Filosofia e melodramma per un concerto “americano”

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore John Axelrod
Violino Rachel Kolly d’Alba
Soprano Janice Dixon
Baritono Justin Lee Miller
Leonard Bernstein: “Candide”. Ouverture;  Serenade per violino, orchestra d’archi, arpa e percussione
George Gershwin: “Porgy and Bess”, suite da concerto (versione di Robert Russell Bennett)
Torino, 28 marzo 2013

A leggere il programma che John Axelrod ha confezionato per il suo ritorno alla direzione dell’OSN RAI si potrebbe pensare a una serata tutta di musica americana, neppure troppo distante nel tempo: la suite da concerto di Porgy and Bess di Gershwin risale al 1936, Serenade di Bernstein è del 1954, e di due anni dopo è la più celebre opera dello stesso Bernstein, la cui ouverture apre il concerto torinese. In realtà, a scendere nello specifico dei titoli e dei generi di appartenenza, ci si rende conto di quanto questi brani, ormai identificabili come “classici” della musica americana, debbano a modelli europei, e non solo musicali. Se il melodramma – con i suoi sfondi storici oppure con le sue triangolazioni erotiche, con le sue strutture e convenzioni narrative – è alla base di Porgy and Bess e di Candide, alla base di Serenade è un testo davvero fondativo della cultura filosofica occidentale come il Simposio di Platone; e sempre la filosofia, quella graffiante e disincantata di Voltaire, esige per Candide un’adeguata intonazione musicale (a partire dall’introduzione sinfonica, non solo per le scene divertenti o parodistiche). In altre parole, la musica che ha rivoluzionato il sentire novecentesco d’oltre oceano scopre le sue ispirazioni tutte europee, o addirittura classicistiche, in un concerto che per la prima metà ha un tono “filosofico”, mentre per la seconda è più “melodrammatico” (soprattutto per la presenza di cantanti).
Quelli dell’ouverture di Candide sono appena cinque minuti di musica, ma di vivacità tale da immettere subito l’ascoltatore in un mondo di pura intelligenza, sagacia, ironia: le doti di Leonard Bernstein, che Axelrod sa rievocare molto bene; all’età di sedici anni egli studiò con il compositore alcune sue opere, tra cui Serenade e Candide. La sicurezza del piglio (nell’ouverture) e la perfetta concertazione delle parti (nel lavoro per violino) documentano appunto una frequentazione privilegiata, oltre i limiti della semplice preparazione professionale. Il direttore entra immediatamente in medias res, con slancio invincibile e sonorità dirompenti: è la cifra interpretativa che accomuna l’ouverture con la scelta delle pagine da Porgy and Bess, nella seconda parte del concerto.
Serenade è articolato in cinque movimenti, ognuno intitolato a uno o a due interlocutori del Simposio: complessivamente, un dialogo musicale sull’amore ispirato alla polifonia del testo greco (ma senza un programma di adesione filologica o letterale, come il compositore stesso volle precisare). È interessante notare come nel 1954 Bernstein impostasse una composizione sinfonica di musica “a programma” centrata sullo strumento solista del violino: esso è la voce che collega i diversi movimenti, che porge coesione a concezioni musicali molto diverse tra loro, in quanto riflesso di diverse concezioni dell’amore. In abito lungo accollato e risplendente nelle decorazioni a rombo fa il suo ingresso la giovane violinista Rachel Kolly d’Alba, per la prima volta ospite presso l’OSN RAI, imbracciando uno Stradivari del 1732, per eseguire il pezzo più interessante del concerto (anche per la sua rarità di ascolto: alla RAI di Torino Serenade mancava dal 1991). A partire dal I° movimento Phaedrus, Pausanias (Lento – Allegro) la violinista rivela un tratto costante della sua interpretazione come la duttilità, in particolare nella misura dell’intensità e delle sonorità, ora attenuate ora incisive ora marcate nel forte; in effetti la cifra della composizione sembra consistere nel continuo fluttuare dei piani e dei livelli sonori. Il I° e il II° movimento, Aristophanes (Allegretto), sono i più intellettualistici dell’opera, quelli in cui il violino non completa mai alcuna frase propriamente melodica, ma accenna continuamente frammenti e analogie, con toni molto dolci o comunque pacati (lo stesso vale per gli altri strumenti, in particolare l’arpa di Margherita Bassani). Il III°, Eryximachus (Presto – Fugato), è invece di ritmo forsennato, tutto giocato sulla rapidità, sui ritmi delle percussioni (xilofono in primo piano) e sulle acrobazie del violino, in una specie di passacaglia impazzita che poi si trasforma in fuga. Nella IVa sezione, Agathon (Adagio), cala un’atmosfera di mistero in cui il violino trattiene le risoluzioni di una melodia enigmatica e sfuggente: è il momento più drammatico dell’opera, perché mentre il timpano rulla convulsamente insieme ai tremuli degli archi, il violino non si scompone mai, seguitando imperterrito un periodare fluente, proprio come il discorso di un dialogante platonico. Al di là del contenuto, sembra che la trama degli intercalari, dei connettivi, dei nessi di ragionamento – sempre così abbondanti nella prosa platonica – si trasfonda nella voce del violino e nei suoi lunghissimi periodi, di cui intere frasi sono più volte ripetute e soggette alla tecnica della variazione. Anche l’ultimo movimento, Socrates, Alcibiades (Molto tenuto – Adagio – Allegro molto vivace), inizia con la congiunzione di percussioni (campane tubolari) e archi (sempre impegnati in leggeri tremuli): è un preambolo orchestrale che immette a uno straordinario dialogo tra violino solista e violoncello (Pierpaolo Toso), di atmosfera britteniana. Il nervosismo delle percussioni avverte però che non si tratta di un dialogo armonioso, perché a confrontarsi sull’amore, direttamente interessati da aspetti diversi del pathos, sono Socrate e Alcibiade; ma pare sempre essere il violino l’affidatario ora della pacatezza socratica ora dell’irruenza giovanile, anche violenta, di Alcibiade, con climi da spedizione di guerra in Sicilia (cui contribuiscono timpano, tamburo e xilofono martellante). Invano il violino tenta contrastare con blande frasi iterate (il metodo maieutico della persuasione argomentata; martellante anch’essa, ma di ben altra allure), prima di un finale ricco di colori e senz’altro divertente: l’esuberanza di Alcibiade prevale, e ricorda l’esuberanza e la vitalità dello stesso Bernstein.
Molto festeggiata dal pubblico, Rachel Kolly d’Alba regala un bis virtuosistico ed evocatore come L’aurora, dalla Sonata n. 5 di Eugène Ysaÿe, un autore sempre molto frequentato dai concertisti e apprezzato dagli ascoltatori.
Due cantanti soltanto sono i protagonisti della suite da Porgy and Bess di Gershwin, che si risolve in una serie di arie e duetti di più personaggi dell’opera. Brani e musiche molto celebri, a partire dalla ninna-nanna di Clara, “Summertime”, che apre la selezione, per proseguire con il lamento di Serena (My man’s gone now) o con la parodia del sermone biblico di Sporting Life (It ain’t necessarily so) o con il grande pezzo d’insieme finale (Oh Lawd, I’m on my way). Impegnati nei vari ruoli due specialisti del genere e dell’opera, tanto da cantare a memoria tutte le pagine, il soprano Janice Dixon e il baritono Justin Lee Miller, ottimi nella recitazione e nel fraseggio. Il canto di per sé sarebbe godibile, se non intervenissero due circostanze poco favorevoli: la mano del direttore e la voce stessa dei cantanti. Axelrod non si pone alcun problema nel mantenere le sonorità orchestrali sempre forti o fortissime, tanto da sovrastare o addirittura coprire i solisti; anche la breve introduzione e l’intermezzo sinfonico sono enunciati a tutta forza, con accenti istrioneschi, beffardi, perfino grotteschi. (Considerate le vicende miserevoli e dolorose dell’opera, sarà questa l’unica modalità possibile per interpretare la musica di Gershwin?) La voce del soprano non ha molti armonici, ed è piuttosto esile nella cavata; tali caratteristiche comportano che negli acuti lo sforzo di emissione si traduca in un vibrato largo, particolarmente evidente nei brani iniziali. La voce del baritono è chiara, piuttosto leggera per i ruoli e per il timbro che essi richiedono; ma Miller risolve la sua prova centrandola sulla simpatia, sull’atteggiamento brillante e ammiccante nei confronti del pubblico (per questo riesce meglio nelle parti di felicità di Porgy, come “Oh, I got plenty o’ nuttin’”, o in quelle del cinico Sporting Life; accenna passi di danza al termine dello pseudo-sermone, abbraccia la sua partner alla fine del duetto, e così via). Il momento più bello della suite è appunto il duetto dell’atto II (Bess, you is my woman now), accompagnato dagli ottoni; potrebbe esserlo ancor di più, se le voci non fossero in parte soverchiate dall’orchestra rutilante. Grandi applausi al termine della selezione; il direttore prende la parola per concedere un bis con l’aiuto di Janice Dixon: un regalo a se stesso, avverte – poiché è anche il suo giorno genetliaco – e al pubblico torinese; il bis è ovviamente Summertime, che il soprano, con voce ormai riscaldata e ben timbrata, canta molto meglio che all’inizio.