Münchner Opernfestspiele 2013:”Siegfried”

München, Bayerische Staatsoper, Münchner Opernfestspiele 2013
“SIEGFRIED”
Seconda giornata della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in tre atti
Libretto e musica di Richard Wagner
Siegfried STEPHEN GOULD
Mime WOLFGANG ABLINGER-SPERRHACKE
Wotan TERJE STENSVOLD
Alberich TOMASZ KONIECZNY
Fafner STEVEN HUMES
Erda QIULIN ZHANG
Brünnhilde CATHERINE NAGLESTAD
Stimme eines Waldvogels ANNA VIROVLANSKY
Bayerisches Staatsorchester
Statisterie der Bayerischen Staatsoper
Direttore Kent Nagano 
Regia Andreas Kriegenburg
Scene Harald B. Thor

Costumi Andrea Schraad
Luci Stefan Bolliger
Coreografia Zenta Haerter

Monaco, 15 luglio 2013

Lasciandosi alle spalle la classicità tragica di Die Walküre, ma ricollegandosi alla cosmogonia mitica di Das Rheingold, la seconda giornata della tetralogia ci immette in una dimensione completamente diversa, la dimensione della fiaba, presentata peraltro nella sua struttura più archetipica: un eroe ‘senza macchia e senza paura’ nel vero senso della parola affronta prove di varia difficoltà (fra cui la consueta uccisione del drago) affiancato da aiutanti magici, incontra antagonisti di varia natura – ognuno con caratteristiche proprie, che ridefiniscono di volta in volta la fisionomia del ‘cattivo’ –, possiede un oggetto che scioglie a suo favore la peripezia, conquista ulteriori oggetti magici che prima non possedeva (elmo e anello) e, infine, va a salvare la donna di cui si innamorerà, come se non bastasse bella addormentata. Di fronte a tutto questo è facile immaginare lo sgomento di uno sventurato regista allorché si trova di fronte ai numerosi interrogativi sulla realizzazione di situazioni ben oltre i confini della realtà. Ben poca cosa rispetto al sentimento dell’ignaro spettatore, che non sa mai quello a cui sta andando incontro e che, ancor prima dell’inizio, si guarda intorno per individuare possibili vie di fuga. Invece Andreas Kriegenburg dimostra di essere ancor più eroico di Siegfried e mette su un allestimento dell’opera davvero geniale, senza dubbio il migliore all’interno di questa produzione del Ring. Ad essere pedanti sono due le cadute di stile che hanno spezzato la coerenza dello spettacolo: il confronto a pistola armata tra Alberich e Wotan (ormai comincio a rimanerci male se in un’opera, in qualsiasi epoca sia ambientata, non viene estratta almeno una pistola) e il valzer di bottiglie di plastica che in Die Walküre aveva raggiunto l’apice e che qui per fortuna si limita a un solo episodio. Ma il resto è talmente ben fatto, condotto con tale intelligenza e rispetto dell’originale, da far perdonare facilmente queste due piccole imperfezioni.
A far sì che tutto funzioni a meraviglia intervengono due fattori egualmente importanti: la conduzione sempre più ispirata di
Kent Nagano
, demiurgo di un’orchestra le cui potenzialità sembrano ogni volta nuove e inesauribili, e la professionalità del cast vocale, assemblato nel modo giusto ed esemplare nell’esibizione di doti interpretative di sicuro effetto. Proseguendo, inoltre, nell’utilizzo del corpo umano come mezzo di ri-creazione della drammaturgia mitica della tetralogia, Kriegenburg e Zenta Haerter affastellano anche qui mimi e figuranti in grande quantità, organizzandoli in modo tale da imporre una sensazione di perpetuo movimento, a differenza di quanto ottenuto in Das Rheingold (paradossalmente statico, nonostante i continui spostamenti delle comparse) e Die Walküre (dove la valenza gestuale e coreografica, in alcuni casi, finiva per ostacolare o per mostrarsi ininfluente rispetto allo sviluppo drammatico e musicale). Quanto invece in quest’opera le invenzioni coreografiche siano determinanti per aumentare il senso di incanto e amplificare l’atmosfera di certe situazioni è evidente sin dalla pagina di apertura, accompagnata da un groviglio di corpi accartocciati e in lotta fra di loro, illividiti da luci rossastre e percorsi da un’inquietudine febbrile. Nel mezzo della bolgia ad un certo punto si rivela la presenza di Mime, parimenti invischiato nell’estenuante brama di potere dalla quale non cerca di liberarsi, ma che al contrario lo nutre nella sua caratterizzazione musicale. Il nano è magistralmente interpretato da Wolfgang Ablinger-Sperrhacke che mostra padronanza della scena davvero rara, perfezione di movimenti e persino una mimica facciale talmente vivida da essere percepita nella media distanza dei posti in platea. La voce tenorile è ricca di colori, acida al punto giusto, senza essere per questo querula o grottesca, ma al contrario in alcuni punti leggermente scurita per sottolineare l’ombra di malvagità che contraddistingue il personaggio. Voce fondamentalmente diversa, trascinante e impertinente, è quella di Stephen Gould che non si fa remore di prendere in giro il povero Mime, alimentando ulteriormente il desiderio di vendetta. Il physique du rôle non è forse perfetto, ma andando avanti cominciamo a pensare che la simpatica goffaggine del cantante sia l’ideale per il ruolo tutto di un pezzo di Siegfried. La voce è estroversa e rassicurante, a volte un po’ troppo spinta verso l’urlo, ma che anche per questo racchiude tutte le intemperanze (canore e caratteriali) del giovane eroe. Pure alla fine, quando Gould comincia a scontare la generosità vocale degli atti precedenti, i cenni di affanno vengono utilizzati a favore di una resa psicologica più sfumata del personaggio.
L’ultimo Wotan di questo Ring è
Terje Stensvold, il quale ha la grande sfortuna di dover interpretare lo stesso ruolo dopo la grandiosa prova di Terfel in Die Walküre. Nonostante ciò Stensvold si dimostra pienamente all’altezza, con buon controllo dei mezzi vocali e dimestichezza nei non facili passaggi di registro che caratterizzano la sua scrittura. Doti che si apprezzano nel lungo dialogo con Mime, forse uno degli scogli più impervi della tetralogia per verbosità e estensione, ma che qui viene intelligentemente risolto grazie alla pregnanza leitmotivica sprigionata da Nagano, oltre alle felice idea di collocare, sullo sfondo, alcune pantomime raffiguranti episodi appartenenti al passato (sebbene non vi sia perfetta sovrapposizione fra momenti della narrazione e trasposizione visiva). Ci preme pure evidenziare le belle invenzioni luminose di Bolliger, abbastanza anonime nel Prologo, e che invece nelle prime due giornate si distinguono per eleganza ed efficacia, come ad esempio nel momento in cui viene evocato l’incantesimo del fuoco. La scena della forgiatura della spada è all’insegna del divertimento più sfrenato, sostenuto dalla successione sempre chiara dei temi conduttori e dal sicuro intreccio determinato dalle voci dei due personaggi. Attraverso l’ingegnoso scorrimento di pannelli mobili ci ritroviamo in una fucina immaginifica, popolata da numerosi aiutanti, forze della natura in perenne fibrillazione, intente ad azionare enormi mantici o altri aggeggi di pura invenzione. Sembra di essere nella fabbrica di cioccolato di Willy Wonka, o ancora nell’industria dei giocattoli di Babbo Natale, con sottesi riferimenti alle fantasmagorie visive di Hieronymus Bosch o all’iconografia espressionistica/futuristica di certa cinematografia anni ’30. Il tutto allegramente condito di capriole, filtri colorati, scintille magiche realizzate con gioiose deflagrazioni di coriandoli luminosi, mentre Siegfried evidenzia uno sforzo quasi sovrumano nell’atto di (ri)costruire l’infallibile Notung.
Esaudendo l’inquietante promessa alla fine della precedente opera, ecco che fa ritorno un Alberich sempre più angosciato, perseguitato dai fantasmi del passato, ma in forma più che smagliante: non a caso l’applauso più fragoroso, alla fine dell’atto, è riservato proprio a Tomasz Konieczny, come giusto premio per la decisione di mantenerlo in tutte le tre opere. Un livello altrettanto elevato è mantenuto all’inizio della terza scena del secondo atto, nell’incontro/scontro fra i due fratelli, Mime e Alberich, uno dei punti più avvincenti e scenicamente tesi (al pari del dialogo fra Alberich e Wotan): se lì il nibelungo si era mostrato incupito e annientato dalla supremazia scultorea di Wotan – supremazia percepibile esclusivamente nella resa attoriale, poiché entrambe le voci si fronteggiavano con la medesima dose di bravura – qui ottiene la sua rivalsa contro un Mime costretto a soccombere, in attesa di poter ottenere la vittoria tramite l’inganno e il sotterfugio orditi ai danni di Siegfried. Al centro delle due scene troviamo il duello con il drago, alias Fafner trasformato grazie al potere dell’elmo magico. Kriegenburg lo realizza in modo perfetto, tanto da sperare che l’idea (ma soprattutto la sua attuazione) si consolidi in successivi allestimenti del Ring. Ancora una volta vengono coinvolte le comparse della Bayerischen Staatsoper, assemblate in modo tale da formare il volto della creatura, brulicante e spasmodica, mentre al centro della fronte il gigante (uno Steven Humes ancor più convincente rispetto a Das Rheingold) esprime tutto il tormento di una condizione paradossalmente esecrata. Insomma, un drago che incute davvero paura, che nell’espressività vocale di Hume – unita al supporto dell’orchestra – fa a tratti gelare il sangue, ma che nonostante questo non riesce ad impaurire il giovane Siegfried, pronto a giustiziarlo ma, in realtà, a liberarlo dalla sua prigionia.
Tutta la seconda parte di questo atto è un capolavoro di prodigi musicali e scenici: dagli alberi ‘immaginari’ montati con un complesso sistema di ganci e sospensioni (ad essere sospesi sono, come sempre, i corpi dei figuranti) agli alberi ‘reali’ simboleggiati dalle fronde verdeggianti dietro cui, ad un certo punto, si nascondono sia Siegfried sia le creature del bosco. La foresta è dunque personificata in modo totale e si sostanzia delle coreografie armoniche della Haerter, amalgamate e fuse in un sol corpo con la parte musicale. Colei che ruba la scena a tutti è poi Anna Virovlansky nel ruolo dell’uccellino: un’interprete di grazia insolita, dalla voce ammaliante, perfetta e quasi irreale, che ci affascina in modo completo e che si fa accompagnare da un alter ego danzante (del quale, a dire il vero, poteva fare a meno, per la sottile eleganza dei suoi gesti). Tutto funziona in modo eccelso, lasciandoci una sensazione di incanto e di piena riconciliazione con la natura. Purtroppo nel momento clou, prima dello scontro fra Siegfried e il drago, uno degli orchestrali ha l’estro di sostituire il famoso tema del corno di Siegfried con una melodia che gli somiglia solo in parte (a meno che non si tratti di una variante accreditata del suddetto tema, di cui personalmente non sono a conoscenza). Di fatto gli si perdona pure questo, dato che lo strumentista è talmente bravo da far passare l’inciampo con straordinaria scioltezza e da far nascere il dubbio – non infondato – che tutto questo sia stato fatto a bella posta. Annullandoci nella luminosità sonora creata da Nagano e dalla sua orchestra il resto, comunque, passa decisamente in secondo piano, perfino la motilità degli elementi naturali che perdura nell’atto successivo e di cui abbiamo un altro esempio nell’apparizione di Erda. Anche qui le forze della terra appaiono in spasmodico movimento, respingendo con gli arti inferiori un Wanderer/Wotan che ad esse vorrebbe accostarsi, atterrendole con il ricordo di quella violenza di cui un tempo si è macchiato. Qiulin Zhang svolge il compito con diligenza, improntando il suo intervento a un’atmosfera plumbea e misteriosa, ma esibendo un fraseggio un po’ traballante. Nella parte conclusiva Gould riesce a domare le proprie sfrenatezze vocali, così come doma e distrugge la lancia con cui Wotan gli ostruisce il cammino. Attraverso un mare di cellophan, giunge infine alla montagna dove giace Brünnhilde. La paura di Siegfried si avverte in modo palpabile, attraverso la musica e l’incertezza titubante, quasi tenera, di cui il tenore dà prova. A questo punto l’attenzione dello spettatore si sposta sul personaggio femminile, Catherine Naglestad, interprete di sensibilità musicale non indifferente, oltre a essere naturalmente dotata di una bella voce, piena di armonici, sostenuta con tecnica sicura e abilmente proiettata verso l’esterno. La Naglestad ha le carte in regola per dispensare perle vocali sia durante il suo lento risveglio – uno dei momenti più alti e luminosi della partitura wagneriana – sia nel duetto che segue e che ella conduce con generoso sostegno del partner, ovviamente più affaticato in questa chiusura d’opera. Seconda delle tre Brünnhilde che incontreremo in questo Ring – con chiome bionde che denotano la nuova condizione di mortale, contrapposte ai capelli ossigenati degli dèi – la Naglestad abbandona la veste da guerriera della prima giornata e si presenta in un lungo e morbido abito bianco, che la avvolge mettendone in risalto la fisicità e che verrà mantenuto nella terza giornata (di ciò saremo sempre grati a Andrea Schraad). È poi interessante osservare come, in questa scena, Kriegenburg abbia voluto abbandonare le due soluzioni proposte alla fine di Die Walküre, ovvero il piccolo tavolo rialzato su cui Wotan aveva addormentato la figlia e il serpente per l’incantesimo del fuoco, sostituiti rispettivamente da un letto più tradizionale e dall’usuale schiera di figuranti illuminati di rosso. Una decisione che non è gratuita, né frutto di puro capriccio, ma che assume un preciso senso drammaturgico, sul quale ritorneremo alla fine di questo percorso. Intanto la seconda giornata si conclude all’insegna di una sensualità estenuata, degna del più ammaliante dei Venusberge, in cui la soluzione del panneggio rosso ampiamente spiegato tanto da invadere l’intero palcoscenico è sì già vista, ma di suggestione talmente efficace da indurci quasi a ritirarci in silenzio e a lasciar soli i due amanti, a consumare l’unico atto di amore pienamente vissuto, senza pentimenti, rimorsi o fantasmi, di tutto il Ring des Nibelungen.   Foto  Wilfried Hösl © Bayersiche Staatsoper