“Der Ring des Nibelungen” alla Scala (2. “Die Walküre”)

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“DER RING DES NIBELUNGEN”
Sagra scenica in tre giornate e una vigilia
Libretto e Musica di Richard Wagner
2. “DIE WALKÜRE” 
Prima giornata, in tre atti
Siegmund  SIMON O’NEILL
Hunding  MIKHAIL PETRENKO
Wotan  RENÉ PAPE
Sieglinde  WALTRAUD MEIER
Brünnhilde  IRÉNE THEORIN
Fricka  EKATERINA GUBANOVA
Gerhilde  SONJA MÜHLECK
Ortlinde  CAROLA HÖHN
Waltraute  IVONNE FUCHS
Schwertleite  ANAIK MOREL
Helmwige  SUSAN FOSTER
Siegrune  LEANN SANDEL-PANTALEO
Grimgerde  NICOLE PICCOLOMINI
Rossweisse  SIMONE SCHRÖDER
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Daniel Barenboim
Regia e scene Guy Cassiers
Scene e luci Enrico Bagnoli
Costumi Tim Van Steenbergen
Video Arjen Klerkx, Kurt d’Haeseleer
In coproduzione con Staatsoper Unter den Linden, Berlino
In collaborazione con Toneelhuis (Antwerpen)
Milano, 25 giugno 2013

L’allestimento scenico: dal movimento alla staticità

Fortemente contrastiva, tra Rheingold e Die Walküre, l’impostazione scenica voluta da Guy Cassiers per il Ring di Milano e Berlino: se gli spazi della vigilia sono segnati dall’acqua del Reno e dalla presenza (forse anche troppo insistita) di danzatori e di mimi, la Prima Giornata si articola in più momenti di racconto, esposizione, narrazione epica dei personaggi, da Siegmund a Wotan. Ugualmente diversificati sono le scelte cromatiche, i costumi sospesi tra arcaismo e postmoderno, gli oggetti che simboleggiano le case degli uomini, il valore guerriero, il destino, il fuoco. Nel Rheingold i danzatori compaiono subito dopo il furto dell’oro da parte di Alberich, perché significano la potenza tentacolare della ricchezza e della bramosia; ma diventano più funzionali soltanto nella scena di Nibelheim, quando attorniano il nibelungo vittorioso oppure ghermiscono e picchiano il povero Mime, simulando l’azione invisibile di Alberich. Eppure gli abilissimi figuranti della compagnia Eastman sono anche simbolo della doppiezza e del tradimento: dopo aver servito Alberich essi stessi lo tengono prigioniero di Wotan e di Loge, e lo bloccano nei movimenti fino all’enunciazione della maledizione.
In Walküre, invece, mimi e danzatori scompaiono per lasciare spazio a elementi simbolici inanimati, ma ancor più evocatori: la casa di Hunding, nel I atto, è ricavata in uno spaccato di luce fredda all’interno di una foresta; in essa si muovono lunghe ombre, e agiscono potenti proiezioni che trasformano l’ambiente in una selva pietrificata, in un mare di fiammelle mobili, in una sottile corteccia di betulla. Il II atto è il più statuario e solenne, perché il lungo racconto di Wotan alla figlia è sormontato da una grande sfera che ruota vorticosamente su se stessa, e che con le sue bacchette ricorda i meridiani del mondo o le parti di un fuso: è insomma il destino, la storia cosmica filata da un fato ineluttabile, su cui sono proiettate immagini e volti (molto suggestiva la proiezione dell’anello aureo che ruota scintillante). «Nur eines will ich noch: / das Ende – / das Ende!» (voglio una cosa sola: / la fine – / la fine!): su queste parole di Wotan la sfera interrompe il movimento, si arresta, scompare, mentre la scena si rabbuia per trasformarsi nella foresta del duello tra Siegmund e Hunding. Lo spazio del III atto, lasciato libero dalle walchirie e dalle loro acrobazie, è completamente invaso dai simboli del fuoco, in forma di filamenti rossi che discendono dall’alto, oppure di un curioso (e invero un po’ ridicolo) lampadario tentacolare che si concentra su Brünnhilde nell’incantesimo finale.
Inevitabilmente (ed è anche giusto) lo spettatore di un ciclo va alla ricerca della coerenza interna, dei legami e dei rimandi; nel Ring di Cassiers le videoproiezioni assumono anche la funzione di guida, di traccia di coerenza che rinvia alla storia. Chi affronta la traduzione visiva e spettacolare del Ring deve infatti risolvere un problema ineliminabile, ossia la congiunzione di mito e di storia. Cassiers cerca di risolverla con due grandi strutture portanti: per il primo la presenza dei simboli quali oggetti scenici (l’anello sotto forma di guanto argentato, la lancia di Wotan, la spada conficcata nel frassino, l’acqua del Reno e il fuoco che “spiove” dall’alto nel finale di Walküre: gli elementi tradizionali, insomma, ci sono tutti); per la seconda il costante ricorso alle videoproiezioni (più incisive nella seconda parte della Tetralogia e via via più esplicite: le lingue di fiamma che nel I atto di Walküre avvolgono la casa di Hunding saranno sostituite da frammenti video in bianco e nero dei bombardamenti della guerra del Golfo del 1990 nel I atto di Siegfried). Al di là delle singole scelte, significative per una scena o per un’altra, si impone però un’opzione fondamentale, che attrae a sé ogni tipo di giudizio. Cassiers individua infatti un supporto in fibra ottica trasparente per le varie proiezioni, che è esso stesso scenografico e simbolico: la riproduzione del celebre bassorilievo dello scultore belga Jef Lambeaux, Les passions humaines, risalente al 1898, un marmoreo intrico di corpi umani e divini sovrastato dall’inquietante angelo della morte, in una commistione di antico e moderno, di paganesimo e cristianesimo. Il gigantesco pannello compare per la prima volta in forma riconoscibile soltanto nel finale del Rheingold, quale portale d’ingresso del Walhall, illuminato dalle tinte corrusche dell’oro, a significare potenza ostentata, costruita sul furto e sul sangue. L’imitazione corporea e vitale della scultura è anticipata nella scena a Nibelheim, allorché Alberich è al culmine della potenza: i mimi gli si dispongono tutt’attorno formando un grappolo di membra umane in movimento simmetrico, una sorta di prolungamento corporeo del potere dell’anello, realizzando il tableau vivant forse più bello dell’intera Tetralogia. Ritorna poi frammentato, nel II e nel III atto di Walküre, quale trionfo plastico dei cavalli delle valchirie (e ricorda il gruppo scultoreo del Laocoonte); ritorna ancora, quale fondale roccioso e pietrificato, nel II atto di Siegfried; ma ritorna soprattutto, aggettante sul proscenio per imporsi all’osservazione degli spettatori, nel finale della Götterdämmerung, quando ormai la scena è stata incenerita e svuotata dall’olocausto di Brünnhilde. La riproduzione di quest’opera d’arte e il suo utilizzo costituiscono quindi la chiave di comprensione di tutto l’allestimento di Cassiers. Tale scelta può essere definita più o meno felice, più o meno opportuna, più o meno funzionale; oggettiva è però l’inserzione di un’opera d’arte figurativa all’interno dell’opera d’arte totale wagneriana: il Gesamtkunstwerk può recepire dentro di sé un bassorilievo dell’Europa di fine Ottocento che lo sintetizzi, perché il Ring è inteso quale straordinario affresco delle eterne “passioni umane”. Tra mito e storia, insomma, Cassiers non compie una scelta netta: cerca di mediare, di unire, ma alla fine individua nell’arte (e non nella storia) la soluzione della Tetralogia, come per suggerire almeno un punto fermo tra le incertezze dell’uomo postmoderno.
 L’allestimento musicale: dal mito preistorico all’epica di dèi e uomini
La Tetralogia è certamente anche un grande laboratorio di sonorità: Barenboim sembra industriarsi per evidenziare le differenze qualitative di attacco del suono nei vari drammi, dal magmatico pedale del Rheingold, su cui s’innesta la prima melodia affidata ai violoncelli, alla immediata robustezza degli stessi violoncelli per la tempesta con cui si apre Die Walküre. Anche nella Prima Giornata il direttore stacca tempi piuttosto rilassati, ma sempre appoggiati a un solidissimo sostegno strumentale; nei momenti di snodo, però, è capace di notevoli accelerazioni (secondo quella dinamica di “rubato” applicato alle partiture wagneriane di cui egli è teorico): per esempio nell’enunciazione del tema di Hunding, o nell’invocazione di Nothung, fino alla stretta con cui il I atto, in un abbrivio vertiginoso, si conclude (l’effetto drammaturgico è perfetto: motus in fine velocior). Oltre all’equilibrio dei tempi, anche la coerenza interna è un obbiettivo primario di Barenboim, che cerca di richiamare di dramma in dramma i temi più importanti, al pari dei procedimenti strumentali, a beneficio dell’ascoltatore: è il caso del tema della maledizione, che si staglia nitidissimo e completo a metà del duetto del II atto, e ancor più della dolcezza delle sei arpe verso il finale del III, secondo un’analogia sonora con il finale del Rheingold.
Simon O’Neill è un Siegmund dalla voce omogenea, di un colore adatto alla tipologia vocale, anche se esordisce con pochi armonici e negli acuti il timbro si deforma leggermente. Nel lungo monologo e nel duetto con Sieglinde, però, la stessa voce si riscalda e assume toni più vibranti, offrendo il meglio con l’enunciazione del tema dei Ghibicunghi (tema di dolore per la morte, lo stesso che apre la celebre marcia funebre di Siegfried nella Götterdämmerung). L’invocazione al padre, Wälse, si traduce in una corona tenuta a lungo dal tenore, con squillo appropriato, mentre in orchestra emerge finalmente, dopo laboriosa preparazione, il tema della spada: è il momento in cui O’Neill diventa buon Heldentenor, come conferma anche il bellissimo arioso finale «Winterstürme wichen / dem Wonnemond» (Si è arreso il gelo / al chiaro tepore), un inno alla primavera che rimanda alla vocalità femminile e materna di Sieglinde. Quest’ultima è interpretata da una grande Waltraud Meier: nella sua voce, fin dall’inizio, risuonano l’intima commozione dell’animo materno e un’incrinatura elegiaca (forse anche causata della prolungata esperienza vocale, ma di qualità affascinante). Quando la donna assiste il derelitto Siegmund, l’assolo del violoncello alle prime battute del duetto è il perfetto pendant della voce già materna della cantante. Il suo personaggio ha una linea di canto molto sobria, che non concede nulla al sentimentalismo o alla pura bellezza vocale; forse gli acuti non sono sempre ben coperti, ma Barenboim è molto attento a non sovrastarne l’emissione con le sonorità dell’orchestra; anzi, con la resa analitica degli archi, il direttore si concentra sulla trama intima degli strumenti più che sulle trionfali arcate tematiche dei motivi eroici. Per questo è bellissima la ripresa della Meier, cullata dal suono delle viole, dopo i colorismi delle arpe in Winterstürme; e il I atto si conclude con una perfetta atmosfera di duetto d’amore, rappresentando così, per trasparenza orchestrale e vocale, uno dei segmenti meglio riusciti dell’intero Ring scaligero. Il ruolo antagonista di Hunding è sostenuto da Mikhail Petrenko (nel 2010 era John Tomlinson), che entra proiettando la sua ombra colossale in contrasto con quella minuscola di Sieglinde; il basso è da subito personaggio molto interessante sui piani vocale e attoriale, perché ogni suo gesto tradisce l’ostilità nei confronti di Siegmund, e ogni intervento rivela una solida voce di basso; nelle note di passaggio c’è qualche piccolo problema d’intonazione, specie quando la frase non è sostenuta dall’orchestra, ma comunque Petrenko convince molto più come Hunding che come Hagen (che interpreta nella Terza Giornata, come già nella Götterdämmerung del maggio scorso); a volte eccede nei portamenti, ma più per maniera di canto wagneriano che non per difetto tecnico.
Nel Ring di Barenboim Wotan è ogni sera un cantante diverso: dopo Volle nel Rheingold in Walküre tocca a René Pape (nel 2010 era Vitalij Kowaljov), che purtroppo non canta con la solita efficacia: accusa segni di usura vocale, e nella lunga narrazione che segue il duetto con Fricka sovente tende al parlato e non copre adeguatamente gli acuti; la recitazione e il fraseggio sono incisivi, ma quella scena narrativa – che Wagner considerava fondamentale nell’economia complessiva del Ring – è penalizzata dalle non perfette condizioni del cantante (e infatti, prima dell’attacco del III atto, è resa pubblica la sua indisposizione). Con voce apprezzabile e intonata, ma un po’ troppo piccola, Pape affronta comunque il terribile III atto, riuscendo a completare la scena grandiosa dell’addio a Brünnhilde e dell’incantesimo del fuoco con professionale dignità. Ekaterina Gubanova si conferma invece perfetta nel ruolo di Fricka, in continuità rispetto alla vigilia. Brünnhilde è Iréne Theorin (nel 2010 era Nina Stemme), e interpreta la valchiria in tutte e tre le giornate: questo significa che è la più impegnata di tutti i cantanti del Ring scaligero, e in ruolo arduo quant’altri mai. Voce bella, suadente, importante; registro adeguato; ottima presenza scenica (anche se un po’ involgarita dal costume); apprezzabile tendenza al canto modulato in forma di Lied, e quindi espressivo; è un peccato, dunque, che la solidità e la tenuta degli acuti costituiscano un problema. Sin dall’esordio la Theorin tradisce apprensione per la filza di do degli incitamenti (Hojotoho! Heiaha!), che a volte sono gridati più che intonati. Anche nel III atto, per essere espressiva nella prima parte del duetto, finisce per forzare l’emissione; tutto sommato, comunque, la Theorin offre una prova convincente, soprattutto nei momenti più lirici di dialogo con Siegmund e con il padre. Piuttosto scialbo il gruppo delle otto sorelle di Brünnhilde, tendenti ad acuti striduli e gridati: sono degne di menzione, per correttezza ed eleganza vocale, soltanto la Gerhilde di Sonja Mühleck e la Waltraute di Ivonne Fuchs. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala