Münchner Opernfestspiele 2013: “Götterdämmerung”

München, Bayerische Staatsoper, Münchner Opernfestspiele 2013
GÖTTERDÄMMERUNG(Crepuscolo degli dei)
Terza giornata della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in tre atti
Libretto e musica di Richard Wagner
Siegfried STEPHEN GOULD
Gunther IAIN PATERSON
Hagen HANS-PETER KÖNIG
Alberich TOMASZ KONIECZNY  
Brünnhilde
NINA STEMME

Gutrune ANNA GABLER
Waltraute MICHAELA SCHUSTER
Woglinde HANNA-ELISABETH MÜLLER
Wellgunde
ANGELA BROWER
Floßhilde
WIEBKE LEHMKUHL
Erste Norn
WIEBKE LEHMKUHL
Zweite Norn
JENNIFER JOHNSTON
Dritte Norn
ANNA GABLER
Bayerisches Staatsorchester
Chor und Extrachor der Bayerischen Staatsoper
Statisterie und Kinderstatisterie der Bayerischen Staatsoper
Direttore Kent Nagano 
Regia Andreas Kriegenburg
Scene Harald B. Thor

Costumi Andrea Schraad
Luci Stefan Bolliger
Coreografia Zenta Haerter

Maestro del coro Sören Eckhoff
Monaco, 18 luglio 2013

Complesse logiche di simmetria interna presiedono all’architettura del Ring des Nibelungen: se sul versante della drammaturgia è possibile riscontrare una maggiore somiglianza fra Prologo e seconda giornata – entrambi strutturati sulla base dei modelli archetipici e intercambiabili di mito e fiaba – l’ultima giornata sviluppa, invece, il nucleo più tradizionalmente operistico già presente in Die Walküre, riprendendo e accentuando la tendenza a camuffare forme chiuse, a parziale smentita dell’idea stessa di Musikdrama. Al contrario, per caratteristiche di coesione interna, Götterdämmerung si distanzia dalla episodicità più frammentaria di prima e seconda giornata, ricollegandosi alla compattezza di Das Rheingold e a un flusso narrativo similmente strutturato: una premessa al di fuori degli eventi (nella quale è centrale il ruolo di tre figure femminili) cui fa seguito una successione di situazioni strettamente legate fra di loro e presentate in chiaro ordine cronologico. Cambiando prospettiva è anche vero che la terza giornata si colloca a sé, rompendo con forza la dimensione atemporale che aveva caratterizzato i precedenti drammi e presentando una vicenda dal profilo più consueto (non a caso Wagner la concepì per prima, pensando inizialmente ad un lavoro autonomo che dovesse avere come tema la morte di Siegfried). Viste le premesse, è lecito aspettarsi una veste scenica e registica che si differenzi dalle precedenti e che preveda una contestualizzazione più precisa. È quello che fa Andreas Kriegenburg, creando uno spettacolo incentrato sullo sviluppo di un’idea più personale, non più legata alla supremazia della suggestione visiva (come ad esempio in Siegfried) né alla traduzione più o meno letterale di quanto indicato dal libretto, ma ad una ri-lettura e trasposizione in chiave moderna. Kriegenburg struttura l’epilogo intorno alla consueta dinamica di prevaricazione del potere capitalistico, sviluppata in una società alienante di cui rimane vittima il povero Siegfried, in seguito alla fatale decisione di allontanarsi dallo stato di beatitudine naturale. Tutto questo si dipana dalla scena iniziale delle tre Norne, ambientata in un campo profughi sottoposto a decontaminazione radioattiva, dopo che nel Preludio decine di schermi avevano proiettato immagini relative al disastro di Fukushima. Ed è a questo punto che si ripropone l’annosa questione sul concetto di attualizzazione del teatro musicale: è proprio necessario calare gli avvenimenti in una cornice contemporanea, con allusioni scoperte ad eventi recenti che con Wagner non hanno nulla a che fare, pur mantenendo una sorta di vaga affinità? Il messaggio della Götterdämmerung risulta davvero così sfuggente, così inafferrabile, se non lo si condisce di cavalli a dondolo a forma di simbolo dell’euro, di bottiglie di champagne disseminate per terra, di brands luccicanti e di smartphone in bella vista? Spesso si risponde che è necessario svecchiare l’opera tradizionale attraverso allestimenti di questo tipo, per avvicinare un pubblico giovane e nuovo. Personalmente non ritengo che il trionfo del kitsch possa compiere tale miracolo, né tantomeno i momentanei deliri di un regista che per di più si dimostra in grado, quando vuole, di realizzare cose superlative. Quando vedrò frotte di giovani affollare i teatri d’opera, in visibilio per questo tipo di operazioni, sarò disposta a ricredermi, ma fino a quel momento mi riservo il diritto di esprimere ogni forma di perplessità e dissenso.
Detto questo bisogna precisare che non tutto lo spettacolo è stato strutturato in questa maniera e che il regista ha saputo mantenere una certa coerenza nei movimenti delle comparse, quasi sempre ben condotti e in armonia sia con il flusso della musica, sia con la concezione delle precedenti opere. Sul versante dei momenti registicamente più convincenti stanno, tuttavia, le scene che prendono le distanze dall’affollamento frenetico della corte dei Ghibicunghi e che si ricollegano all’atmosfera fiabesca della precedente giornata: innanzitutto la scena del risveglio di Siegfried e Brünnhilde, collocata in una camera spoglia ed essenziale (individuata dai pannelli mobili che avevamo già visto in Siegfried) dove ancora si consuma l’atto d’amore dei due personaggi, fusi in sol corpo e sola anima. L’efficacia di questo momento è affidata ai due interpreti, che nel canto e nei movimenti riescono a riproporre quasi intatta l’estasi dell’epilogo della seconda giornata, con una Brünnhilde di ancor più prepotente sensualità, impegnata a tracciare sul corpo dell’amante segni primordiali di possesso. Nello stesso contesto e con le medesime modalità si svolge il dialogo fra Brünnhilde e la sorella Waltraute, quest’ultima in preda a pruriti e tremori quasi incontrollabili, probabilmente causati sia dalla condizione di imminente fine, sia dal contatto con una dimensione estranea e incontaminata, che le scatena una vera e propria reazione allergica. Su livelli alti si colloca pure la scena del viaggio di Siegfried verso la reggia dei Ghibicunghi, risolta con il consueto aiuto dei figuranti e dei loro impermeabili, posizionati in modo tale da formare flutti acquatici in perenne oscillazione. Desolatamente inefficaci, invece, le soluzioni del secondo atto, l’unico in tutta la tetralogia che prevede la presenza di masse corali. Se la scena delle nozze risulta complessivamente ben sviluppata lo si deve alla professionalità del Coro della Bayerische Staatsoper, mentre la chiamata alle armi di Hagen si risolve in un quadro complessivamente statico, appesantito dall’esibizione militaresca dei cellulari. Esibizione che caratterizza, pur se con significati diversi, il successivo arrivo di Brünnhilde trascinata da Gunther, con in testa un sacchetto di carta che le ricopre interamente il volto (impossibile non pensare, per foggia e colore dell’involucro, ai momenti di ripiegamento esistenzialista di Charlie Brown). L’episodio è freneticamente ripreso da decine di telefonini, e può anche starci nell’era della riproducibilità digitale, ma quello che dà più fastidio è l’ossessione con cui il regista ripropone l’idea e la mantiene per un lasso di tempo decisamente eccessivo. Per fortuna la maggior parte del terzo atto, nel momento in cui si allontana da quel mondo di cui sancisce il crollo, recupera un respiro più coinvolgente, dovuto in gran parte alla musica, alla straordinaria bravura dei cantanti, alle fiamme che invadono la struttura trasparente dove si è consumata la giostra di potere del trio Hagen-Gunther-Gutrune.
Da quest’ultima considerazione risulta chiaro che ancora una volta la maggior parte del merito va alla componente musicale, sorretta da una compagine di interpreti di livello superlativo. Quasi in un crescendo di perfezione calligrafica, nell’ultima giornata Kent Nagano dà il meglio di sé, gestendo un’orchestra in forma perfetta e facendo dimenticare le pur rare imperfezioni della precedente giornata. Il direttore perviene a una lucentezza di suono davvero eloquente, appassionata nei momenti di confronto/scontro, tremendamente cupa nei momenti di narrazione, ieratica e solenne durante le parti puramente strumentali (a partire dal primo accordo del preludio, scioglimento di un incanto di cui subito si avverte il ricordo). Come risultante di una concertazione tanto illuminata si ottiene una ancor più netta evidenziazione dei temi conduttori (indispensabile in un’opera come Götterdämmerung), che in numerosi casi ha determinato l’adozione di tempi lenti, forse invisi a chi è abituato a ritmi frenetici, ma perfettamente coerenti con l’equilibrio generale della partitura wagneriana. Punto più alto di questo attento lavoro di cesello è la Trauermusik del terzo atto, per quel che mi riguarda una delle pagine che ad ogni diritto va inclusa nella ristretta nicchia della pura sacralità. È dunque inevitabile che a partire dalle prime note scatti una modalità di ascolto diverso, che quasi annulla ogni distacco critico e sta all’erta per captare ogni minima deviazione da un’idea cristallizzata, dove tutto funziona alla perfezione e nessun errore viene concesso a direttore e orchestra. Alla luce di ciò sembra incredibile come Nagano e la Bayerisches Staatsorchester siano riusciti a compiere un tale miracolo di esattezza, mettendo a fuoco ogni singolo suono, rallentando a dovere i punti di snodo e operando una ricapitolazione leitmotivica di straordinaria purezza. L’effetto ipnotico è garantito, e quel che accade in scena passa decisamente in secondo piano, assumendo la funzione di cornice. Per fortuna Kriegenburg sviluppa movimenti intelligenti e discreti, che non enfatizzano la musica, ma nemmeno la disturbano, ad eccezione della girandola impazzita di fogli stampati che nella parte finale invadono il palcoscenico, risultando troppo rumorosi. Nemmeno questo ha intaccato la perfetta intesa che si percepiva in buca e che si ripercuoteva tra i cantanti sul palcoscenico, una compagnia in stato di grazia e in pieno accordo musicale, persino nei punti di maggiore tensione. Il fattore che probabilmente ha più influito per un risultato ottimale è l’aver riproposto quasi invariato lo stesso cast di alcune recite precedenti (a differenza di quanto accaduto nelle precedenti opere), consolidando così il livello di affiatamento già testato un anno prima.
Dopo due giorni di pausa, Stephen Gould torna a incarnare il ruolo di Siegfried, dimostrando di aver recuperato le forze vocali e riproponendo stesse virtù (ma anche vizi) di cui aveva dato prova nella seconda giornata. In generale, però, ci è parso più stanco, con acuti sforzati e in alcuni casi leggermente calanti, pur offrendo un momento altissimo nell’ultima scena del primo atto, quando trascina una Brünnhilde temporaneamente annientata e dissimula la voce con tale abilità da indurci a prendere fra le mani il libretto, per controllare se si tratta veramente di lui. Altro ritorno è quello di Hans-Peter König, che dopo aver dismesso i panni di Hunding indossa quelli di Hagen, regalandoci un cattivo decisamente sfumato, in grado di esibire una vasta gamma di effetti vocali, a volte distaccato, a volte stentoreo, a volte mellifluo. Attesissimo ritorno è pure quello di Tomasz Konieczny nel ruolo di Alberich, come sempre eccellente nel rendere i tormenti del personaggio, nonostante la penalizzazione registica che è costretto a subire nell’unico momento che lo rivede in scena. Iain Paterson ha le caratteristiche vocali più adatte per interpretare l’ambizioso Gunther, ma manca a volte di volume, oltre a risentire della caratterizzazione da imprenditore corrotto che gli viene affidata. Caratterizzazione inconsueta pure per Gutrune, una sorta di spregiudicata femme fatale che scrive Lust sulle pareti e che si muove come una pantera (avvolta in abiti sempre elegantissimi), ammiccando nei confronti di qualsiasi essere di sesso maschile, incluso il fratello. Anna Gabler è molto brava come interprete, ma il suo timbro è un po’ sbiancato e privo di personalità, come peraltro si può notare anche nella resa della terza Norna. Interessante Wiebke Lehmkuhl, anch’essa impegnata in un doppio ruolo (Floßhilde e prima Norna), come pure gradevoli e ben assortite Jennifer Johnston nella parte di seconda Norna e – presenti entrambe già in Das RheingoldHanna-Elisabeth Müller e Angela Brower, rispettivamente Wellgunde e Woglinde. Proseguendo con le interpreti femminili, Michaela Schuster si rivela una Waltraute perfetta sotto ogni punto di vista, con capacità di fraseggio avvincenti e ricche di pathos, capaci di contrastare una Nina Stemme a dir poco eccelsa, mutevole a seconda dei diversi momenti del dramma, ma in qualche modo sempre fedele a sé stessa. La Stemme è infatti sensuale e avvolgente all’inizio, per poi diventare sempre più esaltata e frenetica, tristemente abbattuta dopo il rapimento, furente e tremenda nel secondo atto, quando erompe in una valanga di acuti e note da brivido, donando all’interpretazione una carica espressionista che trascina il pubblico in modo completo. Monumentale pure nella grande scena dell’immolazione, quando regge da sola ogni tipo di difficoltà, attraversando un processo di apoteosi che si amplifica (invece che annullarsi) nel fuoco catartico che tutto purifica.
L’ultima immagine del dramma – e dell’intero Ring – consiste in un abbraccio che le comparse vestite di bianco (stessi abiti che avevamo visto all’inizio, prima del Prologo) formano intorno ad una Gutrune in piena disperazione, unica superstite del grande olocausto. Immagine suggestiva, portatrice di un messaggio di speranza che tuttavia personalmente stentiamo a riconoscere nell’architettura concettuale della tetralogia. In questo modo, comunque, il regista riesce abilmente a riannodare il filo iniziale, garantendo quell’unità ciclica che è propria della tetralogia, dove tutto è destinato ad autorigenerarsi, a ricominciare da capo, a ripetersi in modo infinito. Se si va alla ricerca di altri elementi, dobbiamo affrontare una certa delusione: di fatto gli unici veri garanti di continuità, come già accennato nella prima recensione, sono Nagano e la sua orchestra, abilissimi nel ridare vita alla musica così come è stata concepita, senza alcuna forma di tradimento, e mantenendo un alto livello performativo, soprattutto nelle tre giornate. Gli altri due elementi sono parimenti suggeriti da Wagner, e il regista ha il merito di farli propri: il primo è Alberich, figura-chiave della tetralogia, l’unico ad essere interpretato dallo stesso cantante e che Kriegenburg (lo abbiamo visto) riesce a collocare in modo simbolico anche in Die Walküre; il secondo elemento è costituito dal fuoco, pervasivo e onnipresente, sia in forma concreta e reale (soprattutto nel Prologo e nella terza giornata), sia sotto forma di proiezioni video, sia in chiave personificata (partendo da Loge, attraverso la schiera di figuranti), sia ovviamente in veste musicale. A parte questo, più che i fattori di continuità questo allestimento ha messo in risalto i punti di differenza, presentandoci quattro spettacoli radicalmente diversi fra di loro, difficilmente assimilabili e portatori di esiti contrastanti. Tuttavia nel fare questo il regista riesce paradossalmente a cogliere nel modo più fedele l’essenza profonda dei quattro drammi, aderenti a concezioni estetiche diverse, e quindi affrontati e risolti con tecniche, idee, soluzioni mai uguali (persino quando si tratta del fuoco magico che avvolge Brünnhilde, modificato nel passaggio fra Die Walküre e Siegfried). In questa smentita di unità drammaturgica si ricompone uno dei tanti significati del Ring des Nibelungen, apponendo un sigillo di autorevolezza e veridicità che di questi tempi, nel caso di Wagner, sembra quasi essere diventato utopia. Foto  Wilfried Hösl © Bayersiche Staatsoper