“Otello” torna al Carlo Felice

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione Lirica 2013/2014
OTELLO
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Arrigo Boito.
Musica di Giuseppe Verdi
Otello, moro, generale dell’armata veneta GREGORY KUNDE
Jago, alfiere CARLOS ALVAREZ
Cassio, capo di squadra MANUEL PIERATTELLI
Roderigo, gentiluomo veneziano NAOYUKI OKADA
Lodovico, ambasciatore della Repubblica veneta SEUNG PIL CHOI
Montano, già governatore di Cipro CLAUDIO OTTINO
Un araldo GIAN PIERO BARATTERO
Desdemona, moglie di Otello MARIA AGRESTA
Emilia, moglie di Jago VALERIA SEPE
Orchestra,Coro e Coro di voci bianche del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del Coro Pablo Assante
Maestro del Coro di voci bianche Gino Tanasini
Regia, scene, costumi e progetto luci Davide Livermore
con la collaborazione di Giò Forma Production Design, Marianna Fracasso
Allestimento Palau de les Arts Reina Sofia – Valencia
Genova, 27 dicembre 2013  
Dopo quarantacinque anni di assenza, l’Otello verdiano approda finalmente sul palcoscenico del ricostruito Teatro Carlo Felice. L’estremo capolavoro drammatico verdiano, proposto nell’interessante allestimento del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia per la Regia di Davide Livermore, riscuote il caldo consenso del pubblico in sala, conscio di assistere ad una messinscena che, per aspetto tecnico, visivo e scenografico può considerarsi allo stato dellarte. L’impostazione scenica non rispecchia certo i canoni della tradizione: grosse pedane inclinate circolari e concentriche costituiscono lo spazio d’azione, il vortice delle passioni, mentre il disco che si trova al centro di queste può essere innalzato ed inclinato a piacimento. Talvolta uno spettrale ramo spoglio fa la sua comparsa dall’alto della scena attribuendo a questa significati sempre nuovi e rimandando alla Canzone del salce del quarto atto, quasi a voler, in mezzo a tutte le trame e le sofferenze del libretto di Boito, rammentare il triste principio che muove tutta l’opera: Egli era nato per la sua gloria / Io per amarlo e per morir. Sebbene la scena rimanga invariata per tutti e quattro gli atti, le bellissime proiezioni, unite ad un sapiente gioco di luci, oltre che agli elementi mobili della scena, fanno sì che mai lo spettatore avverta la staticità dell’azione; anzi, è sorprendente osservare come con pochi ed efficaci movimenti delle tele sul fondale l’azione riesca a spostarsi dagli ambienti esterni a quelli interni fino ad arrivare addirittura ad esplorare visivamente alcuni aspetti della psiche dei personaggi. L’esteriorizzazione scenica delle angosce dei protagonisti è resa con naturalezza e semplicità, senza le forzature cervellotiche e macchinose che tanto vanno di moda oltre confine e, aspetto senza dubbio più importante di questa regia, nessun gesto, nessun movimento, nessuna interpretazione diverge dal libretto di Boito: Livermore riesce nell’impresa di coniugare la moderna concezione cinematografica dell’intrattenimento con la tradizione dell’opera, rinnovandola in modo garbato e non invasivo, al punto che gli eventi sono chiari e definiti anche quando la scena brulica di elementi e non sono necessarie lunghe elucubrazioni per comprendere anche i significati più reconditi di questa rappresentazione. Tutto ciò è chiaro fin dalla spettacolare scena della tempesta che apre la serata: la nave in lontananza in balia dei feroci cavalloni delle onde proiettate sul fondale approda a Cipro mentre il glorioso Otello fa capolino sulla scena dall’alto e, grazie al sapiente gioco di video-tecnologia, sembra esortare i suoi dalla prora della nave. Ottima la gestione dei movimenti delle masse nelle scene del coro, mai eccessivamente statiche, mentre l’immagine degli amanti sospesi nell’immensità stellata nel duetto che chiude il primo atto rende l’intera sala partecipe di quell’estasi che, non a torto, Otello teme di non poter rivivere mai più. Il celebre “Credo” antitetico di Jago tinge la scena di una diabolica tinta rossa che ritroveremo anche al termine del concitato giuramento finale tra Otello ed il suo aguzzino, col moro chinato ai piedi dello spietato alfiere. Nel mezzo, il ramo cui si faceva prima riferimento, dapprima simbolo fiorito dell’idillio degli amanti, perde via via il fogliame mentre Jago insinua in Otello il seme della gelosia, fino a rimanere spettralmente spoglio ed arido così come l’animo smarrito del condottiero. La regia di Livermore ha inoltre il grosso pregio di rispettare, oltre al libretto, anche la partitura di Verdi, sicché la triplice coerenza tra azione visiva, parola cantata e suono orchestrale non viene mai meno.
Sul podio è tornato Andrea Battistoni, già applaudito poco meno di un anno fa in Macbeth. Battistoni offre una lettura dal piglio deciso, optando per sonorità orchestrali talvolta correttamente dirompenti, ma che saltuariamente arrivano a coprire i solisti rendendoli non chiaramente udibili dalla platea. La risposta dell’orchestra al vigoroso gesto del giovane Maestro è comunque notevole e l’intensità drammatica dei finali degli atti I e IV va diritta al cuore grazie ad una perfetta dilatazione dei tempi musicali.
La tradizione vuole che il temibile ruolo di Otello venga affidato ad una voce di tenore brunita e corposa, aggettivi che di certo non possono riferirsi allo strumento di Gregory Kunde. Sarebbe tuttavia opportuno segnalare come lo stesso Verdi avesse scelto per la prima rappresentazione la voce limpida e cristallina di Francesco Tamagno e non quella di un qualche altro tenore di maggior spessore; pertanto, varrebbe forse la pena di riconsiderare quali vocalità siano più o meno adatte alla resa di questo personaggio sfaccettato e combattuto. Kunde è vocalmente distante dai vari Del Monaco o Giacomini (solo per citarne due), ma, al pari di essi,  sa essere credibile e convincente sia sul piano interpretativo che su quello musicale. Gli acuti sono sicuri e svettanti, mentre gli si può forse rimproverare una certa povertà di armonici nella zona bassa del pentagramma in cui sovente il moro fa incursione. Quello del tenore americano risulta pertanto un Otello più affine alla collera funesta, alle grida, manesco e padrone, con sacrificio dei momenti di estremo sconforto intimo (la prima sequenza di “Dio mi potevi scagliar” viene risolta in un sostanziale parlare intonato). La viva partecipazione emotiva e scenica riesce ad ogni modo a ben sopperire ad alcune modeste imperfezioni vocali ed in un terreno tanto difficile Kunde guadagna un successo più che meritato, grazie anche ad un’ottima pronuncia.
Aspetto dark per lo Jago dell’applauditissimo Carlos Alvarez, annunciato come indisposto all’inizio della serata, ma che dell’indisposizione non ha mostrato gli effetti. Terribilmente malvagio e sadico, così com’è nell’indole stessa del personaggio, Alvarez ordisce la trama ai danni di Otello con una vocalità non dirompente quanto a volume, ma caratterizzata da un’intonazione corretta e da un timbro nobile ed autoritario. La regia crea per il suo “Credo in un dio crudel” una suggestiva ambientazione demoniaca che esalta al meglio uno dei momenti più intensi della serata. Un poco sguaiate le estreme puntature sui la durante il simposio del primo atto, unico neo di una serata gratificante.
Maria Agresta è una Desdemona, come da tradizione, dalla spiccata vena elegiaca e lirica. Delicata e pietosa, deve sovente cantare in posizione supina (quasi tutta la prima parte dell’ultimo atto!). Il soprano riesce ottimamente nella resa dei colori della bella vittima e si produce in pianissimi garbati e ban appoggiati sul fiato, in grado di percorrere tutta la sala con un filo di voce. Riesce anche nel non facile compito di mantenere vivo il personaggio senza farlo cadere in una noiosa macchietta piagnucolante. Si poteva forse evitare la capigliatura rosa alla “Ravanello pallido”.
Valido l’apporto della fibrosa voce di Manuel Pierattelli nel ruolo di Cassio, così come di valore si è dimostrato il resto del cast con Valeria Sepe (Emilia), Seung Pil Choi (Lodovico), Claudio Ottino (Montano), Naoyuki Okada (Roderigo) e Gian Piero Barattero (un araldo).
Il coro, preparato questa volta da Pablo Assante, ha dato ottima immagine di sé nelle diverse scene di cui è parte centrale ed è stato reso dinamico e partecipativo da una regia che non lo ha relegato a fare da mera cornice ai protagonisti. Da notare tuttavia una certa occasionale risicatezza del suono dovuta probabilmente ad un organico ridotto. Valido apporto anche delle voci bianche seguite da Gino Tanasini. Il pubblico ha accolto con vivo entusiasmo la rappresentazione, tributando a tutti gli interpreti grosse ovazioni al termine della recita; si segnala purtroppo una galleria poco frequentata e qualche posto vuoto di troppo nelle ultime file di platea.Lo spettacolo, che sarà replicato ancora fino al 5 gennaio, porta a termine come meglio non si potrebbe le celebrazioni per il duecentesimo compleanno Verdiano.