Münchner Opernfestspiele 2013: “Das Rheingold”

München, Bayerische Staatsoper, Münchner Opernfestspiele 2013
“DAS RHEINGOLD” (L’oro del Reno)
Prologo della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in quattro scene
Libretto e musica di Richard Wagner
Wotan JOHAN REUTER
Donner LEVENTE MOLNÁR
Froh SERGEY SKOROKHODOV
Loge STEFAN MARGITA
Alberich TOMASZ KONIECZNY
Mime ULRICH REß
Fasolt THORSTEN GRÜMBEL
Fafner STEVEN HUMES
Fricka SOPHIE KOCH
Freia AGA MIKOLAJ
Erda CATHERINE WYN-ROGERS
Die Rheintöchter, Woglinde HANNA-ELISABETH MÜLLER
Wellgunde ANGELA BROWER
Flosshilde OKKA VON DER DAMERAU
Bayerisches Staatsorchester
Statisterie der Bayerischen Staatsoper
Direttore Kent Nagano  
Regia Andreas Kriegenburg
Scene Harald B. Thor
Costumi Andrea Schraad
Luci Stefan Bolliger
Coreografia Zenta Haerter
Monaco, 13 luglio 2013 
Mettere in scena a pochi giorni di distanza l’intero ciclo del Ring des Nibelungen è certamente impresa non facile. Non soltanto per interpreti e musicisti, ma anche e soprattutto per il pubblico presente, al quale si richiede una totale immersione nell’universo wagneriano, complesso, contraddittorio, per nulla rassicurante. Eppure un simile intervento è già di per sé di natura filologica, poiché si avvicina alle intenzioni originarie del compositore, costituendo senza dubbio l’omaggio più radicale. Dopo la produzione della Scala, preso atto del fallimento del progetto palermitano – tristemente naufragato per problemi di bilancio, dopo la rappresentazione di Prologo e prima giornata – bisogna necessariamente recarsi oltralpe, quasi con la paura che questo 2013 possa finire troppo presto. E appena varcato il confine è proprio Monaco, la città di Ludwig II che vide la prima sia di Das Rheingold (1869) che di Die Walküre (1870), a farsi garante del culto wagneriano, con un allestimento della Bayerische Staatsoper proposto già nel 2012. Come spesso accade, anche in questo caso chi sgomita per la rivendicazione autoriale è in primo luogo il regista, il tedesco Andreas Kriegenburg, che firma l’allestimento di tutte e quattro le opere, offrendo una promessa di continuità pressoché doverosa. Eppure se questa produzione riesce a imprimersi nella memoria, a rinnovare il mito nordico e nonostante ciò a proporsi come intensamente contemporanea, non è tanto per merito di Kriegenburg, quanto per la direzione di Kent Nagano, alle prese con l’impegno più faticoso, il confronto diretto con la partitura wagneriana, affrontata con coraggio, con dedizione, con straordinaria cura per il minimo dettaglio. A onor del vero rimane la convinzione che tutto questo sarebbe stato impossibile in presenza di un’altra compagine orchestrale, considerando l’intesa pressoché perfetta che la Bayerisches Staatsorchester ha dimostrato e che, nei momenti migliori, ha rasentato risultati ottimali, probabilmente irrealizzabili in assenza del suo Generalmusikdirektor. È quindi nella dimensione musicale che questo Ring esibisce la sua forza, la sua carica di prorompente energia, la capacità di arrivare in modo diretto, favorita, ostacolata o per nulla intaccata dalle soluzioni della regia. Ad essere sinceri è proprio nel Rheingold che si cammina sul filo del rasoio, con il rischio di cadere da un momento all’altro. Risulta evidente che al centro della propria visione Kriegenburg colloca l’elemento corporeo, colto e sviluppato nelle molteplici derivazioni: dalla mobilità primigenia del Preludio, alla pietrificazione accartocciata nella scena dei giganti, fino alla coazione ripetitiva e ossessiva del Nibelheim. La natura stessa – sia essa vegetale, minerale o animale, non necessariamente di tipo umano – viene resa in senso corporeo, secondo una concezione sicuramente non nuova e che, ad esempio, può essere accostata a quanto realizzato da Graham Vick nei primi due mesi del 2013. Basti solo pensare all’inizio dello spettacolo: luminoso, ampio, a scena aperta, con uomini e donne vestiti di bianco e seduti per terra, quasi fossimo ad un grande picnic all’Englischer Garten, prima che risuoni il Mi bemolle nell’orchestra e tutti inizino sul palcoscenico a togliersi i vestiti, a imbrattarsi di blu, ad avanzare e a mescolarsi, rappresentando così le onde del Reno. Niente di strano, per certi versi una soluzione di routine: tutto sta nella realizzazione pratica. E proprio i movimenti pensati da Kriegenburg attraverso le coreografie di Zenta Haerter sono apparsi eccessivamente confusionari, a volte spezzati, spesso non bene amalgamati con la musica. Anche l’effetto iniziale dell’intreccio di corpi, governato con sensualità dalle Ondine, si è perso quasi subito e le tre interpreti (che dovrebbero essere massimamente sfuggenti) si sono raggelate in una sorta di fissità distante, non è chiaro se più dovuta alle indicazioni del regista o alle scelte di interpretazione. Anche sul piano vocale l’impressione si è rivelata positiva nei momenti a solo (soprattutto Okka von der Damerau nel ruolo di Floßhilde), ma molto meno nei passaggi di insieme, come se una delle tre cantanti – oltre alla von der Damerau, Hanna-Elisabeth Müller (Woglinde), Angela Brower (Wellgunde) – non si fosse accordata con le rimanenti due. Colui che riporta ad alti livelli la situazione (accentuata da un’invocazione all’oro decisamente smorta) è Alberich, un bravissimo Tomasz Konieczny, che esordisce con voce sicura e spigliatezza di movimenti, ponendo basi solide poi rafforzate sia in Siegfried che in Götterdämmerung.
Nel Walhalla le cose non vanno poi tanto meglio. Il dialogo tra le divinità è condotto in modo tradizionale, senza particolari intuizioni, e la scena dei giganti viene movimentata con soluzioni importune: i cubi di membra rottamate su cui svettano Fasolt e Fafner sono davvero orribili e la vestizione con enormi arti di cartapesta che ad un certo punto i due subiscono non ha davvero ragion di essere, oltre ad incontrare qualche ostacolo di coordinamento. Per fortuna entrambi i cantanti, Thorsten Grümbel e Steven Humes, ci fanno dimenticare ogni inconveniente registico, stupendoci con un volume imponente, ben sostenuto, ricco di colori e di intensità. Lo stesso livello di perizia è dimostrato da Johan Reuter nel ruolo di Wotan, applauditissimo per l’interpretazione del personaggio, alla quale aggiunge una tendenza all’espansione lirica piuttosto rara. Ancor più applaudito il Loge di Stefan Margita, dotato di un timbro a dir poco perfetto, sebbene la caratterizzazione del ruolo – un Franz Liszt claudicante – non ci abbia convinto del tutto. Un po’ anonimi sia Froh (Sergey Skorokhodov) sia Donner (Levente Molnár), accanto alla Fricka di Sophie Koch, piuttosto brava nella recitazione, ma dalla voce stranamente piatta e priva di sfumature, caratteristiche che ribalterà del tutto in Die Walküre. Il soprano Aga Mikolaj interpreta la sorella Freia, fasciata in un bel vestito anni ’50 dalle sfumature blu (ideato, come gli altri, da Andrea Schraad), ma purtroppo non all’altezza di una parte in apparenza poco impervia, alla quale bisognava fornire maggiore volume e partecipazione. Per fortuna la leggerezza di tocco di Nagano ha tenuto tutti in perfetto equilibrio, evitando sempre di coprire la voce dei cantanti e facendoli “arrivare” con vigore. Di contro, però, ciò ha evitato che in questo Rheingold il supporto orchestrale si elevasse e assumesse l’ampio respiro che forse richiedeva, persino nel febbrile interludio della discesa nel Nibelheim, uno dei momenti – davvero rarissimi, nel prosieguo delle tre giornate – in cui il direttore ha perso il contatto con la sua orchestra. Fortunatamente si tratta soltanto di un attimo e tutta la parte che segue viene sviluppata con coerenza e chiarezza di Leitmotive.
Attraverso la nudità dell’impianto scenico di Harald B. Thor e l’originale gioco di luci di Stefan Bolliger (che si avvale anche di uomini in scafandro con lucine applicate, simili a membri del CDA di Monsters & Co.), l’incontro di Wotan e Loge con Alberich acquista senz’altro maggiore interesse e significato, grazie anche al sopraggiungere di Mime – un Ulrich Reß specializzato in ruoli di carattere, da subdolo intrigante – e all’intreccio delle tre voci più convincenti di questo Prologo (su tutte primeggia ancora Konieczny, sempre più nevrotico e affannato, ad eccezione di una scoperta difficoltà nel corso della maledizione). Non mancano, inoltre, invenzioni registiche efficaci, per quanto tradizionali: l’ambientazione del Nibelheim in una miniera soffocante, il serpente infuocato in cui si trasforma l’ambizioso nano, la personificazione della rana – allo stesso modo in cui, nella scena iniziale, era stato personificato l’oro – e più avanti, dopo che i tre ritornano al Walhalla, l’utilizzo della lancia di Wotan come palo per bloccare le braccia di Alberich (men che mai strumento di giustizia, al contrario mezzo di opportunistica e violenta prevaricazione). L’apparizione di Erda consente di immergerci in una dimensione fangosa e insieme sulfurea, di nuovo animata dai corpi dei figuranti che creano attorno alla divinità una sorta di cortina di protezione (e lo stesso accadrà, con maggiore suggestione, in Siegfried). Catherine Wyn-Rogers è un’Erda ancor più enigmatica del solito, non molto profonda nella tessitura, ma comunque convincente, sia per il pubblico sia per Wotan, che difatti dopo aver ascoltato la sua predizione acconsente a cedere l’ambìto anello. Purtroppo la parte finale non è del tutto esente da certe trovate che Kriegenburg poteva risparmiarci, come lo sventolio di cartoncini placcati in oro e argento per simboleggiare la tempesta scatenata da Donner o la scelta di far tornare le Ondine in scena, facendo perdere l’effetto di lontananza e profondità richiesto dal libretto. Nel complesso, però, la regia funziona meglio, adottando una discreta neutralità che porta a concentrarci sulla musica e soprattutto sulla resa dell’apoteosi conclusiva, staccata in un tempo lento e solenne, ricco di coinvolgente potenza. Come Wotan è preso da un “grande pensiero”, così il messaggio – e la promessa – che Nagano offre riecheggia chiaro, distinto, nella nostra mente: finora abbiamo scherzato, da domani faremo sul serio. Foto  Wilfried Hösl © Bayersiche Staatsoper