“Götterdämmerung” alla Scala

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“GÖTTERDÄMMERUNG”
Terza giornata, in un prologo e tre atti, della Tetralogia Der Ring des Nibelungen
Libretto e Musica di Richard Wagner
Siegfried  LANCE RYAN
Gunther  GERD GROCHOWSKI
Alberich  JOHANNES MARTIN KRÄNZLE
Hagen  MIKHAIL PETRENKO
Brünnhilde  IRÉNE THEORIN
Gutrune, Die dritte Norn  ANNA SAMUIL
Waltraute, Die zweite Norn  WALTRAUD MEIER
Die erste Norn  MARGARITA NEKRASOVA
Woglinde  AGA MIKOLAJ
Wellgunde  MARIA GORTSEVSKAYA
Flosshilde  ANNA LAPROVSKAJA
Danzatori della compagnia di balletto Eastman (Antwerpen)
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Karl-Heinz Steffens
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia e scene Guy Cassiers
Scene e luci Enrico Bagnoli
Costumi Tim Van Steenbergen
Video Arjen Klerkx, Kurt d’Haeseleer
Coreografia Sidi Larbi Cherkaoui
In coproduzione con Staatsoper Unter den Linden, Berlino
In collaborazione con Toneelhuis (Antwerpen)
Milano, 22 maggio 2013 – Giorno del bicentenario della nascita di Richard Wagner  

La rappresentazione del Crepuscolo degli dei alla Scala conclude L’anello del Nibelungo iniziato con L’oro del Reno nel 2010, e proseguito anno per anno con gli altri titoli della Tetralogia, concertata e diretta da Daniel Barenboim, con la regia di Guy Cassiers. Per motivi di salute Barenboim non dirige le prime recite della Terza giornata, ma affida la partitura a Karl-Heinz Steffens, dedito alla direzione d’orchestra soltanto dal 2007, dopo una carriera di strumentista culminata come primo clarinetto dei Berliner Philharmoniker. L’edizione della Götterdämmerung si colloca quindi tra la conclusione della Tetralogia nel quadriennio 2010-2013 e la ripresa – secondo le disposizioni d’autore, con le quattro recite all’interno di una settimana – che la Scala proporrà nella seconda metà del mese di Giugno.
È significativo che nel giorno esatto del bicentenario della nascita, il 22 maggio, il «Corriere della Sera» pubblichi un cofanetto dal titolo Il Ring alla Scala, contenente un’intervista di Enrico Girardi a Daniel Barenboim; a proposito dell’eredità furtwängleriana nella direzione di Wagner, e del Crepuscolo in particolare, il maestro dice che in alcuni passi «la musica permette, o meglio esige, di andare un po’ avanti o di stare un po’ indietro rispetto al metronomo, in un modo fluido e flessibile […]. È quello che in Italia è definito il “rubato”, che ha una sua “moralità”: quello che si ruba bisogna poi restituirlo. Il “rubato” come lo faceva Furtwängler non era anarchico: era flessibilissimo ma matematico allo stesso tempo, quello che si toglie poi si dà, e viceversa. I conti tornano». Siccome l’elemento più interessante della rappresentazione scaligera è fornito dalla direzione orchestrale (unitamente al grandioso impianto registico), non sarà inutile prender le mosse dalla riflessione di Barenboim per analizzare il minuzioso lavoro svolto da Steffens.
Il problema fondamentale della traduzione sonora delle opere della maturità wagneriana – e forse del Crepuscolo in particolare – è la resa dei singoli Leitmotive (i “temi conduttori”, che Wagner chiamava Fäden o Leitfäden, “fili”, “fili conduttori”) in relazione alla totalità della scrittura musicale; e il problema si accentua in un teatro diverso da quello di Bayreuth, ossia privo di un “golfo mistico” incassato sotto il palcoscenico. La direzione di Steffens è analitica e omogenea al tempo stesso, perché i temi costituiscono come la filigrana del suono complessivo, il cui pedale di fondo è certamente costituito dagli ottoni, oppure dalle sei arpe che punteggiano tutta la partitura. Nessuna famiglia strumentale però prevarica sulle altre, in ragione di quell’omogeneità sonora che è il principale obbiettivo del direttore; l’altra attenzione fondamentale è appunto rivolta al tempo e alle sue oscillazioni. Steffens piega i ritmi alle esigenze drammatiche, per esempio accelerando allorché un personaggio sta per uscire di scena (il I atto è scandito dalle partenze di Siegfried, di Gunther, di Waltraute, sempre quando l’azione giunge a un punto di snodo); risulta dunque coerente l’attacco del celebre Viaggio di Siegfried sul Reno con un abbrivio vorticoso (è già il fuoco finale che incombe sulle acque del fiume, come suggeriscono genialmente i video sullo sfondo). Poi però – secondo quella dinamica del “rubato” furtwängleriano di cui parlava Barenboim – il tempo si dilata in altre sezioni, a compensazione, come quando Hagen rimugina sul suo lavoro di annientamento, a conclusione della seconda scena dello stesso I atto, o come quando Gutrune attende in angosciante immobilità il ritorno dello sposo verso la conclusione del III atto. La musica è dunque ricondotta al fluire, sempre cangiante nel ritmo, delle acque del Reno, così come delle fiamme dell’olocausto. Nulla della scrittura musicale va perduto, proprio perché il direttore riesce a coniugare la lettura calligrafica di ogni singolo tratto e la prospettiva totale; e così, anziché la solennità o la suggestione dei tanti Motive, l’ascoltatore apprezza piuttosto l’intrecciarsi e l’evolversi continuo dei temi, fino alla loro autodistruzione. Oltre a quella degli ottoni, spicca la prestazione degli archi, capaci di sgranare ogni nota con perfetta adesione alle esigenze espressive e ritmiche suggerite dal direttore; dietro a esito così straordinario, si può immaginare il grande lavoro di prove e di concertazione meritoriamente voluto da Steffens.
Per quanto concerne la compagnia vocale, è doveroso partire da Siegfried, senza dubbio il protagonista dell’opera (titolo originario, ancora svincolato dal progetto della Tetralogia, avrebbe dovuto essere infatti Siegfrieds Tod); purtroppo il tenore chiamato a sostenere il ruolo principale, Lance Ryan, non è per nulla adeguato alle esigenze vocali del personaggio. Cantante wagneriano di lungo corso, più volte scritturato a Bayreuth, più volte ospite alla Scala (Don José nella ripresa di Carmen del 2009, e soprattutto protagonista del Siegfried del 2012) e presso altre istituzioni musicali italiane (concerto wagneriano all’Auditorium “Toscanini” della RAI di Torino nel marzo di quest’anno), Ryan è un ottimo interprete scenico, perfettamente credibile quale eroe ingenuo, impavido, eccessivo in ogni suo gesto. Dell’Heldentenor wagneriano ha sicuramente lo squillo, il volume, l’intensità e la robustezza, che gli permettono di giungere senza difficoltà fisiche al termine della recita; ma i problemi sono concentrati nella tecnica di canto e nell’emissione. A voce fredda, in particolare nel corso del primo duetto con Brünnhilde, si percepiscono oscillazioni davvero fastidiose, che soltanto in parte si smorzano nel corso della serata. La voce è appoggiata troppo in avanti, così chiara da risultare infantile, senza cavata, tanto che ogni tentativo di sfumatura espressiva, di fraseggio, di recitazione vocale ha un esito comico, stridulo, clownesco, del tutto anti-musicale se rapportato a quella che dovrebbe essere l’allure di Siegfried; gli acuti sono per lo più gridati e l’intonazione è troppo spesso difettosa. I momenti più infelici dell’interpretazione di Ryan corrispondono a quelli più difficili: nel I atto, quando Siegfried torna da Brünnhilde sotto le sembianze di Gunther (e dunque dovrebbe simulare voce diversa dalla sua) e nel III, poco prima di essere ucciso da Hagen, quando ricorda il canto dell’uccellino del bosco e ne imita il placido gorgheggio: in entrambe le occasioni l’effetto vocale è di involontario grottesco. Non c’è dubbio che Ryan sia un tenore wagneriano; sarebbe però ottimo come Mime, anziché come Siegfried.
Iréne Theorin, già Brünnhilde nell’ultima recita di Siegfried del novembre 2012, è una cantante dall’impostazione corretta, anche se la voce non è sempre così corposa come l’impegnativa parte richiede; il soprano deve quindi forzare un po’ l’emissione, soprattutto negli acuti (a volte un po’ esili, altre volte tendenti al suono di fibra, appunto perché forzati). Sicuramente la prestazione vocale del soprano è in crescendo nel corso degli atti: apprezzabile nel duetto con Waltraute (assai più che in quello con Siegfried) nel I atto, essa diventa ottima nel II, di cui Brünnhilde è appunto grande protagonista, con le accuse rivolte all’eroe e a Gunther (gli acuti risuonano più sicuri, il suono è più netto e tagliente); ed è buona anche la grandiosa scena finale del III atto, fatta eccezione per qualche puntatura non del tutto controllata. Presenza scenica ed efficacia drammatica della Theorin sono comunque fuori discussione: è walchiria tra le più attendibili, e corrisponde del tutto alle esigenze narrative dell’opera.
Mikhail Petrenko, per essere un basso, è Hagen di voce molto chiara, e accusa qualche difficoltà sulle note acute, specie nel I atto; è il cantante più elegante dell’intera compagnia, caratterizzato da emissione signorile ed espressiva; ascoltarlo è un piacere, poiché riesce a essere grand seigneur addirittura nelle scene del tradimento di II e di III atto. Ma con una tale impostazione non rende quasi per nulla il perfido figlio del Nibelungo, il malvagio annientatore della virtù e dell’eroismo, lo spietato uccisore di Siegfried e di Gunther per brama di potenza. Onore al merito e alla classe di Waltraud Meier, nei ruoli di Seconda Norna e, soprattutto, di Waltraute: la cantante è grandiosa nel duetto con Brünnhilde, e fraseggia con perfetto declamato e intensità commovente il racconto dell’agonia di Wotan e degli dei (qualche difetto negli acuti finali non inficia per nulla la sua prova, forse leggermente penalizzata dalle sonorità un po’ reboanti dell’orchestra). Anna Samuil è sia Gutrune sia la Terza Norna: voce chiara e delicata, risulta in alcuni tratti un po’ leggera rispetto alle esigenze della parte di Gutrune, specie nell’angoscioso lamento del III atto (qualche acuto è tremulo, incerto); ma la sua correttezza restituisce il personaggio in modo adeguato. Gerd Grochowski ha bel timbro baritonale, adatto al ruolo di Gunther; la voce è un po’ piccola ma impostata molto correttamente; ed è anche attore efficace nella parte dell’infelice e sfortunato principe ghibicungo. Alberich è invece Johannes Martin Kränzle, già in questa parte nel Rheingold del 2010 e nel Siegfried del 2012: si conferma perfetto nel ruolo, insinuante, perfido, assetato di vendetta, diabolico nelle mezze voci sussurrate ad Hagen come nelle risate di scherno all’indirizzo di tutto il mondo; appare come il vero antagonista, il vero motore maligno della catastrofe in questo Crepuscolo degli dei. Buone le altre cantanti nei ruoli di Prima Norna (Margarita Nekrasova) e delle tre Figlie del Reno (Aga Mikolay come Woglinde, Maria Gortsevskaya come Wellgunde e Anna Laprovskaja come Flosshilde). Molto buono il coro istruito da Bruno Casoni, in particolare quello maschile, al centro dell’attenzione nella fastosa scena nuziale del II atto, il momento più tradizionalmente melodrammatico dell’opera.
Guy Cassier, insieme a tutti i suoi collaboratori (Enrico Bagnoli per scene e luci, Tim Van Steenberger per i costumi, Arjen Klerkx e Kurt d’Haeseleer per i video), firma uno spettacolo dalla regia avvincente ed equilibrata, tutto sommato tradizionale. Il regista non ha più conferito un ruolo predominante a mimi e danzatori (come era accaduto in Rheingold, trasformato in balletto acquatico o insulsa fabula piscatoria, e ancora in Walküre), ma si è concentrato sulla spazialità dei movimenti e sulla pregnanza degli oggetti scenici: l’allestimento ne ha tratto un beneficio riconoscibile. Nel Prologo, per esempio, è suggestiva l’idea del vortice di fili del destino, in cui si incanalano tante tessere visive, come volti di uomini inghiottiti dalla sorte cantata dalle Norne; oppure, è calzante la funzionalità di altre presenze nella scena finale del I atto (spoliazione dell’anello da parte di Siegfried-Gunther), con quattro mimi che accompagnano l’eroe sotto un amplissimo mantello nero, facendolo apparire come un pipistrello, un angelo della morte, una creatura demoniaca, fino a quando non si separano da lui per ghermire Brünnhilde, strapparle l’anello e riportarlo a Siegfried; le enormi teche che conservano i calchi in gesso degli eroi ghibicunghi sono simbolo di un eroismo preistorico e frammentato, gipsoteca mobile e luminosa che ostenta le res gestae di un popolo. Ma anche le creazioni video sono sempre apprezzabili, poiché insistono sugli elementi-simbolo della vicenda: l’acqua, il sangue, il fuoco; e non in modo smaccato, bensì allusivo (per esempio, nel II atto i costumi nuziali di Gunther e di Siegfried sono grigi ma picchiettati da spruzzi rossi: entrambi moriranno uccisi nell’atto successivo).
Il pubblico scaligero ha molto apprezzato l’esecuzione, festeggiando sia i cantanti e il coro sia l’orchestra e il direttore sia i creatori dell’allestimento, al termine dei primi due atti come alla fine dell’opera, dopo più di quattro ore e mezza di musica straordinaria. Va però rilevato come il teatro non fosse affatto gremito, in particolare nella platea; ed è un peccato, considerato che soltanto cinque sono le recite di un allestimento così importante e ambizioso.
Un’ultima chiosa per l’estrema propaggine di “pura musica”, l’indecifrabile sostanza che chiude il Crepuscolo: non una speranza per l’avvenire, e tanto meno un destino di riscatto per gli eroi sconfitti e caduti nel corso della saga, ma certamente una ricomposizione di segno goethiano dell’intero Ring. Il finale del Faust («Das Ewigweibliche / Zieht uns hinan», L’eterno Elemento Femminile / ci trae verso l’alto) ha in Wagner una corrispondenza musicale nel motivo della redenzione d’amore, che rimanda a Sieglinde, madre di Siegfried; è il ritorno di quella “fedeltà nel profondo” di cui Wagner più volte discorreva con la sposa Cosima. Steffens collega l’impareggiabile finale della Tetralogia al precedente rogo di Brünnhilde, senza cercare plateali effetti di isolamento sinfonico delle ultime battute (secondo Quirino Principe, che firma un bellissimo saggio nel programma di sala, «ciò che rende più atroce lo sfacelo finale è la nobile, patetica, confortevole e banale speranza, l’illusorio levare gli occhi al cielo», in Morte della musica-cosmo). Come tradurre scenicamente la densità concettuale (non più narrativa) di tale finale? Cassiers ricorre alla rappresentazione iconografica del mito antico, rinunciando a raccontare o allegorizzare: semplicemente, il regista ricompone tutta la frammentata umanità che in precedenza figurava nella gipsoteca dei Ghibicunghi, che poi si trasformava in tribuna del popolo e degli eroi, quindi in pira funebre di Brünnhilde. Tutto quanto prima era frammento diviene un gigantesco bassorilievo che occupa frontalmente il proscenio, affollato di figure umane e divine intrecciate e armonicamente disposte; lo stile ellenizzante ricorda certe incisioni wagneriane di Julius Schnorr von Carolsfeld. Fissando nell’immobilità della scultura la conclusione del Ring, Cassier riesce a coniugare la temporalità della musica con la spazialità delle arti figurative, in un autentico esempio di Gesamtkunstwerk. E “l’opera d’arte totale” esprime anche il messaggio cosmico e filosofico in merito al destino e alle vicende tragiche di uomini e di dei, tutte inesorabilmente votate alla fine, al fuoco, all’autodistruzione. Soltanto l’acqua del Reno resiste, insieme a quella redenzione d’amore che suggella in fortissimo l’incenerimento del mondo: tutto brucia, ma l’elemento liquido primordiale, con il mistero della purezza dell’oro, rimane saldo, custodito dalle Figlie del Reno e pronto a dar vita a nuove saghe. Il Tutto, come sempre, si rigenera da sé. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala