiore che   come trasfigurazione del paesaggio reale, quindi un non paesaggio, un paesaggio negato.
É questo che dà il titolo?
Esatto. Viene da una frase di Mark Rothko che dice :”There is no landscape in my work”, quindi non c’è paesaggio nel mio lavoro, perchènon c’è un paesaggio figurativo, è un non paesaggio
Con chi hai collaborato per la realizzazione di “NO ladscape”
Il progetto di “mappatura”di cui il nome tecnico è”motion capture”è stato realizzato da Alvise Vidolin in collaborazione con il Laboratorio SaMPL di Padova. Per il pianoforte live electronics con il maestro Aldo Orvieto.
Nel 2011 ti è stata attribuita dal ex Ministro della Cultura Francese l’onorificenza di” Cavaliere delle Arti e delle Lettere”.Che rapporto hai con la Francia?
Con la Francia ho un rapporto intenso da diversi anni. Ho cominciato a frequentare questo paese negli anni in cui Pierre Boulez (Montbrison1925) ha creato l’IRCAM (Istituto di ricerca e coordinazione acustica Parigi 1975), e soprattutto grazie alla presenza all’IRCAM di una figura molto importante del mondo scientifico e del rapporto tra musica e scienze che è il fisico italiano Peppino Di Giugno che ha creato tutta la struttura scientifica dell’IRCAM ed è stato il padre del primo sistema digitale 4x, vale a dire il primo sintetizzatore di suono in tempo reale sul quale Boulez ha basato la scrittura di “Répons”nel 1981. Con Peppino Di Giugno si è aperto un rapporto importante ed in seguito ho avuto regolari commissioni dal governo francese a partire dalla seconda metà degli anni 90 sia per il Festival di Bourges, ho fatto molte composizioni per Radio France e soprattutto per il gruppo di ricerca musicale di Radio France(Groupe de Recherches Musicales Paris 1958), gruppo storico per la ricerca elettronica che fu creato da Pierre Schaeffer. Ho inoltre lavorato in alcuni centri di produzione  come il CIRM (centre National de création Musicale) di Nizza che ha coprodotto la mia ultima opera dedicata alla vicenda del giudice Falcone “Il tempo sospeso del volo”. Le molte frequentazioni di festival e di progetti in collaborazione con varie istituzioni francesi e l’apporto che ho dato alla ricerca nel campo della musica  di Giacinto Scelsi, l’apertura dell’archivio Scelsi e la pubblicazione integrale in Francia della sua opera  hanno portato l’allora ministro Mitterand a conferirmi questo onore di cui sono particolarmente fiero. Premia un percorso della mia attività, sia nel campo della composizione, sia nel campo dell’organizzazione musicale e promozione della nuova musica.
Sei direttore artistico di un teatro d’Opera “tradizionale”, ma anche compositore sperimentale. In che modo ti rapporti o ti scontri con il teatro d’Opera .
Vivo il mio rapporto con il teatro d’Opera e quindi con la componente più classica dell’organizzazione musicale cercando di portare il mondo delle fondazioni liriche del nostro paese su quei territori e quegli ambiti di programmazione che oggi sono divenuti un fatto comunemente accettato in tutta Europa e nel mondo. Oggi i teatri d’opera sono particolarmente attenti alle nuove creazioni nel campo dell’Opera, ma anche al modo nuovo di proporle, di proporre il repertorio tradizionale.  Assistiamo ad un rinnovamento generale non solo dei teatri d’opera, ma nel concetto di fare Opera. L’Opera in tutto il mondo viene vista come una nuova forma di linguaggio in cui confluiscono i vari linguaggi artistici, come le arti visive, il suono, il movimento eccetera. In Italia siamo rimasti, da questo punto di vista, un po’ indietro, e quindi determinate esperienze il nostro paese non le ha mai vissute, non sono mai state rappresentate se non sporadicamente e quasi sempre con sospetto.
Hai vissuto in Germania e sei stato allievo di Stockhausen…La Germania è indubbiamente la Patria della cultura musicale contemporanea…
Diciamo che la Germania ha vissuto un progetto di rinnovamento dal dopoguerra. Darmstadt nasce sulle ceneri della seconda guerra mondiale, ma come progetto di rinnovamento della società, profondo, radicale e quindi la Neue Musik nasce dalla Germania della ricostruzione e dall’Europa della ricostruzione e quindi sposa dei contenuti completamente diversi e di rottura con il passato. Da questo punto di vista bisogna dire che c’è stata una reazione netta rispetto al repertorio tradizionale che in Italia non c’è stata.
Il pubblico dei melomani ancora fatica a capire le novità, ma non mancano nemmeno i direttori d’orchestra che contestano ai registi una mancanza di rispetto delle partiture…
Questo è un fatto che dimostra un ritardo da parte nostra di non essere riusciti a capire che l’opera come altre forme d’arte del ventesimo secolo si deve evolvere. Ad esempio il teatro di prosa si rinnova: i registi oggi non rappresentano le pieces teatrali come all’epoca.
I direttori d’orchestra devono essere fedeli alla partitura o interpretarla?
E’ difficile generalizzare in questo campo perché dipende da come ci sono arrivate le partiture. Per esempio il lavoro che ha fatto Claudio Abbado su Musorgskij è stato importantissimo perché ha tolto molte incrostazioni dalle partiture e i riempitivi che erano stati aggiunti da Rimskij-Korsakov e da altri. Questo lavoro ha permesso di mettere in valore l’orchestrazione di Musorgskij che è molto interessante e a cambiare l’idea che si era affermata nel tempo e cioè che Musorgskij non sapesse orchestrare. Ci sono molti compositori su cui è stato fatto un lavoro di riedizione critica molto importante come quello straodinario che la Fondazione Rossini ha fatto.
Anche per un compositore come Verdi?
Sì. E’ in atto un percorso di revisione e recupero grazie ai molti direttori che ne hanno messo in evidenza le carenze. La partitura non è un fatto astratto, bisogna vedere caso per caso, con quale testo ci confrontiamo. Dopodichè c’è l’ambito interpretativo che è molto importante. Non possiamo togliere ad un interprete la volontà di dare il suo segno al testo che sta eseguendo, certo bisogna considerare i limiti così come nelle regie. Non sto dicendo che tutte le regie moderne solo perché sono tali siano interessanti. Ci sono delle emerite sciocchezze che vengono messe in scena, anche perché c’è una gratuità da questo punto di vista e proprio in Germania assistiamo a regie assolutamente insostenibili. Bisogna vedere la coerenza del regista, la capacità di mettere in scena un lavoro. Quando vedo la trilogia mozartiana di Peter Sellars lo considero un lavoro interessante. Ambientare il Don Giovanni nel Bronx lo considero coerente con tutta la narrazione, è assolutamente accettabile e plausibile, ha una tenuta dal punto di vista teatrale e una sua logica.
Durante il periodo in cui eri Direttore Artistico del Teatro dell’Opera di Roma nel 2009 hai voluto come regista Bob Wilson per una nuova produzione dell’Aida di Verdi. Oggi che ricopri questo incarico al  Comunale di Bologna lo hai richiamato per il Macbeth che ha inaugurato la nuova stagione.  Sei quindi, un convinto sostenitore di questo regista…
Mi interessa molto Bob Wilson perché è un artista, non soltanto un regista, ma un artista a trecentosessanta gradi e quindi il suo rapporto con la scena visiva è un rapporto che spazia su tutte le dimensioni visive. Mi interessa che l’Opera oggi possa costituire una forma d’arte che attraversa vari linguaggi e per questo uso la parola intermediale e non multimediale perché mette in rapporto i vari codici. Wilson ha lavorato molto su Shakespeare e il “Macbeth” di Verdi di tutte le opere di ispirazione shakespiriana è quella più aderente al testo.
Cosa ti aveva colpito nella sua Aida?
Mi aveva particolarmente affascinato perché per la prima volta l’ ho vista fuori  da tanti stereotipi completamente inutili e fasulli e soprattutto in cui lo spazio di un’opera intima poteva avere finalmente ragione.”Aida”non è un’opera grandiosa, è un’opera intima , quasi cameristica, con al centro una grande scena. Questo Wilson l’ha colto perfettamente. Vi ho trovato gli spazi di James Jarrell e le luci di Luxor, aldilà di tanti pretesi realismi di piramidi, di sfingi di cartapesta ed elefanti più o meno veri. La luce di Wilson  è la luce di Luxor, che io ho visto quando sono stato in quei luoghi, quindi paradossalmente se c’è una forma di verismo, passatemi la parola, è molto di più: il colore rosso della terra e quell’azzurro unico, lui è riuscito a portarli nel palcoscenico. Sono gli spazi e i silenzi di Verdi perché l’Aida comincia con un preludio che porta verso il silenzio, non verso il frastuono e la sovrabbondanza. L’idea di un teatro che lavora nell’essenzialità e nell’introspezione psicologica mi è sembrato l’ideale per il “Macbeth” di Verdi. E’ un ‘opera basata sulla follia della psiche, sul delirio dell’onnipotenza ed è un ‘opera profondamente introspettiva, che richiama da una parta Shakespeare e dall’altra Becket . Wilson è l’artista che più ha lavorato su questi autori nell’ambito del teatro contemporaneo. Tutto ciò unito all’interpretazione musicale di Roberto Abbado, che oggi è sicuramente uno dei nostri direttori verdiani più importanti e apprezzati nel mondo, penso che siano elementi sufficentemente convincenti per pensare di proporre il “Macbeth” con questi due grandi artisti come inaugurazione dell’anno Verdiano al Teatro comunale di Bologna.
Sei un uomo molto impegnato. Come concili tutto ciò con la vita privata?
Devo dire che faccio di tutto per trovarmi degli spazi. Ho una moglie e due figli bellissimi a cui cerco di dedicare più tempo possibile. Certo vivere tra Roma ,Bologna e il resto del mondo non mi aiuta, ma cerco di fare del mio meglio. Ah dimenticavo…I miei figli studiano musica!