Čajkovskij uno e due al Malibran

Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2012-2013
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Giacomo Sagripanti
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Serenata per archi in do maggiore op. 48; Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36
Venezia, 7 giugno 2013  

A Giacomo Sagripanti – in sostituzione di Diego Matheuz
, che ha dovuto improvvisamente assentarsi per gravi problemi familiari – è stata affidata la direzione dei due concerti previsti per venerdì 7 e sabato 8 giugno al Teatro Malibran nell’ambito della Stagione sinfonica 2012-2013 della Fenice. Il maestro Sagripanti, molto attivo in ambito lirico e sinfonico in Italia e all’estero, dirigerà alla Fenice, a fine giugno, anche due recite di Madama Butterfly, opera che ha già portato con successo al Teatro Carlo Felice di Genova nel 2011.
Il programma è totalmente čajkovskiano (a Pëtr Il’ič Čajkovskij è dedicato uno dei percorsi principali dell’attuale stagione sinfonica), mettendo a confronto due tra i suoi lavori più amati: l’apollinea, classicheggiante, mozartiana Serenata per archi in do maggiore op. 48, del 1880, e la dionisiaca, tragica, per non dire beethoveniana, Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36, composta tra il 1877 e il 1878, con cui si conclude l’intero ciclo delle sei sinfonie proposto quest’anno.
Entrambe le composizioni videro la luce nel disgraziato periodo che fece seguito all’improbabile tentativo di matrimonio con l’allieva, nonché fanatica ammiratrice, Antonina Miljukova, celebrato nel luglio 1877; ma dopo poche settimane il musicista  abbandonò la moglie per rifugiarsi nella tenuta della sorella Saša in Ucraina, dove riprese la composizione dell’Onegin e della sinfonia n. 4, iniziata prima delle sciagurate nozze. A settembre tornò a Mosca da Antonina, ma questo estremo tentativo durò pochi giorni e si risolse in una grave forma di depressione. Dopo aver tentato di suicidarsi immergendosi nelle gelide acque della Moskova, Čajkovskij lasciò, quindi, la Russia per  intraprendere – grazie all’aiuto economico di Nadezda von Meck, una ricca vedova di quarantasei anni, che sarà la sua mecenate per tutta la vita – un lungo viaggio in Svizzera, Francia e Italia, durante il quale proseguì la composizione della sinfonia, seppur in modo alterno, portandola a termine nel 1877, tra Venezia e Sanremo.
La sinfonia risente del cupo stato di ipocondria in cui era piombato il Maestro dopo la sua, a dir poco, fallimentare esperienza matrimoniale, anche se non bisogna mai esagerare nell’instaurare corrispondenze dirette tra un’opera d’arte e le vicende biografiche dell’autore. Sta di fatto che Čajkovskij stesso in una lettera alla von Mek, dedicataria della partitura, che gli aveva chiesto dei ragguagli su un eventuale “programma” sotteso alla musica, tenta di tradurre quest’ultima in contenuti verbali. Il germe di tutta la sinfonia è la “fanfara del fato”, un motto perentorio ad indicare  appunto il destino  “che eternamente impedisce alla nostra ricerca di felicità di raggiungere il suo scopo” e “pende come una spada di Damocle sulle nostre teste”. Nel successivo Moderato con anima la disperazione e la tristezza diventano più forti, spingendoci ad evadere in un “dolce e tenero sogno”, dal quale ben presto ci risveglia l’inesorabile fato. Il secondo tempo esprime “la malinconia che ci invade a sera, allorché siamo soli, stanchi del lavoro, e cerchiamo di leggere, ma il libro ci sfugge di mano”. Il terzo è costituito né più né meno che da “una successione di capricciosi arabeschi, quelle immagini inafferrabili che passano nella fantasia quando si è bevuto del vino e si avvertono i primi segni dell’ebbrezza”, quando all’improvviso risuona una breve canzone, mentre da lontano passa un corteo militare. L’ultimo movimento esprime il bisogno, se non la si trova in se stessi, di cercare la felicità al di fuori, tra il popolo, in una “festa paesana”, per accorgersi che esistono gioie semplici, ma sincere. Questo, dunque, il “programma”, anche già se nello stesso Post scriptum della lettera il compositore ne prende le distanze, pentendosi di quanto aveva appena affermato. Di tutt’altro tenore la Serenata in do maggiore per orchestra d’archi op. 48, scritta tra il settembre ed il novembre del 1880, eseguita in prima assoluta a Pietroburgo il 30 ottobre del 1881 e dedicata a Konstantin Karlovič Albrecht, amico intimo di Čajkovskij, violoncellista e compositore, fondatore con Nikolaj Rubinstejn (fratello di Anton) del Conservatorio di Mosca.  Questo lavoro, oltre ad essere un omaggio a Mozart, risente di una certa impronta accademica, che caratterizza la solida formazione musicale acquisita da Čajkovskij, diplomatosi nel 1866 in composizione presso il Conservatorio di Pietroburgo, dove Anton Rubinstejn, suo maestro, aveva dato vita ad una scuola ispirata ai metodi d’insegnamento propri dell’accademismo austro-tedesco di derivazione classica. Quando fu costituito il gemello Conservatorio di Mosca per opera del fratello di Anton, Nikolaj, Čajkovskij fu chiamato per insegnarvi composizione, cattedra che tenne fino al fatidico 1878, l’anno in cui si dimise per i ricordati motivi di salute. Tornando alla Serenata, è come se il compositore in un periodo di grande smarrimento si fosse attaccato alle uniche certezze che gli rimanevano, quelle appunto derivanti dal suo magistero musicale. Suddivisa in quattro movimenti, essa rivela strutture linguistiche proprie del Settecento; in particolare, vi aleggia lo spirito del grande salisburghese, ravvisabile nella nitida orchestrazione, nell’eleganza di linee melodiche e sviluppi, nella grazia spensierata di questa musica, appena segnata dalla nostalgia con cui si vagheggia una perduta Età dell’Oro, sentimento che affiora a tratti da quel continuo apparire di brevi incisi melodici da cui è pervasa questa composizione.
Intensa l’interpretazione che ne ha fornito il giovane maestro Sagripanti: una lettura meditata e analitica (forse in qualche tratto – senza nulla togliere alla sua efficacia espressiva – un tantino troppo seria a scapito della levità e della freschezza); una lettura che univa la cura del particolare a un’espressività ricca di sfumature, in un’ampia gamma dinamica ed agogica, sottolineando la regolare struttura delle frasi melodiche, l’ordinato procedere del discorso armonico, i brevi passaggi contrappuntistici. All’Andante il direttore ha impresso una pensosa nostalgica lentezza, che andava nella direzione di quanto abbiamo osservato poco più sopra, mentre nel grande valzer, che costituisce il secondo tempo, la cantabilità e il gusto per la danza, tipiche del compositore russo, si coniugavano ad uno stile che nulla concedeva a frivolezze o sdolcinature come richiede questa pagina. Dopo l’elaborata Elegia, si è scatenato il gran Finale à la russe, in cui il vivace tema ritmico di tradizione slava, è risuonato in tutta la sua verve, portando alla ripresa del tema d’apertura del primo movimento, con cui si chiude simmetricamente la composizione. L’orchestra ha assecondato il gesto del giovane maestro con precisione, musicalità e purezza di suono in questa esecuzione raffinata, intima, dolcemente patetica.
Totalmente convincente l’interpretazione della Quarta sinfonia, dove hanno brillato i corni – cui è affidata, in apertura, assieme ai fagotti, la prima esposizione del famoso “motto del fato” – oltre agli altri ottoni, che lo ripropongono variamente associati in altri episodi al suo interno e alla fine. Ma anche tutte le altre sezioni dell’orchestra, dagli archi ai legni, hanno seguito con comunanza d’intenti il gesto direttoriale, volto ad evidenziare l’intimo patetismo da cui è pervasa la sinfonia, insieme all’anima russa, che le deriva dal suo ispirarsi alla musica popolare di quella terra. Il giovane direttore ha saputo aderire intimamente ai caratteri di questa composizione, così varia dal punto di vosta tematico, armonico e ritmico, facendo ben cogliere l’eccentrica musicalità del genio čajkovskiano.
L’arditezza formale e la forza espressiva del primo tempo sono state ben evidenziate da una lettura, che come nel caso del titolo precedente, era attenta ai particolari, ma anche atta a cogliere la complessiva aderenza di tale movimento allo schema della forma classica. Ancora una volta si è colto uno spiccato senso delle sfumature e delle raffinatezze dinamiche e ritmiche, oltre ad un raro gusto estetico, scevro dalla tentazione di inseguire la moda, che predica, francamente a volte senza criterio, scialbe asciuttezze, parossistiche concitazioni, roboanti sonorità. Per quanto riguarda i movimenti centrali, caratterizzati da una struttura ternaria e concepiti come una pausa rispetto alla tensione emotiva del primo e dell’ultimo, nell’Andantino in modo di canzona, l’iniziale cantilena dell’oboe, ripresa dai violoncelli, ha affascinato per il suo delicato lirismo, mentre un esempio di gusto e sensibilità musicale si è rivelata la parte centrale basata su brevi iterazioni di incisi elementari variamente riarmonizzati, che si conclude con la ricapitolazione (affidata ai violini e poi al fagotto) della sezione principale. Assolutamente precisi e attenti alle sfumature gli archi, impegnati in un vorticoso pizzicato, nelle sezioni estreme dello Scherzo così come i legni e gli ottoni nel Trio, dove svettavano luminosi i ghirigori dell’ottavino. Incontenibile nel finale (Allegro con fuoco) la gaiezza della festa popolare espressa dal primo tema, cui si alterna, con un andamento simile al Rondò, un secondo tema, desunto da un famoso canto popolare russo, Stava una betulla in un campo, sottoposto ad una serie di variazioni. Prorompente l’attacco, melodrammatici i contrasti tra i due temi, chiassosa la festa, scandita dal fragore delle numerose percussioni, fino alla traboccante vitalità della coda finale. Veramente una bella direzione e concertazione. Applausi a non finire, anche, in particolare, per le parti che più si erano segnalate nell’orchestra, invitate ad alzarsi dal maestro, alla fine di questa emozionante serata čajkovskiana.