Gioachino Rossini (1792-1868): “Semiramide”

Melodramma tragico in due atti, libretto di Gaetano Rossi da Sémiramis di Voltaire. Alexandrina Pendatchanska (Semiramide), Marianna Pizzolato (Arsace), Lorenzo Regazzo (Assur), John Osborn (Idreno), Andrea Mastroni (Oroe), Marija Jokovic (Azema), Vassilis Kavayas (Mitrane), Raffaele Facciolà (L’ombra di Nino), Camerata Bach Choir (Poznan), maestro del coro e assistente alla direzione: Tomasz Potkowski, Virtuosi Brunensis, direzione: Antonino Fogliani, recorded live at the Trinkhalle (Bad Wildbad, Germania), july 20123 CD Naxos 2013, 8. 660340-42.
Ogni nuova incisione della Semiramide di Rossini costituisce un evento nel panorama della discografia operistica mondiale: la complessità e rarità d’esecuzione dell’opera la rendono un arduo banco di prova per ogni esecutore. Da qualche anno direttori, musicisti e cantanti sono confortati dall’insostituibile guida dell’edizione critica a opera di musicologi rossiniani del calibro di Philip Gossett e Alberto Zedda (Semiramide, in Edizione critica delle opere di Gioachino Rossini, serie 1, vol. 34, Pesaro 2001): tale definitiva edizione evita la difficoltà di destreggiarsi nell’autografo – oggi nella biblioteca del conservatorio di “S. Pietro a Majella”, Napoli – e di cadere nell’errore di considerare rossiniane versioni successive penetrate in tradizione. Semiramide (la prima si ebbe a La Fenice di Venezia, 3-02-1823) è un capolavoro assoluto di cristallina perfezione, una sorta di platonico ideale di un’opera seria neoclassica; fin dalla sua prima ripresa novecentesca (alla Scala nel 1962: il cast comprendeva Sutherland, Simionato, Gianni Raimondi e Ganzarolli, sotto la bacchetta di Santini), in seno alla Rossini-renaissance, dovette subire funesti tagli dettati da arbitrarie scelte di gusto che, con grave incomprensione della sua intima natura, ne semplificavano la musica e lo svolgimento, a grave danno della sua bellezza: come se ci si mettesse a togliere figure da un affresco raffaellesco o si ritoccasse una scultura di Michelangelo, magari avendo in mente Boccioni. E tale è anche il trend delle prime incisioni, che pur mantenendo una loro valenza storica e, per certi versi, una loro bellezza, risultano oggi decisamente superate: si pensi alla storica incisione-versione (del 1966) di Bonynge, con la Sutherland e l’immortale Horne, dove, tra i tanti tagli e adattamenti, vengono tolte le due arie di Idreno e viene totalmente stravolto il finale – è Assur che muore e non Semiramide! Nell’esiguo panorama discografico di Semiramide, le uniche incisioni di riferimento sono, dunque, quelle fatte negli anni ‘90 sotto la supervisione critica di Gossett, che aveva allora apprestato l’edizione critica, non ancora però pubblicata: mi riferisco al DVD di una ripresa al Metropolitan nel 1990 sotto la direzione di James Conlon, con un cast straordinario (Anderson, Horne, Ramey e Olsen) e all’edizione in CD per l’etichetta Deutsche Grammophon, con Studer, Larmore, Ramey – l’Assur di riferimento! – e Lopardo, diretti da Ion Marin. Il livello di queste edizioni, seppur non stellare, è ottimo: la completezza dell’esecuzione rese finalmente degna giustizia all’ideale di apollinea misura che Rossini volle profondere in una delle sue partiture-testamento. La recentissima edizione Naxos ha il pregio di essere integrale e di basarsi sull’edizione critica; il direttore d’orchestra, Antonino Fogliani, fa degnamente il suo mestiere, dirigendo bene la  celeberrima ouverture, un autentico tripudio ritmico-melodico – anche se avrebbe potuto curare meglio tutta la sezione del crescendo. In generale, nel corso della partitura, alterna momenti più o meno felici: l’orchestra alle volte fa avvertire una certo piglio meccanico, metronomico (e l’ensemble strumentale non è certo esente da taluni sbaffi), ma è anche capace di momenti indimenticabili, pregevolissimi, come l’esecuzione del preludio alla cavatina di Arsace – cromature di ottoni e archi, con i violini capaci di un magnifico trillo in crescendo – e di quello, cupo, spettrale, all’aria di Assur. Una menzione particolare per la banda, con una strabiliante esecuzione durante il duetto tra Assur e Semiramide. Alexandrina Pendatchanska (in copertina presentata come Alex Penda)canta Semiramide: una voce brunita – quasi da soprano sfogato, adatta a un ruolo scritto per la tessitura della Colbran – sorregge una buona sgranatura delle fioriture, ma talvolta risulta lievemente ingolata, con un fraseggio non particolarmente entusiasmante (soprattutto la dizione vocalica). La cavatina, Bel raggio lusinghier (n. 5), è complessivamente ben eseguita, ma non trascinante; nella cabaletta vi sono qua e là problemi di sincronia tra le fioriture e l’accompagnamento. Buono il duettino con Arsace, Serbami ognor sì fido (n. 6): le voci si armonizzano particolarmente bene nella seconda sezione (Alle più care immagini), di cui è notevole la performance della ripresa variata. Bello anche il duetto, Se la vita ancor t’è cara (n. 8), con Assur, dove la cantante trova intensi accenti nella cabaletta. Toccante il secondo duetto con Arsace, Ebben, a te: ferisci (II atto, n. 11), dove la Penda si fregia di un intenso fraseggio. Marianna Pizzolato è un Arsace dalla voce omogenea, squillante, dal fraseggio curatissimo e dalle aggraziate ornamentazioni; unica pecca è l’emissione alquanto carente nel registro basso, ma – del resto si sa – finora solo la Horne è riuscita a scolpire alla perfezione il ruolo di Arsace, tornendo con tale perizia i bassi. Nella sua cavatina, Eccomi alfine in Babilonia. È questo sì (n. 2), offre, nel cantabile, una lussureggiante linea canora, bei legati con grandi arcate; continua intensa nella cabaletta – bello il trillo nella ripresa –, senza esimersi dall’inciampare, però, in qualche ingenuità di dizione (“deggio”!). Nel duetto con Assur, Bella imago degli dèi (n. 3), manca di una certa aggressiva incisività nel tempo d’attacco; il cantabile è particolarmente concitato, ma ben eseguito, anche se vi sono problemi di sincronia nelle fioriture della cadenza. Nel duettino con Semiramide, dove le due voci giocano soavemente tra di loro, c’è da segnalare un piccolo neo: l’esecuzione degli impervi la2bemolle e sol2 risulta sfibrata, ingolata. Nella sua seconda aria, In sì barbara sciagura (II atto, n. 9), dopo un’intensa lettura della lettera di Nino a Fradate, centra un elegiaco cantabile, seguito da una grintosa cabaletta. Nel duetto del II atto con Semiramide canta un sofferto cantabile e termina nella cabaletta con centrate ornamentazioni in puro stile rossiniano, ma un lapsus le fa dire “dèi sperate nel suo terror (!)” invece del corretto “dèi sperate nel suo favor”, che canta giustamente nella ripresa. Lorenzo Regazzo (Assur), anche se non ha proprio note da autentico basso, cesella un fraseggio nobile, con agile gioco di ornamentazioni e nitide fioriture, ma ha voce alquanto esile, povera di armonici, emettendo, di tanto in tanto, qualche suono sfibrato. Canta dignitosamente il duetto del I atto con Arsace; in quello del II con Semiramide si destreggia bene in una selva di difficoltà e agilità vocali, eppure quasi non emette l’impervio sol1 che conclude il tempo d’attacco, mentre esegue elegantemente il re2 tenuto a fil di voce alla fine del cantabile. Nella sua aria, Il dì già cade. Ah! sia (II atto, n. 12), esegue lo stupendo recitativo-monologo della scena della follia in maniera poco incisiva, si riprende nel cantabile, ma conclude con una cabaletta non proprio energica. John Osborn, uno dei tenori rossiniani più in vista del momento, si cimenta nel difficile ruolo di Idreno: fin dalla messa di voce, sontuosa, sul verso “Là dal Gange a te primiero”, fa sentire la sua voce da tenore contraltino, l’emissione curata (rossiniana), anche se le fioriture non sono perfettamente sgranate e risultano alle volte coperte. Nella prima aria, Ah! dov’è, dov’è il cimento? (I atto, n. 4), centra acuti squillanti (come il do5), esegue tutto con eleganti legati, ma quando scende al registro basso (come nel do3) è sfibrato; una certa complessiva eleganza nell’esecuzione (se si eccettua qualche slabbratura nelle articolate ornamentazioni cadenzali) rendono giustizia di questa autentica aria gioiello: alla fine fa l’acuto interpolato (do5) ma nel salto gli esce un po’ stridente. Rende bene anche la sua seconda aria, La speranza più soave (II atto, n. 10), anche se cade in diversi vistosi errori di dizione e la cabaletta risulta un po’ smorzata. Andrea Mastroni (Oroe) ha una bella voce corposa, da autentico basso, ma spesso fraseggia con noncurante naïveté; nel recitativo dell’introduzione emette un do2 tenuto, molto bello, che conclude in un difficile fa1. Nel recitativo dopo il duettino Semiramide-Arsace, non dà nessun segno di tenebrosità nell’accusa che rivolge ad Assur: pare, anzi, che ambedue parlino da buoni amici; altresì risulta molto curato nel recitativo precedente la seconda aria di Arsace. Assai buone le voci comprimarie: Marija Jokovic è un Azema di gran lusso, Vassilis Kavayas (Mitrane) ha voce squillante e centra molto bene i recitativi, Raffaele Facciolà conferisce tenebrosità al ruolo del Fantasma di Nino. In generale i cantanti sono buoni nei diversi pezzi d’insieme, grazie anche a un’accorta direzione. Nel concertato-quartetto (dall’introduzione, n. 1) Di tanti regi e popoli le voci si armonizzano bene, nel finale I (n. 7) la scena del giuramento è ben eseguita, ma decisamente poco ricco di pathos è il momento dell’apparizione del fantasma del re (con tuono e fulmine); in ogni caso si prosegue bene nel largo-concertato, per concludere con un’incisiva stretta. Nel finale II (n. 13) Assur, Arsace e Semiramide centrano un bel terzetto-concertato, anche se la successiva scena dell’involontario matricidio è alquanto smorta; ci si riprende in un buon coro conclusivo. E proprio il coro, seppur non eccelso, conferisce una giusta monumentalità all’opera: regale nell’introduzione, dove c’è un ampio dispiegamento di tutti i registri vocali, si fa positivamente notare sia nell’introduzione all’aria di Semiramide (coro di donne), che in quella all’aria della follia di Assur (voci maschili).