A Torino la luce del “Messiah” di Händel

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Ottavio Dantone
Soprano Carolyn Sampson
Tenore Jeremy Ovenden
Controtenore Tim Mead
Basso Josef Wagner
Coro Maghini
Maestro del coro Claudio Chiavazza
Georg Friedrich Händel: “The Messiah”, oratorio in tre parti HWV 56 per soli, coro e orchestra, su testo di Charles Jennens, basato su fonti bibliche 
Torino, 12 aprile 2013

La stagione dell’OSN RAI presenta a distanza di una settimana i due titoli più importanti della storia dell’oratorio: prima Die Schöpfung di Haydn, e ora The Messiah di Händel. L’ordine è anticronologico, poiché la prima è stata composta tra 1796 e 1798, ma è il secondo a imporsi come modello archetipico, risalendo agli anni 1741-1742, più di mezzo secolo prima. Forse anche l’ascoltatore di oggi si domanda quale sia il senso della proposta di un oratorio (anzi, due) all’interno di una stagione sinfonica, oltre all’indiscutibile valore musicale della composizione di Händel (che guarda comunque allo stile dell’opera italiana); a rispondere valga un giudizio di Fedele D’Amico scritto nel 1974, riferito all’uditorio londinese di metà Settecento cui il compositore si rivolge: «In luogo del cristallizzato soggetto mitologico o grecoromano o cavalleresco dell’opera italiana del tempo, ancor più allontanato dalla lingua straniera, l’oratorio offriva l’argomento tratto dalla Bibbia, questo folklore della civiltà britannica, e in lingua inglese, e inteso in funzione di epos nazionale: gli eroi del popolo ebreo come imperialistica allegoria del nuovo popolo eletto». Tra moduli melodrammatici, crestomazie bibliche, novità di linguaggio, identificazioni nazionali, e soprattutto massiccia presenza corale, c’è quanto basta per affascinare anche il pubblico internazionale di oggi, sul piano storico-culturale come su quello estetico-musicale; alla fine, il Messia è sempre amatissimo perché è di Georg Friedrich Händel.
Il direttore Ottavio Dantone, uno dei massimi specialisti italiani della produzione musicale barocca, è molto attento a contenere le sonorità entro un recinto ben delimitato, ma anche a diversificare i ritmi dei vari numeri, con un effetto complessivo che è di compostezza e di dinamicità. Per esempio nell’aria del controtenore in cui s’inserisce anche il coro («O thou that tellest good tidings to Zion», O tu che rechi la buona novella a Sion), Dantone misura ogni sonorità sulla voce del solista, in modo che quando subentra il gruppo corale la polifonia diventi la vera protagonista. Ma non per questo sono trascurati quegli effetti imitativi così importanti nello stile dell’oratorio (di cui si è detto a proposito della Creazione di Haydn): nell’aria del basso «The people that walked in darkness» (Il popolo che camminava nelle tenebre) il suono delle viole e dei violoncelli rende perfettamente l’ambientazione di metaforico notturno evocata dalle parole di Isaia.
Il direttore dispone di un quartetto vocale ragguardevole, di specialisti del repertorio barocco. Jeremy Ovenden ha cantato alla RAI anche nella Creazione di Haydn, senza convincere del tutto; ora, con la vocalità di Händel e soprattutto con la pronuncia dell’inglese, sembra più a suo agio; la voce corre fluida, anche se sin dalla prima, intensa aria «Comfort ye, comfort ye My people» (Consolati, consolati, popolo mio), le agilità risultano semplificate, quando non spianate; e ritornano le difficoltà negli acuti, già riscontrate per Haydn (ora in particolare nella difficile aria a conclusione della II parte «Thou shalt break them with a rod of iron», Tu li spezzerai con scettro di ferro).
Tim Mead è un controtenore dal timbro similare a quello di mezzosoprano; la sua linea di canto è molto apprezzabile per colore e omogeneità, anche se le agilità (la prerogativa dei cantori castrati per cui fu creata la parte) risuonano un po’ alleggerite; nelle frequenti messe di voce tende inoltre, secondo un orientamento tipicamente anglosassone, a suoni un po’ fissi. Il momento più impegnativo è all’inizio della II parte, con l’aria tripartita (dunque più estesa rispetto alle altre) «He was despised and rejected of men» (L’uomo che conosce il dolore e la sofferenza), che Mead canta quasi interamente a mezza voce, con grande delicatezza.
Josef Wagner è un basso dalla voce omogenea, forte di una buona cavata, molto elegante nel porgere; non è del tutto a suo agio nelle agilità dei momenti più drammatici, come nell’aria della II parte «Why do the nations so furiously rage together» (Perché le genti così furiosamente lottano fra di loro), che richiama – al solito – la tipologia melodrammatica dell’aria “di tempesta”, concitata e irta di difficoltà. Sempre al basso è affidato anche il momento escatologico dell’oratorio, nella III parte, con il recitativo accompagnato «Behold, I tell you a mistery» (Ecco, io vi rivelo un mistero), e soprattutto con l’aria «The trumpet shall sound» (La tromba suonerà), caratterizzata dalla tromba piccola obbligata (il bravissimo Marco Braito); ed è naturalmente la tromba del dies irae menzionata nella Prima lettera ai Corinzi. Wagner canta tutto molto bene, con adeguato fraseggio e con accorta espressività.
Dopo la sinfonia pastorale della I parte esordisce anche il soprano, impegnato nel resoconto natalizio e soprattutto nella grande aria «Rejoice greatly, o Daughter of Zion» (Giubila altamente, o Figlia di Sion): Carolyn Sampson ha voce limpida e bellissima, con un timbro ricco di armonici; è capace di alleggerire il suono, anche se indulge a quell’emissione un po’ fissa nelle note centrali già emersa dalla tecnica del controtenore. Nella prima aria, forse perché la voce è ancora un po’ fredda, gli acuti sono emessi con sicurezza, ma risuonano tremuli e poco timbrati. La parte III dell’oratorio si apre con un’altra aria del soprano «I know that my Redemeer liveth» (Io so che il mio Redentore vive), con piccolo intervento del violino obbligato (Alessandro Milani): la Sampson canta ora in modo magnifico, toccando l’apice esecutivo della serata, anche grazie all’accompagnamento e alle dinamiche di Dantone. Oltre ai singoli momenti, i solisti sono coinvolti in alcuni pezzi d’insieme particolarmente significativi: si possono ricordare almeno il duetto tra soprano e controtenore alla conclusione della I parte (« He shall feed His flock like a shephered», Come un pastore Egli pascerà il Suo gregge), in cui si apprezza l’armonioso accostamento della calda voce di Mead con quella cristallina della Sampson; e l’altro duetto, nella III parte, di tenore e controtenore («O death, where is thy sting», O morte, dov’è il tuo pungiglione?, la cui citazione della Prima lettera ai Corinzi diverrà un numero importante nel Deutsches Requiem di Brahms).
Il Coro Maghini questa volta è solo nell’interpretare le stupende pagine corali di Händel, e rivela sin dall’inizio una consuetudine stilistica davvero apprezzabile: la polifonia del brano della I parte «For unto us a child is born» (È nato per noi un fanciullo) è resa con leggerezza e trepidazione; tutto è sospeso tra la meraviglia per il resoconto della nascita di Gesù e l’enfatico epiteto Wonderful, che si trasforma in esclamazione musicale di autentica gioia. Se il finale di ciascuna delle tre parti del Messia è ovviamente affidato a un intervento corale, è certamente la II parte quella in cui il coro costituisce il personaggio protagonista; non a caso il brano più celebre dell’oratorio, «Hallelujah: for the Lord God Onnipotent reigneth» (Alleluja! perché il Signore onnipotente ha preso a regnare), è collocato alla fine di tale sezione, in un tripudio di trombe e timpani che valorizzano gli interventi polifonici delle voci stesse. Il Coro Maghini raggiunge quelle sonorità organistiche che Händel richiede alle sue pagine più grandiose; ma va sottolineato come questo risultato dipenda anche dagli archi dell’OSN RAI guidati da Dantone; il perfetto equilibrio tra voci e orchestra è davvero una rivelazione della musica, appropriata alla fonte del coro che chiude l’opera («Worthy is the Lamb», L’Agnello che è stato sacrificato), ossia l’Apocalisse, l’ultimo libro biblico, a suggello di una straordinaria antologia che attraversa Antico e Nuovo Testamento. Al termine dell’esecuzione, tanto sono convinti e prolungati gli applausi del pubblico torinese da indurre Dantone a un bis che coinvolga tutti gli interpreti: l’Alleluja – senza dubbio – che è bello riascoltare, perché oltre al coro si aggiungono i quattro solisti. E la pagina è ancora più ricca, più festosa nei toni giubilanti.