Bari, Teatro Petruzzelli:”La muette de Portici”

Bari, Teatro Petruzzelli, Stagione Lirica 2013
“LA MUETTE DE PORTICI”
Grand-opéra in cinque atti su libretto di Eugène Scribe e Germain Delavigne.
Musica di Daniel-Francois-Esprit Auber
Alphonse, figlio del duca d’Arcos  MAXIM MIRONOV
Elvire, sua fidanzata MARIA ALEJANDRES
Masaniello, pescatore MICHAEL SPYRES
Fenella, sua sorella, la muta  ELENA BORGOGNI
Pietro, pescatore CHRISTIAN HELMER
Borella DOMENICO COLAIANNI
Selva MIKHAIL KOROBEINIKOV
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli
Direttore Alain Guingal
Maestro del Coro Franco Sebastiani
Regia Emma Dante
Scene Carmine Marignola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Cristian Zuccaro
Produzione Opéra  Comique, Parigi  in collaborazione con  Théâtre Royal de la Monnaie, Bruxelles,
Palazzetto Bru Zane – Centre de musique romantique française
Bari, 11 marzo 2012
La stagione del Petruzzelli di Bari continua a imperniarsi sull’eccellenza dei nomi che ne firmano le regie: dopo l’Otello di Nekrosius è la volta della Muette de Portici di Emma Dante, messa in scena lo scorso anno all’Opéra Comique di Parigi in coproduzione con il Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles. Il riconosciuto prototipo del grand-opéra parigino costituì un unicum nella storia del melodramma per l’ardito tentativo di affidare il ruolo di protagonista femminile a una danzatrice (Lise Noblet) che sopperiva con l’eloquentia corporis al mutismo del personaggio di Fenella, sorella del pescatore capopopolo Masaniello. Dall’ibridazione tra il Rossini francese, le opere magniloquenti di Cherubini e Spontini e il ‘micheymousing’ delle partiture scritte per i mélodrames di Pixérécourt e del teatro di boulevard, nel febbraio 1828 sortì un prodotto drammaturgico talmente innovativo da non individuare possibili eredi. Proprio l’unicità della Muette ha affascinato Emma Dante che in quell’opera, onnipresente nei manuali di storia dell’opera ma inesorabilmente uscita dal repertorio, ha intravisto la possibilità di sviluppare un percorso sulla gestualità e sulla corporeità che tanto interessano il suo teatro. Le musiche di Auber pensate per lo stilizzato pantomimo della Noblet si sono dovute così adattare alla mimica ferina dell’attrice Elena Borgogni che ha letto Fenella in chiave espressionista, dandole movenze di preda braccata la cui unica difesa da un mondo ostile è data da una sottile écharpe, pegno d’un amore perduto (ma quella stessa sciarpa rossa diventerà il simbolo prima di una spirale stritolante poi della lava vesuviana).
La Dante ha dunque lavorato sul corpo e su oggetti-simbolo (veli da sposa, croci, porte, coltelli) in una logica di sottrazione e di essenzialità che ha pervaso le scene del suo collaboratore (dal 2005) Carmine Marignola, costituite da porte innestate su carrelli mobili, capaci di definire grazie al loro potere iconico – ben noto ai creativi della Pixar quando confezionarono Monsters, Inc. – ora la casa di Masaniello, ora il palazzo o gli appartamenti del duca d’Arcos. Per le scene ‘marine’ e ‘aperte’ semplici lenzuoli di seta mossi dal vento conferivano dinamismo e ariosità a un impianto scenografico che, paradossalmente, nella sua scarnificazione risultava opulento, forse in virtù della raffinatezza visiva delle luci di Cristian Zuccaro (collaboratore della Dante dal 2000) o forse grazie ai costumi scanzonati di Vanessa Sannino (suoi gli abiti per la Carmen scaligera del 2009 curata sempre dalla Dante) che reinterpretavano la moda del Seicento spagnolo con una visionarietà grottesca sospesa tra Tim Burton e la metafisica di Savinio, De Chirico e Carrà. Culmine di questo teatro celebrativo di un connubio tra gestualità e fisicità è stato l’epilogo tragico che ha declinato nel simbolismo visivo la scena mèlo di Fenella suicida in concomitanza dell’eruzione del Vesuvio: salita rapidamente su un’irta scalinata l’attrice entrava in un enorme drappo rosso che immediatamente veniva calato per mostrare Fenella già santificata con tanto di aureola e collocata in un’edicola votiva nella posa macabra dei tanti santi patroni (e subito la mente andava alla Sicilia arcaica, al devozionismo cruento, all’idea di corpo mutilato che intride le fantasie teatrali di Emma Dante).
Tra le sfide allestitive insite nella riproposta dalla Muette c’è n’è una di particolare insidiosità: come realizzare i balletti che agli occhi contemporanei appaiono l’elemento drammaturgico più datato, sul quale grava il peso dell’esotismo di maniera tanto caro al pubblico parigino di primo Ottocento? Qui si è optato per depauperarli di ogni legame con l’originaria eleganza e renderli brutali, scomposti, estremamente acrobatici; non a caso Sandro Maria Campagna (collaboratore dal 2006 con la compagnia della Dante) è specializzato in combattimento atletico ed è stato in grado di creare un’osmosi tra la tensione del personaggio muto e quella di una coralità rabbiosa (di particolare impatto è stata la completa nudità dei danzatori che alla fine del III atto rendeva con icasticità la violenza della rivoluzione popolare riversata sulle truppe spagnole, denudate e crivellate di colpi).
Si è insistito nel sottolineare la pregressa collaborazione tra regista, attrice, scenografo, light designer, coreografo, costumista per spiegare l’inusuale compattezza poetica di questo spettacolo che pare ideato da un unico ‘cuore’ che alimenta diversi ‘cervelli’. Di fronte a tanta coerenza le scelte del direttore Alain Guingal in qualche modo sono state facilitate: la sua preoccupazione si è concentrata sull’esaltazione della ricca simbologia orchestrale (quel micheymousing di cui si diceva sopra), alleggerendo in alcuni punti la primigenia orchestrazione e decurtando altrove qualche pagina indigeribile (spicca il taglio del bolero nel I atto). La giovane orchestra del Petruzzelli è parsa tuttavia in affanno, specie la sezione degli ottoni; pregevoli invece gli archi capeggiati da Pacalin Pavaci nel risolvere i numerosi passaggi quasi paganiniani la cui spigolosità fu lamentata da Berlioz e da Wagner. Non sempre lucida la prova del coro diretto da Franco Sebastiani, qui alle prese con dinamiche e agogiche cangianti e con una densità polifonica quanto mai complessa. Del cast vocale parigino l’allestimento barese conservava solo i due tenori Maxim Mironov (Alphonse) e Michael Spyres (Masaniello), entrambi ottimamente calati nei personaggi: leggero e rossiniano il primo (ma di volume limitato, tanto da non superare in più occasioni la buca dell’orchestra), reboante il secondo. Spyres ha affrontato con coraggio le incursioni nelle zone sovracute in falsettone e ha saputo affondare la voce nei brani di tessitura grave senza perdere volume e chiarezza di dizione; intenso sul piano scenico, ha modulato con sapienza il registro eroico (si veda il celeberrimo duetto del II atto con Pietro che infiammò i patrioti belgi) e quello patetico (memorabile per limpidezza di emissione ed espressività l’interpretazione della cavatina con cui Masaniello consola la sorella all’aprirsi del IV atto). Ottima anche la prova del soprano messicano Maria Alejandres la cui Elvire non invidiava nulla alle protagoniste rossiniane per ricchezza di coloratura e brillantezza di timbro. Brunito il timbro del sempre bravo basso-baritono Domenico Colaianni (Borella) affiancato dall’ottimo baritono Christian Helmer/Pietro e da ben preparate parti di fianco (Miguel Àngel Lobato/Lorenzo, Mikhail Korobeinikov/Selva). Coesi negli ensembles a cappella e in perfetta interazione con la compagine corale, tutti i cantanti hanno garantito una tenuta drammatica non facile da ottenere lungo cinque grandi ‘affreschi’ dove di fatto la logica del pezzo chiuso viene meno (e Wagner lo notò bene). Il pubblico non per caso è rimasto incerto se applaudire o meno a conclusione di quello che credeva fosse la fine di un ‘numero’ e che invece si connetteva con un coro, un finale o una scena. Di certo ha assistito – seppur non numeroso – a uno spettacolo unico, irripetibile.  Foto Carlo Cofano