“Tosca” al Coccia di Novara

Novara, Teatro Coccia, stagione lirica 2013-14
“TOSCA”
Melodramma in tre atti di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa da “La Tosca” di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca               CELLIA COSTEA
Mario Cavaradossi    LORENZO DECARO
BaroneVitellio Scarpia   IVAN INVERARDI
Cesare Angelotti        DANIELE CUSARI
Il sagrestano               DAVIDE PELISSERO
Spoletta                      SAVERIO PUGLIESE
Sciarrone                    MASSIMILIANO GALLI
Un carceriere             RADU PINTILIE
Un pastorello             ALESSANDRA FERRARI
Orchestra Filarmonica del Piemonte
Coro Schola Cantorum San Gregorio Magno
Direttore  Valerio Galli
Maestro del coro  Mauro Rolfi
Regia   Fabio Ceresa
Scene e costumi   Justin Arienti
Nuova produzione Fondazione Teatro Coccio
Novara 19 gennaio 2013

Terzo – e ultimo – titolo della breve stagione lirica novarese questa nuova produzione di “Tosca” segna purtroppo un netto regresso rispetto ai precedenti spettacoli che avevano riservato notevoli elementi di interesse. Più che alle singole prestazioni vocali il sostanziale fallimento della produzione va a ricadere su regia e direzione d’orchestra che con i loro limiti troppo evidenti hanno inevitabilmente compromesso il tutto.
La parte visiva dello spettacolo è stata affidata al giovane regista Fabio Ceresa affiancato da Justin Arienti per scene e costumi. L’impianto scenico optava per ambienti astratti e stilizzati – forse anche troppo per un’opera così profondamente inserita nella propria realtà storica – ma non privi di funzionalità; composti da due strutture praticabili a scale su più livelli su cui erano posti gli oggetti caratterizzanti i vari atti e da alcuni pannelli verticali che evocavano in chiave simbolica le colonne di Sant’Andrea della Valle e i parati dello studio di Scarpia mentre scomparivano nel III atto lasciando spazio al cielo terso dell’alba. Un impianto magari non particolarmente attraente ma funzionale e non disturbante così come i costumi – opera dello stesso Arienti – di impianto assolutamente tradizionale.
Quello che invece risultava totalmente mancato era l’aspetto prettamente registico tanto sul piano dei movimenti – imbarazzante la gestione delle masse con il coro che durante il Te Deum è come perso sul palcoscenico senza alcuna idea di cosa fare – tanto nella caratterizzazione dei personaggi. Se le più lineari figure di Tosca e Cavaradossi in qualche modo riuscivano credibili totalmente mancata era invece quella del barone Scarpia. Se è un errore ridurre il mefistofelico capo della polizia pontificia in un orco di malvagità troppo scoperta ancora peggio è trasformarlo in una figura sostanzialmente comica cosa troppo spesso sfiorata dalla regia di Ceresa. Il II atto è in tal senso emblematico, il sipario si alza con Scarpia intento a fare il bagno in una tinozza – con esplicita citazione de “La morte di Marat” di David – e subito dopo canta “Ha più forte sapor” restando sempre nella vasca, a torso nudo intento a bere un bicchiere di vino e la mente evoca subito Falstaff alla Giarrettiera intento a scaldarsi con il vin caldo e la stessa associazione dimostra già che qualche cosa non funziona. All’entrata di Mario il barone si degna almeno di uscire dalla vasca e di mettersi una vestaglia che terrà fino alla fine dell’atto; tutta la prima parte dell’atto e inoltre infarcita di controscene chiamate ad evocare in modo alquanto improprio il cameratismo che unisce Scarpia ai suoi uomini. L’entrata di Tosca non riesce a far salire la tensione drammatica, le minacce alla donna non hanno nulla del mostro ad un tempo sadico e affascinante pensato da Puccini e dai suoi librettisti ma con tutta la loro mimica di ditini alzati e faccette più o meno buffe richiamano di nuovo le sfuriate di Falstaff con Bardolfo e Pistola o i rimbotti di Don Pasquale al riottoso nipotino. La scena della morte di Scarpia evidentemente pensata come un colpo di teatro si risolveva purtroppo in farsa: Tosca pugnala Scarpia che ricade nella vasca da bagno e muore rantolando fra gli asciugamani con una gestualità che ancora ricorda troppo da vicino Falstaff nella cesta del bucato e diventa difficile trattenere le risate, ed il fatto che si rida in un momento come questo è la prova più lampante del fallimento registico.
Il resto della regia è fatto per lo più di trovate che vorrebbero essere originali ma che di fatto risultano ridicole o demoralizzanti, testimoniando solo la totale mancanza di idee del regista. Già l’apparizione nel I atto della Marchesa Attavanti che passeggia per Sant’Andrea assistendo alla vicenda suscita più d’una perplessità ma ancora peggiore è il suo ricomparire nel III sugli spalti di Castel Sant’Angelo a cantare la parte del pastorello tanto più che la scelta non è priva di implicazioni musicali. Già affidare lo stornello ad un soprano anziché ad una voce bianca ne modifica la particolare cifra espressiva ma ancora peggiore è la scelta di farla cantare in proscenio scompaginando completamente la raffinatissima architettura spaziale concepita da Puccini. E come ultima trovata – così da guastare anche il finale dall’opera – il regista si inventa di far trascinare per gli spalti a Tosca il cadavere di Mario in modo da gettarsi abbracciata al corpo morto di lui. Praticamente una lezione di cosa non debba essere una regia lirica capace di tarpare le ali a qualunque buona intenzione.
Come se non fossero sufficienti i danni fatti dalla regia la direzione d’orchestra di Valerio Galli infligge il colpo mortale a qualunque speranza. Il giovane direttore – che pur vanta una formazione di alto livello e collaborazioni anche prestigiose – non dimostra di essere all’altezza della partitura pucciniana, di cui spesso si ignora la ricchezza e la complessità orchestrale. Non solo il piano espressivo è totalmente appiattito ad una ricerca di drammaticità identificata con un eccessivo aumento della massa di suono – fino a risultare fastidioso in una sala piccola e di buona acustica come quella novarese – ma mostra spesso gravi lacune nel tener uniti palcoscenico e orchestra e addirittura imperdonabili errori negli attacchi. Lasciata a se stessa l’Orchestra filarmonica del Piemonte che pure aveva ben impressionato in “Norma” tende ad andare in confusione con gli ottoni spesso forzati e persino evidenti problemi di intonazione dei violini nell’introduzione di “E lucevan le stelle”. Il coro costretto a forzare per contrastare l’eccessivo volume orchestrale è ovviamente anch’esso in difficoltà.
In tale contesto le prestazioni dei vari cantanti diventano difficili da analizzare con precisione. Dispiace soprattutto per la protagonista, il giovane soprano rumeno Cellia Costea, in possesso di una materiale vocale di notevole interesse. Voce ampia, corposa, morbida e femminile con un settore centrale ampio e sonante e gravi ricchi di suono ma con qualche difficoltà nel settore acuto, meno naturale e con una certa tendenza a spingere troppo gli acuti che non risultavano sempre sicuri – il DO della “lama” è risultato quanto meno avventuroso. L’emissione della voce è corretta e anche la proiezione della stessa risulta pienamente soddisfacente. L’impressione è quella di una cantante interessante e con buoni mezzi di partenza anche se ancora bisognosa di qualche aggiustamento sul piano tecnico e sarebbe utile risentirla in un contesto migliore e più professionale per valutarla pienamente. Sul piano interpretativo sfrutta una notevole presenza scenica perfetta per il personaggio mentre il fraseggio tende a limitarsi ad un’esibita passionalità ma come già detto non era questo il contesto per maggiori approfondimenti interpretativi.
Sul piano vocale buona anche la prova del baritono bresciano Ivan Inverardi nei panni di Scarpia. Solido professionista e cantante di grande esperienza dispone di una voce autenticamente baritonale omogenea e ben timbrata su tutta la gamma e con buona facilità nella salita agli acuti, il colore vocale è piacevole anche se non personalissimo e la grande esperienza con il ruolo lo aiuta nel corso di tutta la recita. Purtroppo sul piano interpretativo è stato la principale vittima delle follie registiche e va riconosciuto ad Inverardi di aver recitato con convinzione e che gli infelici risultati sul piano espressivo vanno imputati al regista e non al cantante. Meno riuscita la prova di Lorenzo Decaro come Cavaradossi. Il tenore pugliese disporrebbe di un buon materiale vocale di base e di un timbro brunito non privo di suggestione ma i limiti tecnici inficiano irreparabilmente la prova. La voce è sempre ingolata e povera di proiezioni – nei duetti risultava sistematicamente coperto dalla Costea – e il mancato appoggio sul fiato rende il settore grave quasi afono. Inoltre si nota una totale mancanza di gusto e di musicalità con una tendenza ad allungare inutilmente gli acuti – per altro guastati da un evidente vibrato – con il solo risultato di trovarsi esausto e di rischiare di steccare nei passaggi seguenti – com’è avvenuto dopo la puntatura eccessivamente tenuta su “La vita mi costasse” con successiva rottura di voce su “vi salverò”. Buona la prova del basso Daniele Cusari come Cesare Angelotti, voce di bel colore e di buona presenza. Il sagrestano di Davide Pelissero è ben cantato e fraseggiato con gusto senza eccessivi eccessi caricaturali – nonostante la regia ci metta anche qui del suo – ma la voce è troppo chiara, quasi tenorile più che da basso buffo. Buoni mezzi vocali ha mostrato lo Spoletta di Saverio Pugliese mentre di anonima correttezza Massimiliano Galli come Sciarrone. Alessandra Ferrari non canta male la parte del pastorello ma è l’impostazione generale data alla scena a risultare falsata, modesto infine il carceriere di Radu Pintilie. Foto di Mario Mainino