Interviste d’annata: Paolo Montarsolo (1925-2006)

Dopo la prova generale di Cenerentola, una delle opere che la Scala portò negli USA per festeggiare il “bicentennial”, il basso Montarsolo mi concede un’intervista nel suo appartamento all’Hotel Watergate, vicino al Kennedy Center dove andavano in scena gli spettacoli scaligeri. Da buon napoletano, Montarsolo, è un grande conversatore, simpaticissimo, amabile e ricco di notizie per me importanti.
Gentile Paolo sono curioso di avere notizie della sua grande carriera…tu hai detto che facevi parte de “I cadetti della Scala”
«Giulio Confalonieri era il direttore della scuola. Erano anni particolarmente felici: c’era la Ligabue, la Cossotto, Mariella Adani, Luigi Alva, Tadeo, Ivo Vi
nco e tanti altri. Siccome era tutte voci di rilievo si pensò di far agire praticamente questi giovani con delle operine non molto impegnative ed io cominciai così la mia carriera di basso “buffo” interpretando opere del ‘700 spesso di autori napoletani come Cimarosa, Scarlatti, Pergolesi; Paisiello: il folclore napoletano. Sono tutti lavori molto simpatici, il soggetto era sempre buffo, spesso in dialetto napoletano ed io mi trovavo a casa. Mi chiesero se volevo continuare in questo ruolo, perché avevano notato che ero portato nel genere e così continuai, devo dire, con un certo successo. Mi dicono che avrei potuto fare il basso cantabile, ma non so cosa avrei fatto con la mia voce per cui va bene così». Conclude con un sorriso poi mi guarda in attesa della prossima domanda.

Parliamo un po’ del suo debutto….
«Posso dire che per me ci sono stati due debutti; il primo è stato nel Werther e lo ricordiamo sempre con tenerezza, io e Ilva Ligabue. Nel primo atto, verso la fine, ci sono due giovinetti innamorati che entrano in scena tenendosi per mano, guardandosi negli occhi e sospirando dicono il nome di un poeta, lui Brülhmann dice “Klopstock” e lei Kathchen risponde cantando “Oh, gran Klopstock!”. Questa fu la prima cosa che feci in palcoscenico ed ero molto invidioso della Ligabue che aveva tre parole da dire, mentre io ne avevo una sola. Ma il debutto vero e proprio avvenne a Bologna dietro invito di quel grande direttore artistico che stato Mario Missiroli il quale mi affidò la parte di Lunardo nei Quattro Rusteghi di Wolf Ferrari. La compagnia era importante, c’era Alda Noni, Cloe Elmo, Melchiorre Louise, Alvino Misciano, direttore Nino Verchi: andò molto bene».
Mi sembra che molti dei suoi personaggi abbiano un sapore…”napoletano”, anche se Don Magnifico della Cenerentola non viene dai “quartieri spagnoli” e Mustafà dell’Italiana non è certo di “fuorigrotta”.
«La domanda è interessante e la risposta è: non lo so. Per me avviene tutto inconsapevolmente; io non mi accorgo di mettere qualcosa che si rifà al folclore napoletano. Tu sai che l’opera buffa è nata a Napoli dalla commedia dell’arte; c’era il lazzo sul palcoscenico, lo sfottò anche pesante che oggi non si potrebbe più fare. Per me il primo come importanza è stato Cimarosa che ebbe la fortuna di avere dei libretti spassosissimi, tutti ben intrecciati come trama e spesso in napoletano. Ripeto che per questo aspetto sono del tutto inconsapevole: la “sceneggiata” è insita nel carattere del napoletano. Dovresti vedere una litigata oppure assistere ad un momento di grande gioia: due situazioni antitetiche in cui il napoletano fa la sceneggiata, sta recitando la parte di quello che litiga o di quello che gioisce, perché sa di essere guardato e inconsciamente recita. Due grandi autori/attori napoletani, Eduardo e Peppino De Filippo hanno tratteggiato in maniera straordinaria questi caratteri che io, senza volerlo, ho trasportato anche in autori non napoletani come Rossini e Donizetti».

Adesso siamo negli Stati Uniti,  come risponde un pubblico che non capisce l’italiano?
«E’ un problema importante e molto dibattuto. Ti faccio un esempio. Io vado spesso a Düsseldorf che ha un grosso teatro, e vicino, a Duisburg, c’è un altro teatro importante, tanto che possono fare due prime. Lì ho fatto Cenerentola, l’Italiana, il Barbiere e ho sentito che la stragrande maggioranza dice di preferire il testo italiano. Poi c’è anche chi dice che vorrebbe capire le parole. A volte fanno una doppia prima: una in italiano e una in tedesco. In Italia invece succede un fenomeno diverso. L’italiano è più scanzonato e forse, non me ne vogliano gli stranieri, più intelligente, ma non si applica. Il nostro pubblico va a teatro, ma non ci pensa lontanamente a prepararsi prima, nel caso di un’opera in lingua straniera. Il pubblico inglese, tedesco, austriaco arriva preparato ed io me ne accorgo dalle risate fatte al momento giusto; capisco che hanno letto il libretto e sanno quello che succede. Il nostro pubblico non lo fa e ci sono certe opere in cui la conoscenza del testo è molto importante; ti faccio due esempi: Wozzeck e Il Cavaliere della rosa. Pochi sono quelli che vogliono il testo originale e non la traduzione, che per il Rosenkavalier sarebbe ancora più ardua essendoci dei pezzi in dialetto viennese. Pochi sono quelli che capiscono. Pochi sono quelli a cui importa. Ahimè, noi Italiani siamo fatti così!»

Ho sempre notato che le sue interpretazionei si caratterizzano da un grande forza del gesto, su come muove le mani e su una  mimica facciale così efficace e veramente unica.
«Anche a questa domanda potrei rispondere come prima: non lo so. Per quanto mi riguarda è del tutto naturale, guai se ci penso. Dopo questa chiacchierata, infatti, voglio dimenticare del movimento delle mie mani. E’ una cosa di cui hanno parlato anche i critici facendo mille congetture, ma ti assicuro che è tutto spontaneo così come la mimica facciale: non mi metterei mai di fronte a uno specchio a guardarmi! Devi essere consapevole che esprimi una certa cosa che ti deve venire dall’interno. Mia sorella tiene il conteggio delle opere che ho fatto e, ad oggi, sono arrivato a 179 titoli. Dico questo perché sono passato attraverso tutte queste esperienze senza mai aver programmato le espressioni del viso e il movimento delle mani. Ormai, data la mia lunga carriera, parlo ai giovani e per i giovani, né vorrei essere tacciato di superbia, ma esiste una sola parola: il talento. Come regista vedo subito nel giovane il bagaglio artistico di cui dispone. Ci sono giovani dotati di buona voce che ripetono molto bene quello che vuole il regista, ma non aggiungono nulla di personale; non si nota quella piccola scintilla che è il talento. Intendiamoci: non è che il talento ti debba portare a far cose non richieste, ma il talento, se c’è, ti permette di aggiungere un respiro, un’espressione tutto calzante con le direttive del regista, ma tue. Non voglio fare il vecchio brontolone, ma oggi le cose sono molto cambiate. Noi arrivavamo a fare il nostro concorsino e poi venivamo scelti così, in maniera un po’ naïf. Oggi ci sono tante strade per arrivare ai teatri per cui ci trovi di tutto: quelli con la voce senza talento, quelli con talento senza voce e anche quelli con voce e talento, ma sono pochi».

Nei tuoi personaggi ha molta importanza anche il trucco teatrale.. è palese la sua maestria anche in questo settore.
«Anche questa è una buona domanda che mi permette di ritornare a quel periodo felice passato alla scuola della Scala dove c’era un insegnante di truccatura. Era un tenore comprimario, Luciano Della Pergola, maestro nel trucco. Veniva da noi e ci faceva mezza faccia, lasciando a noi completare l’altra metà. Poi ognuno di noi lo faceva secondo il talento personale. In carriera ho fatto sempre da me, perché sono sempre stato portato per il disegno e la pittura. I problemi maggiori si incontrano quando, su un viso giovanissimo, devi fare la persona anziana e nella lirica è una situazione frequente. Nel teatro di prosa è più facile trovare un attore con l’età vicina a quella del personaggio da interpretare, ma da noi no. Ci vuole la voce fresca e non importa se devi fare Oroveso, Mosè o l’Inquisitore. Il giovane, io per primo, usa molto colore, troppo. Oggi andando avanti negli anni ne metto molto poco. Se hai un sopracciglio basso è inutile disegnarlo più alto: l’importante è che si muova». Intervista raccolta il 4 settembre 1976