Celso Albelo in concerto

Pesaro, Rossini Opera Festival, XXXIV Edizione, Auditorium Pedrotti, Concerti di belcanto
Tenore, Celso Albelo
Pianoforte, Giulio Zappa 
Joaquín Turina: “Poema en forma de canciones”
Carlos Guastavino: “El sampedrino”; “Milonga de dos hermanos”; “Pueblito mi Pueblo”;” Ya me voy a retirar”; “Pampamapa”. Gioachino Rossini: “Canzonetta spagnuola”; «Della cieca fortuna … Saziati, o sorte ingrata» (da Elisabetta, regina d’Inghilterra);
Gaetano Donizetti: «Partir degg’io … T’amo qual s’ama un angelo» (da Lucrezia Borgia); «Tombe degli avi miei … Fra poco a me ricovero» (da Lucia di Lammermoor)
Pesaro, 18 agosto 2013

Dopo lo Stabat mater del 2008, il tenore Celso Albelo debutta quest’anno al Rossini Opera Festival in un ruolo teatrale (Ruodi, il pescatore del Guillaume Tell), e inserisce tra le varie recite anche un concerto di canto, dal programma “in crescendo” drammatico (e non solo rossiniano).
L’avvio del recital è affidato a due serie di Lieder spagnoli, un gruppo organico del sivigliano Joaquín Turina (1882-1949) e un’antologia dell’argentino Carlos Guastavino (1912-2000), per un totale di nove numeri vocali dalle caratteristiche piuttosto omogenee, di cui Albelo esalta in particolare l’ariosità e la serena, gioiosa cantabilità. Il Poema en forma de canciones è introdotto da una Dedicatoria del solo pianoforte, ottima a rappresentare un paesaggio musicale tipicamente iberico, nelle armonie e nelle successioni ritmiche; la voce del tenore si manifesta da subito molto musicale, vibrante e ricca di armonici, solida e corposa, aggraziata senza mai essere leziosa, impegnata a cantare sul fiato, come per dilatare al massimo l’ariosità della frase e dei vari disegni musicali. Al di là di una lieve forzatura nella messa di voce che apre il secondo brano (Nunca olvida), si apprezzano le smorzature di Cantares, gli acuti chiari, sicuri, dal timbro omogeneo rispetto al resto del registro, e soprattutto connotati da musicalità. La voce di Albelo ricorda immediatamente – forse anche a causa delle suggestioni ispanofone – il colore, la tecnica, l’emissione di Alfredo Kraus; e induce all’accostamento anche la progressione dei brani, con la specificità di personaggi melodrammatici (Gennaro, Edgardo) che furono interpretati dal grande tenore canario. Forse più di un semplice modello da emulare, in quanto d’origine canaria è lo stesso Albelo: piuttosto una predisposizione geografico-nazionale. Del tutto autonomo è comunque il lavoro interpretativo nei Lieder di Guastavino: sul legato e sui mezzi toni in El sampedrino, sull’afflato appassionato e sul dosaggio del fiato in Pueblito mi Pueblo, sulla sottolineatura della melodia nei due brani conclusivi (soltanto in Milonga de dos hermanos, invece, la partecipazione emotiva non sembra al consueto livello).
Senza alcuna soluzione della continuità, Albelo trascorre a Rossini, che con la Canzonetta spagnuola costituisce una cerniera tra musica d’ispirazione iberica e melodramma italiano; ma a dispetto del diminutivo, la Canzonetta rivela tutte le sue insidie e difficoltà: il tenore la canta assai bene, accelerando opportunamente il ritmo tra II e III strofe, ma i gruppetti di note del terribile refrain sono eseguiti o troppo staccati o troppo spianati; anche la spericolata cadenza conclusiva dimostra che si tratta di un brano difficilissimo. Il pubblico pesarese, sempre commosso dal nume tutelare Rossini, applaude con grande soddisfazione. Ottima la sezione recitativa della scena di Leicester dall’Elisabetta, regina d’Inghilterra, sia per il declamato persuasivo sia per gli accenti e la pronuncia molto accurati; il clamoroso intervallo sull’invocazione «o terra» è risolto bene, anche se emerge una lieve debolezza nell’emissione delle note basse (incipiente stanchezza?), non bene sostenute come quelle del registro medio-acuto (molto buona, infatti, la stretta finale con puntatura, che infiamma nuovamente l’entusiasmo dei presenti). Il pianista Giulio Zappa è un ottimo accompagnatore (più volte ascoltato nei recitals pesaresi), e si trova molto a suo agio nelle pagine operistiche; se in Turina e in Guastavino qualche sprezzatura accordale rende un po’ scabra l’esecuzione, nella rossiniana Elisabetta il velluto del pianoforte risplende sontuoso, e offre alla voce di Albelo il miglior supporto possibile, per scelta delle sonorità, agogica, ritmo.
Avviene quindi il passaggio a Donizetti, prima con Lucrezia Borgia e poi Lucia di Lammermoor. Con la voce di cui è naturalmente dotato, l’ottima tecnica di cui si avvale e i modelli stilistici di riferimento, il canto di Abelo è splendido; però non si vorrebbe che un tenore squisitamente di grazia, lirico e con la possibilità di affrontare il repertorio contraltino, fosse troppo tentato da quello lirico-spinto. La tessitura alta e l’emissione vigorosa del recitativo di Gennaro, per esempio, obbligano Albelo a sacrificare qualche agilità; e nel passaggio all’acuto affiora una leggera inflessione nasale. Nell’ambito del concerto il cantante è comunque generosissimo, come dimostra la corona finale tenuta a lungo e in maniera impeccabile. Anche nella scena finale della Lucia sono molto apprezzabili cura e fraseggio del recitativo, mentre nella romanza Albelo vuole fornire una prova più “muscolare” di emissione vocale, di cui francamente non ha alcun bisogno; e infatti finisce per staccare un tempo un po’ sostenuto, senza la necessaria attenzione per i particolari espressivi. L’assenza di un benché minimo intervallo tra le parti del concerto si fa percepire ancora nell’ultima, affaticante messa di voce.
Applausi ritmati e serratissimi suggellano il termine del programma, con reiterate richieste di bis. Il tenore ne concede tre, secondo l’ordine: «Una furtiva lacrima» (dall’Elisir d’amore di Donizetti), «È la solita storia» (il lamento di Federico dall’Arlesiana di Cilea), «La donna è mobile» (la canzone del Duca di Mantova, dal verdiano Rigoletto). Tre brani fuori programma, tutti e tre molto apprezzati dal pubblico, certamente interessanti per aspetti differenti. In Donizetti all’attacco tagliente, per nulla dolce, segue subito un’interruzione, perché Albelo confonde le parole della romanza, e deve ricominciare da capo; ma a questo punto l’insistenza su un’emissione “forzuta” compromette qualche tentativo di alleggerire il suono, che non riesce più così bene come nella precedente scena rossiniana. La frase finale «Cielo, si può morir!» e la smorzatura di chiusura tornano però a essere soavi, del tutto convincenti. In Cilea il Federico di Albelo non è per nulla larmoyant; anzi, è un ragazzino che vuole aver voce “robustosa” (a costo di esibire gusto verista nel conclusivo «Mi fai tanto male!»). In Verdi – da ultimo – l’emissione risuona un po’ fibrosa, comprensibilmente stanca; eppure l’acuto postremo è fuori discussione, tanto è luminoso e saldo, squillante e gagliardo come conviene all’inno libertino del Duca: basta da solo a vivificare tutti e tre i bis e ad appagare la richiesta di pura bellezza vocale di cui ogni appassionato di canto va alla ricerca. Foto Amati & Bacciardi