Gaetano Donizetti (1797-1848): “Caterina Cornaro”

Tragedia lirica in un prologo e due atti, libretto di Giacomo Sacchero tratto da La Reine de Chypre di Jules-Henri Vernoy. Carmen Giannattasio (Caterina Cornaro), Graeme Broadbent (Andrea Cornaro), Colin Lee (Gerardo), Troy Cook (Lusignano), Vuyani Mlinde (Mocenigo), Loïc Félix (Strozzi e Cavaliere), Sophie Bevan (Matilde), BBC Singers, maestro del coro: Renato Balsadonna, BBC Symphony Orchestra, direttore: David Parry.Registrazione: Londra, BBC Maida Vale Studios, novembre/ dicembre 2011. 2 CD Opera Rara 2013, ORC 48.

La storia della Caterina Cornaro non è certo delle più felici: non soltanto per quanto riguarda la sua fortuna e vitalità moderna, ma anche per il fatto che fu l’ultimo soggetto messo in musica da Donizetti, quando i noti problemi di salute cominciavano a divorarlo. Se è vero che, alla sua morte, Donizetti era diventato celeberrimo e compositore prediletto non solo nel circuito italiano, ma anche in quello tedesco e, soprattutto, francese, si può affermare anche che egli non terminò la sua vita – e, quindi, la sua carriera – come fecero Rossini (con larghissimo anticipo!), Bellini o Verdi, con un successo eclatante, incontrastato. E la storia della Caterina Cornaro riflette perfettamente il modo in cui il bergamasco soleva comporre un’opera. Donizetti prese in considerazione l’idea della Cornaro dopo il successo della Linda di Chamounix al Teatro di Porta Carinzia a Vienna, dunque almeno dal 1842; dopo il rifiuto di Vienna (v’era già stato rappresentato un soggetto d’argomento identico poco prima), Donizetti virò per il San Carlo, dove presentò la prima versione dell’opera il 12-01-1844, mentre cominciava seriamente a aggravarsi a seguito della contrazione della sifilide (il libretto era stato apprestato dal Sacchero su uno francese per un’opera dello stesso soggetto storico musicata da Halévy): il fiasco fu clamoroso. Il compositore, nel suo epistolario, parla dell’inadeguatezza della primadonna e della proverbiale censura borbonica: concause che si saranno certamente unite al disprezzo del pubblico partenopeo, conservatore fino allo stremo (un po’ come quello scaligero di oggi – se mi si consenta la pointe), per l’impianto drammaturgico della Cornaro, non certo ortodosso. Confortato però dal successo parigino del Dom Sébastien, Donizetti volle rimetter mano alla sfortunata opera, modificandone il finale: la seconda versione di Caterina Cornaro andò in scena a Parma il 2-02-1845, con successo – ivi Caterina fu la Barbieri-Nini, il soprano su cui Verdi pensò il ruolo di Lady Macbeth. L’opera fa parte di quel filone di lavori ambientati a Venezia, la “regina dell’onde”, caratterizzati da una complessa trama ordita tra amori proibiti e congiure politiche, tutto all’ombra del prepotente potere del veneto dogato: si pensi – per citare alcune opere – alla Bianca e Falliero (1819) di Rossini, alla Marino Faliero (1835) dello stesso Donizetti, a I due Foscari (rappresentata a pochi mesi di distanza dalla prima versione della Cornaro, a cui deve non poco) e, più tarda, La gioconda (1876) di Ponchielli. La pasta sonora della Cornaro è divisa fra l’evocazione dell’ambientazione veneta nel prologo e le pennellate vagamente esotiche degli altri due atti ciprioti; la drammaturgia è tutta basata su quadri spezzati e sovente dà l’idea di un qualcosa di disunito: questo è forse uno dei motivi della sua scarsa fortuna, per quanto certamente è una di quelle partiture poco adatte a essere godute esclusivamente all’ascolto (ma è un discorso ovvio quando si parla di opera lirica, anche se non sempre scontato). Non è certamente il capolavoro di Donizetti: eppure è un’opera che ha diversi pregi, e proprio tale impalcatura drammatica spigolosa ma – in un certo senso – immersa in un perpetuum di continuità, la rendono quasi wagneriana, con la consueta invenzione musicale e perizia donizettiana, degne del massimo interesse.

L’incisione edita da Opera Rara ha molti difetti e pochi pregi, uno dei quali è la completezza del materiale: si presentano infatti tutt’e due le versioni del finale II. Il direttore, David Parry, non brilla quasi mai per musicalità donizettiana e conduce l’orchestra con una certa pesantezza, orchestra che dal canto suo è decorosa ma non eccelsa. Il tutto è esemplificato dal preludio del prologo, dalla certa qual grazia rossiniana, affrontato con una piatta idea interpretativa; lo stesso si ripete nel brevissimo preludio all’atto I, fortemente orientaleggiante (se ne coglie un’eco chiara nei ballabili della versione parigina del 1894 dell’Otello di Verdi). La direzione del Parry si apprezza meglio nelle visioni d’assieme: nel concertato del prologo, se si prescinde dalla direzione un po’ caotica, raggiunge un’atmosfera drammaticamente efficace, e ancor meglio riesce nel travolgente finale I (marcatamente ‘donizettiano’), quando Mocenigo aizza una rivolta contro re Lusignano, inviso ai Dieci.
Le voci, in generale, non sono delle più adatte a questo arduo repertorio. L’Andrea di Graeme Broadbent è afflitto da una voce tremolante, suoni spesso ingolati e canto stentoreo. Il sudafricano Vuyani Mlinde canta un Mocenigo senz’infamia e senza lode: la voce ci sarebbe pure, una corda baritonale viperina, ma è decisamente carente sia della dizione, che soprattutto dell’allure adatto. La scena del prologo in cui Mocenigo, penetrato furtivamente mascherato, interrompe le nozze fra Caterina e Gerardo, manca decisamente di caratura drammatica: la sua breve aria (“Dell’empia Cipro il popolo”), in cui pure trova un buon legato e qualche serpentino afflato, esce tutta appesantita, causa anche un’orchestra non delicatissima. La sua seconda aria, a inizio dell’atto I (“Sei bella o Cipro! A te versan tesori”), dalla linea agitata, nulla aggiunge e nulla toglie alla sua performance: forse qui più che mai si avverte come Mocenigo possa essere considerato un modello del Barnaba di Ponchielli. Lusignano è Troy Cook: una voce granulosa, poco armonica e timbricamente nient’affatto particolare. Nella sua romanza del I atto (“Da che a sposa Caterina”) esegue il tutto con un buon legato, dignitose arcate, ma non fraseggia del pari; dà invece il meglio di sé nella successiva romanza, “Non turbarti a questi accenti”, ben diretta e interpretata con molto pathos. Il duetto tra Lusignano e Gerardo, “Parla, ardisci: io son quel desso”, dopo un recitativo in cui viene trovato qualche bell’accento, vuole un cantabile intimistico, e i due interpreti tentano mezze voci, che, pur tecnicamente riuscite, risultano svuotate, poiché la fibra delle loro due voci non è certo adamantina; conclude una cabaletta gagliarda, ma non eccezionale. Il ruolo tenorile principale, Gerardo, è interpretato da Colin Lee: timbricamente non particolarmente aggraziato, nasale, vanta una tecnica abbastanza salda, da discreto belcantista, emissione non pastosa, ancorché chiara (gli acuti, durante tutta la performance, sono in generale buoni) – la sua interpretazione non può per nulla essere appaiata ai grandi Gerardo, quali furono Carreras, Aragall e Campora. Sotto un’orchestra poco soffice, Lee fa il suo ingresso nel grazioso duetto con Caterina “Tu l’amor mio tu l’iride” (la cui immortale melodia Donizetti aveva utilizzato nel “Tornami a dir che m’ami” del Don Pasquale), dove le voci si armonizzano molto bene. Il suo secondo duetto con Caterina, “Spera in me della tua vita”, il finale del prologo, trova le due voci drammaticamente svuotate nella scena della menzogna della Cornaro e la cabaletta, seppur meglio eseguita, non aggiunge nulla. Assai meglio il loro terzo duetto (“Da quel dì che lacerato”): nel recitativo precedente, i due trovano un pathos eccezionale, nel cantabile – reso monotono da una musica quasi di routine, tipica di un classico duetto di agnizione e successive scuse – si difendono bene e eseguono degnamente soprattutto la cabaletta, dal pattern ritmico più interessante. Ultimo scoglio della performance di Gerardo è l’aria del II atto (“Io trar non voglio campi e onori”); le note ci sono – nel finale della cabaletta l’acuto, però, è di gusto assai discutibile! –, ma rimane il solito problema dell’appiattimento interpretativo e dell’inciampo nella dizione: conclude con una cabaletta trascinante assieme al coro, con slancio eroico, dal carattere tipicamente verdiano. Carmen Giannattasio (Caterina Cornaro) è la migliore del cast, una spanna sopra tutti: dotata di un timbro pulito, leggermente brunito, ha una fibra vocale non spessa, alquanto povera d’armonici e poco sfumata. Il tutto si esemplifica nella sua cavatina, “Vieni, o tu che ognora io chiamo”, dalla struttura molto rossiniana, senza scioglimento di continuità tra recitativo, cantabile e cabaletta (pezzo celeberrimo, diamante della produzione donizettiana, molto simile alla bellezza di tante sue altre immortali arie: “O mio Fernando! Della terra il trono” della Favorita, “O nube che lieve per l’aria ti aggiri” della Maria Stuarda e “Com’è bello, quale incanto” della Lucrezia Borgia): Giannattasio ha buone intuizioni musicali, pianissimi, trilli gradevoli, ma non riesce mai a essere leggera, eterea, a elevarsi al di sopra di una monotonia plumbea – anche a livello d’intonazione, talvolta, sembra incerta –, causa anche una direzione non proprio sensibile. In generale condisce, inoltre, il tutto di qualche ingenuità: forse il ruolo non è proprio nelle sue corde (?).
Una performance lungi dall’essere indimenticabile; si ricordino solo – a confronto – la magnifica, paradigmatica, intensità drammatica della Gencer (che battezzò la prima ripresa moderna, al San Carlo di Napoli nel 1972) e la vereconda dolcezza, l’arcata del canto o i filati della Caballe (si hanno due incisioni tra il 1972 e il ‘73). Dello stesso tenore è la sua ultima aria (finale napoletano) “Pietà, o Signor, ti muovano”, cantabile dal carattere epico – particolare l’accompagnamento dei quattro corni: certo canta e interpreta, ma senza trovare quell’agognato quid in più. Un tempo di mezzo estremamente dilatato (non insolito in Donizetti: si pensi al finale II di Maria Stuarda, la cosiddetta ‘scena del confronto’), dove Lusignano spira per le ferite della battaglia, conduce a una classica cabaletta, “Non più affanni, o mie genti, e preghiere”: Giannattasio riesce a rendere bene le ornamentazioni. La presente edizione si fregia anche dell’alternativo finale II parmense: Gerardo muore e Lusignano, scampato alla morte sul campo, spira tra le braccia di Caterina (musicalmente assai più sintetico, utilizza il materiale del larghetto del tempo di mezzo del finale napoletano). Il coro della BBC (Renato Balsadonna), appesantito da un accento inglese, si distingue comunque positivamente: si ascoltino il coro d’imene del prologo, “Salve, o beati, al giubilo”, ricco di vivaci colori nuziali; quello retroscenico dei gondolieri (dall’orchestrazione sintetica ma molto sofisticata, addolcita dall’arpa); quello del I atto, “Siccome veltri per le foreste”, dal tipico carattere donizettiano (Verdi vi trarrà linfa vitale), poco sfumato dall’opaca bacchetta del direttore, stesso destino del coro femminile “Gemmata il serto, giovine”. Tutti i comprimari vagolano nel girone della mediocrità, eccezion fatta per lo Strozzi di Loïc Félix.  Un’incisione, quindi, che, pur con una lode per la completezza (si ricordi, in ogni caso, che a tutt’oggi non esiste un’edizione critica della Caterina Cornaro), aggiunge poco o nulla alla storia interpretativa di un’opera, che ci si augura in futuro abbia maggior fortunata considerazione. Qui è possibile ascoltare tutta l’opera.