Teatro Valli di Reggio Emilia:”Tosca”

Reggio Emilia, Teatro Valli, Stagione lirica 2013/14
“TOSCA”
Opera in tre atti. Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal dramma di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca AINHOA ARTETA
Mario Cavaradossi MASSIMILIANO PISAPIA
Barone Scarpia ANGELO VECCIA
Cesare Angelotti ALESSANDRO SVAB
Sagrestano ALESSANDRO BUSI 
Spoletta CRISTIANO OLIVIERI
Sciarrone LUCA GALLO
Carceriere MICHELE CASTAGNARO
Pastorello VALENTINA PUCCI
Orchestra e  Coro del Teatro Comunale di Bologna
Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Jader Bignamini
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Maestro del Coro Voci Bianche Alhambra Superchi
Regia Gianni Marras, adattamento dalla regia originale di Alberto Fassini
Luci Guido Levi
Ripresa luci Andrea Oliva
Ripresa costumi Paola Crespi
Allestimento Fondazione Teatro Comunale di Bologna in collaborazione coproduttiva con la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.
Reggio Emilia, 16 marzo 2014 

Tosca  ®2014 A.AnceschiChe cosa si dovrebbe dire di un allestimento routinario come questo? Niente. Il pubblico era folto ed è uscito molto contento. In origine era stato annunciata una regia di Daniele Abbado ed una direzione d’orchestra di Alberto Veronesi (geniale accoppiata di “figli di”), poi, forse per motivi di natura economica, la direzione del Comunale di Bologna ha sostituito Alberto Veronesi con il giovane Jader Bignamini e Daniele Abbado (con scene e costumi di Luigi Perego) con il responsabile dell’Ufficio Regia e Direzione di Scena del teatro, Gianni Marras, che ha utilizzato le scene di un allestimento del 1999 di Alberto Fassini. Nessuno si è lamentato del cambio e il Comunale farebbe bene a proseguire in questa politica di risparmio.
Se Massimiliano Pisapia ha fatto solo gli acuti della parte di Cavaradossi (tutti tenuti oltre il lecito), ingolando sgradevolmente i centri, Angelo Veccia è stato invece uno Scarpia eccellente, vocalmente irreprensibile. Al suo debutto nel ruolo, il soprano lirico basco cinquantenne Ainhoa Arteta (che in Spagna è una celebrità, forse per aver cantato anche alcune canzonette pop) se l’è cavata egregiamente, grazie ad un timbro di grande bellezza e ad una pronuncia molto incisiva. Efficaci i comprimari, tra cui si segnalano lo Sciarrone molto naturale di Luca Gallo, il carceriere particolarmente sonoro di Michele Castagnaro e il gradevole Pastorello di Valentina Pucci, non una bambina, ma un soprano adulto che imita una voce infantile mantenendo il giusto bilanciamento tra “folklore” e intonazione.
Della direzione di Jader Bignamini si può lodare la decisa coesione ritmica all’interno dell’orchestra e tra buca eTosca ®2014 A.Anceschi palcoscenico, un fatto che potrebbe parere scontato, ma che non sempre si verifica, considerando anche gli innumerevoli rallentandi che Bignamini distribuisce sulla partitura con spirito democratico, quasi ad ogni battuta. Al proposito vorrei ricordare ciò che mi disse una volta (ai miei tempi di oboista) l’eccellente flautista Michele Marasco: “Non è rallentando che rendi più interessante la musica”. Rallentare al termine di ogni battuta non rende più espressiva la partitura di Puccini, ma, anzi, leva forza a quei punti in cui l’autore un rallentando lo voleva e lo ha scritto esplicitamente, appesantisce l’ascolto e spesso va anche contro alle ragioni del dramma. Un’altra citazione: “Se ti sembra che gli ottoni stiano suonando troppo piano, abbassali di volume ancora un po’.” Chi non conosce questa famosissima “regola d’oro” di Richard Strauss per i direttori d’orchestra? Moltissima gente! Direttori d’orchestra, per lo più. Jader Bignamini, ad esempio, il quale non ha posto molti freni all’esuberanza dei tromboni, aizzandoli in particolare contro il povero Scarpia, che, per parte sua, ha lottato come un leone. Normali errori di valutazione, forse, ma non si può escludere l’orribile sospetto che dietro a questa mancanza di scorrevolezza ritmica e di rispetto per le voci dei cantanti vi sia il disdicevole intento di far parlare alla critica di un “Puccini sinfonico”, “riscattato” cioè dalle sue finalità teatrali.
Tosca ®2014 A.AnceschiLa dignitosa messinscena ha dato l’impressione di un lavoro sbrigativo (forse per un numero insufficiente di prove?) e non ha neanche tentato di sollevarsi dai soliti luoghi comuni. Nella sua paradigmaticità si presta perciò ad alcune riflessioni sulle tendenze degli allestimenti pucciniani oggi, su cui naturalmente il lettore è libero di dissentire.
Dei grandi compositori “di repertorio” Puccini è probabilmente il più vicino alla sensibilità del pubblico comune di oggi, per la rassomiglianza della sua drammaturgia alle modalità narrative del cinema (molte delle quali furono anzi ereditate da lui). Eppure non vi sono testi teatrali più bistrattati dei suoi. Difficilmente un’opera di Puccini manca il suo effetto: anche nell’esecuzione più dozzinale di Butterfly, ci sarà sempre un buon numero di spettatori in lacrime. Il contenuto sentimentale di un’opera di Puccini è sempre inequivocabile. Sono però i dettagli a soffrire. E questo teatro è fatto di dettagli, che sono tutt’altro che irrilevanti o marginali. A differenza del teatro di Handel, Mozart o Rossini, che si concentrava unicamente sugli “affetti” dei personaggi, dal grand-opéra di Meyerbeer in poi la musica dell’opera italo-francese prende sempre di più a occuparsi anche dell’ambientazione, della couleur locale. Il paesaggio non è più uno spazio astratto per passioni distillate ma divenne parte integrante del dramma. Sempre di più la drammaturgia musicale tardo-ottocentesca si basa su oggetti sonori “realistici” (a volte musicali, a volte rumoristici) che sono lì come per caso, ma che hanno invece un particolare significato per la vicenda narrata, non di rado in funzione di contrasto drammatico. Spesso sono fuori scena, a suggerire che il palcoscenico non è uno spazio Tosca ®2014 A.Anceschimetafisico assoluto (come poteva essere nella tragedia greca o nel dramma elisabettiana), ma una porzione minima di uno spazio fisico più ampio che noi possiamo guardare grazie ad una “quarta parete” trasparente (concetto caro ad André Antoine, padre del naturalismo teatrale). Si pensi all’uso del valzer dall’altra stanza come sfondo sonoro realistico dei dialoghi di Alfredo e Violetta nel primo atto de La traviata. Un uso particolarmente efficace ed umoristico di queste significative casualità meta-musicali (e di realismo irrealistico, nella maniera che poi sarà del grande cinema americano) lo fa la protagonista della Carmen: sta cantando una canzone popolare per sedurre Don José (oggetto musicale numero 1) quando da fuori la finestra si odono le trombe dei militari con cui Don José dovrebbe rientrare in caserma (oggetto musicale numero 2). Ella commenta “il est mélancolique de danser sans orchestre. / Et vive la musique qui nous tombe du ciel!” e continua la sua canzonetta con accompagnamento di trombe, facendo coesistere con nonchalance questi due oggetti musicali che per Don José rappresentano invece le due opposte polarità morali fra le quali si dibatte.
Fra tutti i drammi pucciniani poi, Tosca è forse quello che fa l’uso più pervasivo di queste “scenografie musicali” realistiche: la campana dell’Angelus, il cannone di Castel Sant’Angelo, le preghiere parlate del coro, il Te Deum, la gavotta pseudo-settecentesca, la cantata, il tamburo della scorta ai condannati, il canto del pastorello, le voci confuse di Spoletta, Sciarrone e compagni, ecc… Potrà anche non piacere (e lo stesso Puccini, per la sua ultima opera, si allontanò dal realismo e si avvicinò al simbolismo con un soggetto fiabesco, Turandot) ma non c’è alcun dubbio che la drammaturgia musicale di Tosca è “realistica” (per quanto realistica possa essere un’opera Tosca ®2014 A.Anceschilirica, ovviamente). Ne consegue che anche la messinscena, a meno che non si voglia presentare come una critica a Puccini, sarà obbligata ad essere realistica. E questo è infatti ciò che ancora oggi avviene nel 90% dei casi. Ma per fare un Sant’Andrea della Valle (o al Quirinale, come pensava Sardou) realistico, ci vogliono i soldi. Anche umiltà – l’umiltà di fare banalmente “quello che c’è scritto sul libretto” – e gusto. Ma soprattutto un po’ di soldi. Quello che si vede di solito nei teatri è invece un fritto misto di realismo oleografico e minimalismo di comodo che non è né carne né pesce, con elementi scenografici realistici persi nel vuoto.
Nel caso di Fassini, alcune tele dipinte (dipinte piuttosto bene, va notato) rappresentano gli ambienti ormai divenuti tradizionali: una prospettiva deformata della volta di S. Andrea della Valle, copiata dall’allestimento scaligero di Ronconi del 1996; una grande riproduzione in grisaglia della Crocifissione di S. Pietro di Guido Reni (forse un omaggio alla città felsinea) che incombe sopra al tavolone di Scarpia (riempito all’inverosimile di argenteria e ninnoli religiosi); un cielo davanti a cui si staglia la sagoma di una statua di San Michele Arcangelo (che sembra ormai divenuta obbligatoria, ma che non è affatto prescritta dal libretto, che invece – più significativamente – prescriverebbe una cupola di San Pietro sullo sfondo, ad indicare l’oppressione del papato).
Una nota a parte merita poi la famosa Maddalena dipinta da Cavaradossi, scoglio insormontabile per quasi tutti i registi e gli scenografi moderni. 1) Dovrebbe trattarsi di un affresco. È ridicolo che un pittore vada in chiesa a dipingere una tela anziché starsene comodamente nel proprio studio. Bisogna però ammettere che questa assurdità della tela è stata introdotta da Puccini stesso e dai suoi librettisti. Nel caso della scena di Fassini, si trattava di uno strano tavolone rigido appoggiato per terra, su cui tutti sono autorizzati a camminare senza alcuno scrupolo. 2) Non dovrebbe affatto essere dipinta in uno stile barocco (o, come talvolta accade, perfino rinascimentale): Cavaradossi era un pittore di simpatie bonapartiste e dipingerà quindi secondo la nuova austera moda neoclassica francese, in forte contrasto con la pompa barocca di Sant’Andrea (della Valle o al Quirinale). Il dramma di Sardou ci fa sapere anzi che è stato allievo dello stesso David. I registi che lo fanno dipingere in un attardato stile barocco vogliono forse cinicamente significare che in fondo non era un vero rivoluzionario, ma solo uno che tirava a campare. O forse non hanno la minima idea della storia dell’arte.
Le luci degli allestimenti pucciniani di oggi, anziché evocare le situazioni luministiche naturali prescritte dal libretto (interno giorno in una chiesa, interno notte in un ricco palazzo, sorgere dell’alba su Castel S. Angelo) non si fanno scrupoli a cambiare a seconda dell’andamento del dramma (cupe nei momenti drammatici, chiare nei momenti più leggeri…).
Questa situazione ibrida tra realtà ed espressione – accettabile ed encomiabile in altri autori, fastidiosa in Puccini perché in contrasto con la musica – sarebbe in ogni caso sorvolabile, se vi fosse un po’ di lavoro sull’attore. Invece la recitazione dei cantanti pucciniani, che i libretti prescrivono (con didascalie spesso sorprendentemente precise e azzeccate) vera, semplice, discreta, a volte financo secca, a furia di messinscene provinciali e routinarie, un po’ per strappare qualche applauso in più e un po’ per negligenza, si è trasformata nel corso del Novecento in un baraccone sentimentale e “melodrammatico” nel senso deteriore del termine, con cantanti che si sbracciano genericamente come vigili urbani e non distaccano mai lo sguardo dal direttore ed effettacci di ogni sorta.
Sarebbe auspicabile che registi e cantanti si dedicassero alla drammaturgia pucciniana con un po’ più di impegno, si dimenticassero di quello che hanno visto sempre fare, tornassero alle partiture e ai libretti e cercassero di rendere ad uno dei più grandi inventori di teatro musicale quella raffinatezza che gli è propria, perché il passo tra fine psicologia e triviale fotoromanzo è breve. La battaglia si gioca sui dettagli. P.V.Montanari