Teatro Comunale di Ferrara: “Luisa Miller”

Teatro Comunale di Ferrara, Stagione 2014-01-14
“LUISA MILLER”
Melodramma tragico in tre atti
libretto di Salvatore Cammarano 
dal dramma di Friedrich Schiller “Kabale und Liebe” 
.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Walter GIANLUCA LENTINI
Rodolfo MEDET CHOTABAYEV
Federica JUNHUA HAO
Wurm CRISTIAN SAITTA
Miller MANSOO KIM
Luisa SILVIA PANTANI
Laura, contadina ANGELA ANGHELEDDU
Un contadino BRUNO NOGARA
Solisti del Corso d’alto perfezionamento per interpreti del canto con specializzazione nel repertorio verdiano, Fondazione ATER Formazione – Scuola dell’Opera Italiana e Comune di Busseto.
Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Donato Renzetti

Maestro del coro Corrado Casati
Messa in scena teatrale Leo Nucci
Regista collaboratore Salvo Piro

Scene Rinaldo Rinaldi, Maria Grazia Cervetti
Costumi Alberto Spiazzi
Disegno luci Claudio Schmid 
Coproduzione Fondazione “Teatri di Piacenza”, Fondazione “Teatro Comunale di Ferrara”, Teatro “Dante Alighieri di Ravenna”, in collaborazione con Teatro Comunale di Bologna
Ferrara, 7 Gennaio 2014
La posizione privilegiata dalla quale seguiamo le rinomate sorti di Luisa e Rodolfo ci consente di ammirare in prima istanza le raffinate scene dipinte di e da Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti. Con finezza ricreano una bucolica ambientazione di matrice donizettiana (per la più donizettiana delle opere del Cigno) fatta di luminose e assolate distese verdeggianti e alberi in fiore; a queste si contrappone la claustrofobica severità e l’oscurità delle stanze dalle quali il Conte Walter combina il matrimonio del figlio con la Duchessa Federica: qui libri impolverati si intrecciano con richiami all’iconografia pittorica. Ciò che maggiormente impressiona di questo allestimento, di cui Leo Nucci è il deus ex machina, sono proprio le mutazioni, a dispetto di quell’universo semantico legato al termine “scena dipinta”: un efficace mix di proiezioni (sullo sfondo), quinte e strutture triangolari (manovrate all’interno dai macchinisti) garantiscono non solo spazi funzionali all’azione ma anche cambi di scena veloci e a vista, il più delle volte suggestivi ed efficaci, con la complicità delle luci di Claudio Schmid.
La regia del cantante bolognese, per l’occasione coadiuvato da Salvo Piro
, si muove nel solco di una consumata tradizione, con garbo, evitando cadute di stile. Nucci, forte di una carriera da consumato cantante-attore, seconda lo svolgimento narrativo della vicenda, racconta una storia in modo pulito e lineare, solleticando il coinvolgimento del pubblico. Il velo di monotonia che si interpone però nel corso della serata fra quest’ultimo e il palcoscenico è dovuto, prima ancora che ad una certa ripetitività nella gestualità, alla scarsa elasticità scenica di un cast giocoforza inesperto. Vincitori della cinquantunesima edizione del Concorso di voci verdiane di Busseto, i cantanti si sono in larga parte rivelati l’anello debole dello spettacolo, paradossalmente votati ad una vocalità donizettiana più che verdiana.

Silvia Pantani, ad esempio, potrebbe interpretare una Adina più che discreta, ma ha una voce troppo leggera per Luisa. E questo lo si nota fin dall’esordio in «Lo vidi, e l’primo palpito», dove è la robusta orchestrazione verdiana della scena a metterla in seria difficoltà. Delle qualità richieste dal personaggio, le agilità di un soprano lirico-leggero, il peso di un drammatico, l’estasi di un lirico, la Pantani possiede (non con poche difficoltà), solo le prime. La voce infatti svetta sì gradevolmente verso acuti e sovracuti, sebbene con modalità a tratti scolastiche, ma manca totalmente di spessore nel registro centrale le cui risonanze risultano poco indagate. Ne risulta un canto avaro di accenti e flesso verso il parlato che peraltro non riesce a superare la barriera del suono orchestrale. Innocente vittima è la scrittura verdiana, che emerge da questa prestazione mortificata nell’intensa drammaticità (specie nel terzo atto), nella varietà dell’accento e nell’incisività del fraseggio.
Junhua Hao dipinge un ritratto della Duchessa Federica del tutto insufficiente. Al di là dei limiti piuttosto evidenti nella fonazione, che la portano lontano dal peso drammatico che Verdi chiede per il ruolo (non così distante da quello di Azucena ed Eboli), della sua prestazione preoccupano piuttosto l’immatura dimestichezza con la lingua italiana (in più punti svilisce la parola verdiana) e una presenza scenica assai poco autorevole. Ci auguriamo che a quest’ultima supplirà l’esperienza in palcoscenico. Il resto dovrà essere invece una conquista dello studio.
Gianluca Lentini dovrebbe possedere come requisito fondamentale quella voce di basso profondo che la scrittura del ruolo del Conte Walter esige, ma di fatto la difficoltà evidente nella fonazione (senza alcuna risonanza) e nell’intonazione (davvero stentorea) lasciano aperte due piste: una temporanea indisposizione fisica (ma in quel caso la si sarebbe potuto annunciare), o in alternativa un registro vocale fuori portata. Di lui è decisamente meglio Cristian Saitta come Wurm. Voce di autentico basso (e questo non è poco, visti i tempi di magra e… il resto del cast), il giovane (classe 1991) ha già in nuce molti requisiti del basso verdiano: schiettezza dell’accento, volume considerevole, buona proiezione, sensibilità alla parola, registro grave ricco, sonoro e corposo, uniti a un talento d’interprete che un regista d’esperienza saprà di certo far fruttare al meglio. Restano ancora da saldare fra di loro i registri e “naturalizzare” qualche suono intubato per completare la statura di questa valida promessa del canto. Ciò detto, per dovere di cronaca segnaliamo che il momento più affascinante dell’opera, la chiusa a cappella del terzetto del II atto, che vede impegnati con Saitta (che anche qui si distingue) anche i tre suddetti, diventi imbarazzante per il cageiano risultato armonico.
Bene anche il Miller di Mansoo Kim, che gode delle preferenze e delle attenzioni di Nucci-regista (con cui peraltro condivide il registro vocale). Il baritono coreano ha un potenziale sicuramente elevato e una cantabilità accattivante, accompagnata da una competenza stilistica più raffinata di quella dei suoi colleghi. Certo, ancora la strada per diventare un “baritono verdiano” è lunga (al momento è un “donizettiano” di taglia superiore) ma se il cantante saprà sopperire a talune artificiosità nel colore, approfondirà la tavolozza dei colori, affinerà la tecnica dell’acuto la strada sarà sicuramente in discesa. Attribuiamo all’affaticamento del primo atto e al silenzio del secondo il calo della prestazione nel terzo. Discreto invece il Rodolfo presentato da Medet Chotabayev, voce spesso opaca e trattenuta e in generale più vicina al Donizetti della Lucia piuttosto che al Verdi di Luisa. Soddisfacente la contadina di Angela Angheleddu, imbarazzante il contadino Bruno Nogara.
Donato Renzetti ha dovuto fare evidentemente i conti con il cast; pertanto, un’esecuzione integrale con ripresa delle cabalette sarebbe stata di certo fuori luogo e avrebbe sottoposto la platea ad un supplizio che non siamo certi sarebbe stata in grado si sostenere. Ciò detto, la sua direzione d’orchestra è il punto forte della serata, garantisce la tenuta dello spettacolo, esalta la drammaturgia, fa brillare la musica verdiana e in più punti tiene incollati alla poltrona. Non sarà un “verdiano verace”, ma Renzetti si conferma ancora una volta direttore assai scrupoloso e attento, concertatore paziente e partecipe. L’orchestra giovanile Luigi Cherubini lo segue come può, e in molti punti davvero più che diligentemente: congratulazioni quindi ad una sezione degli ottoni in grande spolvero, bene in generale gli archi, anche se da affinare nell’articolazione.
Approfittiamo ulteriormente della pazienza del lettore per tre ultime considerazioni. La prima è rivolta ai nostri vicini di poltrona. Il suono forte degli ottoni non è sempre sintomo di uno squilibrio sonoro ma anzi (e in questo caso lo era) volontà precisa di ricercare un effetto teatrale, e se è vero che musica e parola sono in Verdi complementari, è pur vero che la prima è sempre al servizio del teatro. E dalla teatralità di Verdi sarebbe ora di farsi riconquistare e guidare. La seconda riflessione riguarda invece i concorsi di canto e in particolare quello di Busseto i cui vincitori, che dovrebbero legare il loro nome a quello di Verdi, si sono rivelati in larga parte da lui ancora distanti. Si lascia la sala del Comunale con un interrogativo martellante: in quali luoghi le giurie ascoltano le giovani voci? Viene infatti il dubbio che spesso queste manifestazioni si svolgano in uno studio o in una sala, d’accordo, di grandi dimensioni ma fisiologicamente e morfologicamente ambiente ben diverso da un teatro e in cui, di conseguenza, le voci hanno una resa assai differente.
L’ultima, in parte legata alla precedente, ha una matrice insistentemente patriottica. Una volta ribadito che nessuna fra le voci selezionate per lo spettacolo fosse autenticamente verdiana, annotiamo con rammarico la parca presenza di quelle nostrane (il solo Lentini è assai poca cosa). Da un concorso italiano ci si aspetterebbe quindi da un lato un rigore nella ricerca di uno “specialismo esecutivo” se non eccellente per lo meno soddisfacente, dall’altro una maggiore attenzione “ai prodotti di casa nostra”, che crediamo debbano essere maggiormente valorizzati. Forse, questo paese è così consumato dalla crisi che tutte le “nostre” voci in grado di rendere giustizia a Verdi sono scappate all’estero? Sicuri? Proprio tutte?
Foto Marco Caselli Nirmal