«Pronta a scoppiar la folgore del ciel!» Ancora Don Carlo a Torino (cast alternativo)

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2012-2013
“DON CARLO”
Opera in quattro atti, libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle, dal poema drammatico Don Carlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller. Traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini.
Musica di Giuseppe Verdi
Don Carlo, infante di Spagna  HUGH SMITH
Elisabetta di Valois  SVETLANA KASYAN
Filipo II, re di Spagna  GIACOMO PRESTIA
Rodrigo, marchese di Posa  DALIBOR JENIS
La principessa Eboli  ANNA MARIA CHIURI
Il grande Inquisitore  MARCO SPOTTI
Un frate  ROBERTO TAGLIAVINI
Tebaldo, paggio di Elisabetta  SONIA CIANI
Voce dal cielo  ERIKA GRIMALDI
Il conte di Lerma  ALEJANDRO ESCOBAR
Un araldo del re  LUCA CASALIN
Deputati fiamminghi  FABRIZIO BEGGI, SCOTT JOHNSON, FEDERICO SACCHI, RICCARDO MATTIOTTO, FRANCO RIZZO, MARCO SPORTELLI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia, scene e costumi Hugo de Ana
Coreografia Leda Lojodice
Luci Sergio Rossi
Allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 23 aprile 2013    

Del Don Carlo con cui il nuovo Teatro Regio di Torino ha celebrato il proprio quarantennale si è parlato diffusamente (vedi la recensione della prima rappresentazione). Merita soffermarsi ancora sullo spettacolo, che con la seconda compagnia conclude le nove recite complessive? La risposta è positiva, e triplice: in primo luogo anche gli interpreti alternativi (cui sono state affidate quattro recite) sono di livello ragguardevole e degni di menzione; dopo Torino, inoltre, il Don Carlo diretto da Gianandrea Noseda nell’allestimento di Hugo de Ana andrà in scena al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi; e infine va segnalata un’iniziativa parallela al Don Carlo, apprezzabile dai frequentatori del teatro torinese anche nei due mesi a venire. Fino al 30 giugno è infatti aperta all’interno del Foyer del Toro la mostra Il Regio, la fabbrica dei sogni, curata da Paola Giunti e Simone Solinas, che racconta la storia del nuovo Regio a partire dalla distruzione del vecchio teatro, con fotografie, cimeli, documenti storici, video, pannelli illustrativi, bozzetti e costumi di scena. Prima delle rappresentazioni e durante gli intervalli si ha così la possibilità di ammirare esemplari originali di opere molto rare inerenti al vecchio Regio – la sala più capace d’Europa con i suoi 2500 posti -, bruciato nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 1936 a causa di un incendio scoppiato sotto il palcoscenico: per esempio le incisioni originali da Il nuovo Regio di Torino apertosi nell’anno 1740. Disegno del Conte Benedetto Alfieri (Torino 1761); la tavola che riproduce il teatro nel vol. X dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert (Lucques 17752); i progetti che si susseguirono nei decenni dopo il rogo, fino a quello vincente di Carlo Mollino, che è il protagonista della mostra in quanto progettista e architetto del nuovo teatro.
A partire dalla recita del 17 aprile, Barbara Frittoli è stata sostituita nella parte di Elisabetta da Svetlana Kasyan anche quando era prevista la prima compagnia; è quindi opportuno iniziare con questa cantante la rassegna delle nuove voci. Artista dai tratti vocali solidi e omogenei, la Kasyan si adatta bene al ruolo, soprattutto nei momenti più drammatici ed enfatici; al contrario, in quelli più elegiaci, quando il tempo musicale e l’orchestrazione potrebbero favorirla, emergono alcuni difetti, come la non sempre impeccabile intonazione (per esempio nella struggente romanza «Non pianger mia compagna» del I atto), forse dovuta a una naturale stanchezza. Colore e intensità sono però quelli giusti sia nel quartetto del III atto sia nella grande aria solistica del IV, «Tu che le vanità conoscesti del mondo».
Anna Maria Chiuri è un mezzosoprano dal colore vocale piuttosto chiaro, ma del tutto a suo agio come Principessa Eboli, precisa ed espressiva; accusa qualche oscillazione di troppo negli acuti, ma sa alleggerire con grande tecnica – per esempio – alcuni passaggi di agilità nelle cadenze della “Canzone del velo” del I atto, dimostrando anche buon gusto interpretativo. La sua versione dell’aria «O don fatale», nel finale del III atto, è molto convincente, e determina l’applauso più prolungato nel corso dei quattro atti (secondo soltanto a quello della scena di Filippo II, «Ella giammai m’amò»). Tecnica e personaggio sono quindi fuori discussione; è piuttosto la voce stessa della Chiuri a non risultare sempre del tutto musicale, a causa di risonanze puntute e spigolose nell’emissione, che l’artista dovrebbe modulare in maniera più pacata e accorta.
Giacomo Prestia, basso ben noto al pubblico torinese (da ultimo Oroveso nella Norma dell’anno scorso), ha voce dal volume non comune, e riesce a imporre in ogni momento l’auctoritas che il personaggio di Filippo II richiede: perfetto nel duetto con Rodrigo così come nell’auto da fé, infiamma il pubblico con la grande scena solistica che apre il III atto («Ella giammai m’amò»), e si contrappone ancora meglio al Grande Inquisitore di Marco Spotti. L’unica osservazione che si può muovere a Prestia è che la continua tenuta di grandi volumi sonori a volte produce qualche oscillazione della voce; ma il suo Filippo è pienamente convincente, e trionfa nell’apprezzamento del pubblico. Dalibor Jenis, che qualcuno ricorderà quale ottimo Valentin nel Faust scaligero del 2010, è un Rodrigo magnifico, dalla voce ferma, omogenea, brunita al punto giusto per differenziarsi da quella di Filippo nel duetto del I atto, e per imporsi come eroico martire nella scena del carcere di Carlo, nel III. Purtroppo alcune frasi del baritono risultano coperte dalle sonorità orchestrali ipertrofiche del direttore, specialmente nella romanza «Io morrò ma lieto in core», che Jenis canta con notevole espressività ed eleganza.
Da ultimo si vuole considerare la prova del tenore nella parte protagonistica: Hugh Smith associa una voce potentissima, di timbro non troppo chiaro, dotata anche di discreti armonici, a caratteristiche vocali davvero anomale. Il problema principale di questo cantante è l’appoggio, ossia il principio della fonazione, perché più si innalza il tono più tale punto di appoggio indietreggia nel canale fonatorio, producendo suoni in parte ingolati, ma soprattutto sguaiati. Ogni acuto si tramuta in una specie di ululato, che rende inevitabilmente comica tutta la disperazione di don Carlo; il tenore cerca di bilanciare la difficoltà di fonazione e la disomogeneità di registro puntando sull’effetto volumetrico, che in effetti sorprende. Ma tale impostazione, puramente quantitativa e alla lunga stucchevole, si rivela controproducente, perché mette a nudo l’inesistenza del fraseggio e l’estremo disagio con la pronuncia italiana. Al culmine della scena dell’auto da fé Smith è talmente preoccupato per il famigerato si naturale nella frase «Sarò tuo salvator, popol fiammingo, io sol!», da smarrirsi, sbagliare le parole, disattendere ogni richiesta espressiva del testo; alla fine, paradossalmente, l’acuto è emesso in modo corretto, anche con un certo squillo, ma tutto quel che sta attorno alla puntatura è completa desolazione.
Tutti i comprimari (già presenti insieme ai cantanti della prima compagnia, fatta eccezione per il Conte di Lerma di Alejandro Escobar) confermano la loro preparazione e correttezza professionale, insieme al coro del Teatro Regio. Si è invece riscontrata una sensibile trasformazione delle sonorità orchestrali, nella direzione di Noseda, rispetto alla prima rappresentazione: il direttore abbandona qualunque freno, senza accorgersi del rischio di occultare alcune voci, specie in determinati passaggi. Forse, fidando nell’oggettiva grandezza delle voci di Prestia, di Jenis, della Kasyan e dello stesso Smith, Noseda si è sentito sicuro nell’amplificazione del volume strumentale, soprattutto negli attacchi e nella clausole delle varie scene; ma le reboanti sonorità da concerto sinfonico non giovano né ai cantanti né all’interpretazione dell’opera: sono piuttosto un compiacimento superfluo, che stupisce in un direttore tanto intelligente ed esperto. Al termine dell’opera tutti ricevono grandi e prolungati applausi: particolarmente festeggiati Prestia, la Kasyan, Jenis. A Noseda è riservata una vera ovazione: insieme allo straordinario ventaglio cromatico degli strumenti, hanno persuaso il tono assertivo, le idee chiare (e anche la voce grossa).