“Otello” nel Cortile di Palazzo Ducale di Venezia

Venezia, Cortile di Palazzo Ducale
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti, libretto di Arrigo Boito da Othello di William Shakespeare.
Musica Giuseppe Verdi
Otello GREGORY KUNDE
Jago LUCIO GALLO
Cassio FRANCESCO MARSIGLIA
Roderigo ANTONELLO CERON
Lodovico MATTIA DENTI
Montano MATTEO FERRARA
Un araldo  ANTONIO CASAGRANDE
Desdemona CARMELA REMIGIO
Emilia ELISABETTA MARTORANA
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Maestro del coro di voci bianche Diana D’Alessio
Regia Francesco Micheli
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Silvia Aymonino
Luci Fabio Barettin
Visual designer Sergio Metalli
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice nel bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi
Venezia, 17 luglio 2013

“Lo spirito della musica di Venezia” anima le serate nella città lagunare in questo afoso ultimo scorcio di luglio, attraverso gli spettacoli programmati nell’ambito dell’omonimo festival, rivolto in particolare ai numerosi turisti che risiedono in essa o nelle località balneari limitrofe. Venezia, grazie ad opportune scelte culturali e a un saggio utilizzo delle risorse, che vedono in prima linea il Sovrintendente e il Direttore artistico del Teatro La Fenice, si  conferma più che mai una delle grandi capitali della musica a livello mondiale, e guarda al proprio passato per incidere nel presente e progettare il futuro. Dalla musica antica a quella contemporanea e al jazz, la rassegna estiva continua a presentare solisti, orchestre e gruppi da camera locali e internazionali, dislocandosi in moltissimi luoghi del centro storico, ma anche delle isole e della terraferma, per concludersi, il 24 agosto, nella cornice naturale di Cortina d’Ampezzo, ai limiti del territorio regionale. spicca l’Otello di Verdi in un rifacimento pensato per gli spazi e le strutture architettoniche del Cortile di Palazzo Ducale, dove è andato in scena  dal 10 al 17 luglio, rinnovando una tradizione risalente agli anni Sessanta del Novecento: l’ultima serie di rappresentazioni del capolavoro verdiano in questo luogo così suggestivo si svolse nel luglio-agosto del 1966, vantando interpreti ormai appartenenti al mito come Mario del Monaco e Tito Gobbi, sotto la guida della raffinata bacchetta di Nino Sanzogno. Il rifacimento messo a punto dal regista Francesco Micheli, dallo scenografo Edoardo Sanchi e dalla costumista Silvia Aymonino per questo spettacolo en plein air si basa sull’allestimento a suo tempo da loro ideato per la stagione lirica 2012-2013 del Teatro La Fenice e successivamente riproposto a Osaka e Tokyo nel corso della fortunata tournée nipponica: ancora sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice Myung-Whun Chung, il maestro coreano ormai di casa in laguna, assecondato, a parte qualche piccolo cambiamento, dal medesimo cast, formato nei ruoli principali da Gregory Kunde, Lucio Gallo e Carmela Remigio.
La sonorità dell’orchestra, concentrata, come in passato, sul lato destro, si è ben integrata, nonostante tutto, con il canto e Chung ha potuto tenere con la consueta autorevolezza le redini dello spettacolo per quanto riguarda ogni più piccolo particolare, agevolato anche dal fatto che sulla facciata minore opposta a quella attigua alla Scala dei Giganti, nei pressi della quale si svolgeva l’azione scenica, gli interpreti potevano vedere proiettato il suo gesto direttoriale, esibito sempre a memoria. Rispetto alle edizioni di qualche decennio fa, è ovvio che in questa l’apporto della tecnologia sia stato determinante. In particolare, come nell’allestimento da cui deriva, si fa un uso pressoché continuo delle videoproiezioni: in apertura e più avanti nel finale dell’atto terzo catene che scorrono tra i flutti ad evocare la tempesta marina, a cui Otello riuscirà a scampare, e rispettivamente quella, ineluttabile, che lo porterà alla rovina;  poi il cielo stellato con il Leone di San Marco nell’”Esultate”; ancora, il bestiario popolare e dei segni zodiacali nel duetto d’amore; successivamente l’allegoria mostruosa della gelosia, che muove lubrica la coda in “Ciò m’accora”. Significativo (per quanto non proprio originale) l’uso delle luci, che si tingono d’azzurro nei momenti di estasi lirica, per diventare rosse, violacee o gialle quando prorompe l’odio o la sete di vendetta o la gelosia. Oltre a ciò, anche in questa versione riveduta dello spettacolo, gli aspetti visivi si impongono attraverso tutta una serie di “trovate” più o meno efficaci, che comunque rimandano a situazioni già viste in teatro o in televisione: dai piccoli velieri tenuti in mano dal coro, che sanno vagamente d’avanspettacolo; ai mimi in calzamaglia nera, che s’avvinghiano in determinate scene intorno a Jago o a Otello come figure allegoriche delle insane passioni da cui i due sono dominati; all’enorme statua della Madonna recante in mano una vistosa catena di rosario rossa, presso cui Desdemona prega, che fa pensare a certi film anni Cinquanta; per finire con la “resurrezione” dei due infelici amanti, che si incamminano riappacificati oltre la morte –  analogamente a quanto si è visto da tempo in certi finali del Tristano – verso chi sa dove. Francamente discutibile la sena del tragico epilogo nella camera dei due sposi: chissà perché Desdemona è sdraiata su un tavolo (si potrebbe dire: “anatomico”) anziché su un letto prima che il Moro la ghermisca per strangolarla?!
Sul piano musicale,  il tenore Gregory Kunde si è confermato un eccellente interprete del ruolo eponimo, sfruttando con intelligenza le proprie qualità vocali, che da quelle tipiche del belcantista, nella fattispecie rossiniano (il tenore statunitense è stato un superlativo interprete dell’Otello del Grande Pesarese), si sono evolute assumendo un carattere lirico-drammatico, congeniale alla parte del moro verdiano. Con voce ferma, di nobile metallo, omogenea e senza incrinature, ha saputo affrontare quel declamato melodico, quella “prosa musicale” costituente la cifra distintiva dell’opera, che alcuni critici e musicisti anche autorevoli (uno per tutti, Stravinskij) hanno interpretato come una sorta di tributo reso dall’ultimo Verdi al modello wagneriano, mentre è documentato che l’autore di Otello prese sempre le distanze dal compositore sassone, pur non negandone la genialità, cosicché lo stile declamato rappresenta l’estrema evoluzione di un artista che ha sempre saputo rinnovarsi senza mai rinnegare se stesso. Seguendo questa rappresentazione nel cortile di palazzo Ducale ci è parso che il tenore statunitense, rispetto a quanto abbiamo sentito lo scorso novembre alla Fenice, abbia affinato la sua interpretazione, mettendo in valore – complice, come vedremo, Chung – gli aspetti profondi ed interiori, che caratterizzano l’eroe shakespeariano, secondo le intenzioni di Verdi e Boito, e quindi sfrondando la sua parte da ogni ridondanza veristica o, peggio, caricaturale. Ne è risultato un Otello vivo e sanguigno, ma anche genuinamente umano.
Migliore, sempre rispetto a Novembre, anche , la prestazione di  Lucio Gallo, che ci ha offerto uno Jago abbastanza tradizionale, ma questa volta senza esasperare gli aspetti esteriori del cattivo. In particolare, nel “Credo” ci ha regalato un fraseggio scandito, intimamente drammatico senza cercare l’effetto; anzi alla fine, anche in questo caso assecondando le intenzioni del librettista e del compositore, ci ha opportunamente risparmiato la tradizionale risata mefistofelica, a cui si è sostituita un’espressione di sgomento evidentemente rivolta verso se stesso.  Tutto sommato convincente la prova di Carmela Remigio nel ruolo di Desdemona, per quanto i suoi mezzi vocali non abbiano lo spessore richiesto da un soprano verdiano: bellissimi i filati e le mezze voci, a testimonianza di adeguata professionalità e sicuro controllo della voce, ma nelle situazioni particolarmente drammatiche è mancato un maggiore peso vocale (ad esempio nel duetto che si apre con “Dio ti giocondi, o sposo”). Fresco e giovanile il Cassio di  Francesco Marsiglia, che ha sfoggiato un timbro brillante. Espressiva ed elegante Elisabetta Martorana nella parte di Emilia, veramente grande nel finale. Quantomeno accettabili gli interpreti dei ruoli minori. Oltre al protagonista, assoluto dominatore dello spettacolo è stato Myung-Whun Chung, che ha proposto una lettura acuta e analitica. Giustamente vigoroso e concitato nella scena  iniziale, dove si scatena la tempesta marina, pur facendo  apprezzare, qui come altrove anche en plein air, ogni particolare della partitura. Dolcissimo nella breve introduzione al duetto d’amore, a conclusione del primo atto, affidata alla sonorità delicata di un gruppo di violoncelli soli, che rivela (qui sì) un sapore “wagneriano”, come il successivo assolo di Otello, a preparare una situazione scenica analoga, per certi versi, a quella del primo incontro tra Siegmund e Sieglinde nell’atto primo della Walküre. Preciso e musicalissimo nella conduzione del grande concertato del terz’atto, in cui si è potuta apprezzare, data anche la disposizione delle masse su un ampio palcoscenico, tutta la spazialità del suono. Indimenticabile nell’esposizione meditata e struggente del celeberrimo “tema del bacio” nel menzionato duetto d’amore e nel finale dell’opera. Impeccabili il coro e le voci bianche. Successo strepitoso.