“Rigoletto” al Verdi di Padova

Padova, Teatro Verdi, Stagione lirica 2013
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti, libretto di Francesco Maria Piave dal dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi
Rigoletto IONUT PASCU
Il Duca di Mantova PAOLO FANALE
Gilda JESSICA PRATT
Sparafucile MIRCO PALAZZI
Maddalena DANIELA INNAMORATI
Giovanna MILENA JOSIPOVIC
Il Conte di Monterone ABRAMO ROSALEN
Marullo GABRIELE NANI
Matteo Borsa ORFEO ZANETTI
Il conte di Ceprano FRANCESCO MILANESE
La contessa di Ceprano ALESSANDRA CARUCCIO
Un paggio della Duchessa CATERINA SARTORI
Un usciere di corte LUIGI VAROTTO
Orchestra di Padova e del Veneto
Coro Città di Padova
Direttore Giampaolo Bisanti
Maestro del coro Dino Zambello
Regia, scene, costumi, coreografia, luci Stefano Poda
Padova, 20 ottobre 2013
La ripresa dell’allestimento a firma di Stefano Poda per questo Rigoletto padovano (proposto nel 2010 in co-produzione con Bassano del Grappa), oltre a confermarne la cifra stilistica visionaria e anticonvenzionale, diviene un atto di coraggio in direzione del quale di deve proseguire. In tempi di polemiche anche aspre su regie al limite di aderenza e verosimiglianza ma – diremmo noi – di buon senso, Poda si dimostra tra i pochi a saper coniugare innovazione e coerenza al di fuori di provocazioni o sensazionalismi fini a se stessi e di tradizionalismi buonisti e di cartapesta. Soprattutto in un’epoca di diffuso perbenismo ipocrita che ancora impone morali o crede nella dicotomia buono-cattivo (quasi come nelle deprecabili censure ottocentesche su cui incappò il progetto verdiano) il regista trentino coglie nel segno. A imporsi è una struttura fissa girevole di forte impatto, che apre ad ambienti comunicanti di un unico non-luogo di affetti e sentimenti mancati, dove personaggi più simbolici che reali abitano un piccola corte degli orrori, fra macabri corpi di creature infilzate in lugubri pali – entro allusioni fallico-triviali di notevole pregnanza visiva – o pareti di volti che riflettono idealmente lo spettatore, con un tasso di  nichilismo votato all’incomunicabilità che svuota un umanesimo oscuro, come raffreddato in scene futuristiche di un lugubre orizzonte postmoderno privo di speranza. Tanto da mancare di veri contatti fisici: non ci si abbraccia ma ci si tocca o sfiora appena (perfino la fisicità dell’orgia inscenata nella taverna-bordello del III atto appare bloccata e solo accennata nella sua fissità patinata), mentre la stessa tensione è sempre trattenuta e introspettiva (la scena della maledizione). Dove l’unico squarcio di umana verità non può che suggerirsi all’apparire di Gilda, nella casa-mondo insieme chiusa e aperta di un rifugio utopico impossibile, in cui i protagonisti sembrano ritrovare se stessi, chi in modo fugace (il Duca), chi sempre in una dolente mestizia premonitrice (Rigoletto). Da cui un’innocenza mancata e percorsa da suggestivi chiaroscuri di matrice pittorica e luce caravaggesca entro un’asciuttezza di marca pasoliniana.
Detto questo, l’impressione complessiva è che il regista voglia dire troppo, a tratti in maniera ingarbugliata e confusa, ma forse proprio in questo sta la sua paradossale e barocca linearità, che alla fine convince e ne fa uno spettacolo vincente. Ciò non toglie che soprattutto all’inizio dell’opera l’eccessivo concentrarsi sulla messinscena sovraccarica e complessa abbia poco giovato alla musica, colpevolmente sacrificata, senza quel gioco spaziale di straordinario effetto teatrale dei vari complessi strumentali dislocati tra buca, palco e dietro le quinte della festa del I atto, qui venuto a mancare completamente.
Il sottile equilibrio musicale è stato comunque garantito dalla salda concertazione di Giampaolo Bisanti, che ha offerto una direzione serrata e compatta, sufficientemente coinvolgente nel plasmare le infinite varietà di gamme e timbri entro la compiutezza e organicità unica, irripetibile di questa partitura. Il direttore ha colto questa unitarietà di dinamiche e tinte melodiche, ora giocose ora cupe ora disperate, dove non una nota è fuori posto, optando per una lettura meditativa e contemplativa nella sua rassegnata drammaticità. Ecco allora tempi dilatati mutarsi repentinamente in scatti brucianti senza mai correre e – cosa più importante – facendo sempre musica, seguito da un’orchestra duttile ed espressiva e dal lodevole impegno del coro. Tra i cantanti ha spiccato soprattutto Jessica Pratt, soprano in ascesa – e non senza meriti – che ha offerto una Gilda romanticamente innocente e consapevole nella sopraffine interpretazione vocale, cesellata in modo superbo, con levigatezza adamantina nei centri e acuti luminosi e vellutati. Il pubblico ha mostrato di apprezzare, tributandole un’ovazione al termine di un entusiasmante Caro nome. Poco coinvolgente dal punto di vista scenico, Paolo Fanale è rimasto concentrato soprattutto sulla sua linea di canto sorvegliata e di misurato spessore timbrico, con fraseggio fluido che ha infuso leggerezza spensierata e candore romantico al Duca libertino. Non totalmente convincente è sembrata la prova di Ionut Pascu, un Rigoletto che ha faticato nel trovare proiezione e profondità vocale, spesso appannata, generica e povera di colori. Ne ha risentito soprattutto il versante più lirico della parte (i duetti con Gilda), mentre è risultato più efficace quello drammatico, così da offrire una buona interpretazione di Cortigiani, vil razza dannata, dove è emerso un legato più morbido. Mirco Palazzi ha sfoggiato la consueta voce corposa, rotonda, nobile e pastosa, dando vita ad uno Sparafucile pressoché perfetto, mentre la Maddalena di Daniela Innamorati ha voce importante, rimasta però dura e opaca e con emissione un po’ troppo forzata. Sfocato e poco incisivo il Monterone di Abramo Rosalen, corretti tutti gli altri, eccetto l’impreciso intervento dell’Usciere di Luigi Varotto. Pubblico delle grandi occasioni e successo vivo e cordiale per tutti.  Foto Giuliano Ghiraldini