Trionfano alla Scala “Les Troyens” di Hector Berlioz

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2013-2014
 “LES TROYENS”
Grand Opéra in cinque atti e nove quadri
Libretto e musica di Hector Berlioz
La prise de Troie (I e II atto)
Un soldat  LUCIANO ANDREOLI
Cassandre  ANNA CATERINA ANTONACCI
Chorèbe  FABIO CAPITANUCCI
Énée  GREGORY KUNDE
Ascagne  PAOLA GARDINA
Hécube  ELENA ZILIO
Hélénus  ORESTE COSIMO
Panthée  ALEXANDER DUHAMEL
Priam  MARIO LUPERI
Andromaque  SARA BARBIERI
Astyanax  ALESSIO NUCCIO
L’ombre d’Hector  DEYAN VATCHKOV
Polyxène  SARA CATELLANI
Un chef grec  ERNESTO PANARIELLO
Les Troyens à Carthage (III, IV e V atto)
Didon  DANIELA BARCELLONA
Anna  MARIA RADNER
Iopas  SHALVA MUKERIA
Ascagne  PAOLA GARDINA
Panthée ALEXANDER DUHAMEL
Énée  GREGORY KUNDE
Narbal  GIACOMO PRESTIA
Le dieu Mercure  EMILIO GUIDOTTI
Hylas  PAOLO FANALE
1er soldat troyen  GUILLERMO ESTEBAN BUSSOLINI
2me soldat troyen  ALBERTO ROTA
Le spectre de Cassandre  ANNA CATERINA ANTONACCI
Le spectre d’Hector  DEYAN VATCHKOV
Le spectre de Chorèbe FABIO CAPITANUCCI
Le spectre de Priam  MARIO LUPERI
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Antonio Pappano
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia David McVicar
Collaborazione del regista Leah Hausman
Scene Es Devlin
Costumi Moritz Junge
Luci Wolfgang Göbbel (riprese da Pia Virolainen)
Coreografia Lynne Page
Nuovo allestimento in coproduzione con Royal Opera House, Covent Garden, Londra; Wiener Staatsoper; San Francisco Opera
Milano, 12 aprile 2014

Sunt lacrimae rerum (Verg. Aen. I 462). Sarebbe certamente piaciuta a Hector Berlioz la recente traduzione che Vittorio Sermonti ha proposto per il celebre verso virgiliano: ‘Piange la storia’. In effetti è la tragedia della storia – individuale e collettiva al tempo stesso – la vera, unica protagonista dei Troyens, grand opéra in cinque atti composto tra 1856 e 1858. Il progetto non era meno ambizioso di quello che si sarebbe concretizzato poi con la Tetralogia: se Wagner riduce a sceneggiatura per il teatro musicale l’epopea germanica dei Nibelunghi, Berlioz condensa in una spettacolare dilogia la prima metà dell’Eneide, ossia il testo epico fondativo della civiltà europea mediterranea, summa di Iliade e Odissea, sintesi latina di tutta la cultura greca e base di quella medioevale. Pensare che un’ambizione di tale altezza sia stata ancorata al genere vetusto (disprezzato da Wagner e dai wagneriani) come quello del grand opéra (“effetti senza causa”, a detta del creatore di Parsifal) rende evidente l’inattualità, e dunque la fortissima componente sperimentale del teatro di Berlioz.
La storia esecutiva e la ricezione dei Troiani passano sicuramente attraverso la Scala, perché la prima italiana dell’opera fu appunto a Milano nel 1960 (con Mario Del Monaco nella parte di Enea e Rafael Kubelik sul podio); l’attuale edizione è poi apparentata alle precedenti grazie a due interpreti storici: Elena Zilio, ora Hécube, compariva nell’edizione del 1982 nella parte di Ascanio (dirigeva Georges Prêtre), mentre Ernesto Panariello, ora Un chef grec, compariva nello stesso ruolo e in quello di Mercurio nell’edizione del 1996 (dirigeva Colin Davis). La conduzione di Antonio Pappano rappresenta adesso il debutto scaligero del direttore dell’Orchestra Sinfonica di Santa Cecilia in Roma, ed è occasione che immediatamente si trasforma in trionfo personale. Pappano è l’idolo della produzione scaligera, osannato sin dal primo apparire in buca, e ancor più a ritorno sul podio, prima dell’atto III, IV e V; e ogni volta è un siparietto di voci dall’alto, che vorrebbero il Maestro stabile alla Scala, oppure che si compiacciono di tenerlo a Roma. Ma la festa è grande per le voci (la triade Antonacci, Kunde, Barcellona riassume il meglio di quanto oggi si possa desiderare per il tipo di vocalità impegnato da Berlioz), ed è grande per lo spettacolo di McVicar, veramente straordinario nello sforzo tecnico, nell’originalità dell’impianto, nella coerenza di lettura del testo di Berlioz (e dell’archetipo virgiliano). Raramente accade di assistere a una rappresentazione così convincente, capace di armonizzare ed entusiasmare il parere del pubblico, e soprattutto caratterizzata da qualità artistica elevatissima.
Con fiati e ottoni che addirittura tracimano dai palchi di proscenio, e con una massa corale mobilissima sulla scena, l’opera si avvia nella cifra musicale della freschezza e della trasparenza sonora; orchestra e voci del coro si rincorrono quasi, con frenetico entusiasmo (è la gioia per la conclusione della guerra, dopo dieci anni di conflitto tra Greci e Troiani). Pappano tiene strette le redini della partitura senza un secondo di cedimento, con un’orchestra che lo segue in qualunque direzione la conduca. Come se dovesse dirigere un Wagner dalle intenzioni liriche, il direttore esalta il canto di conversazione tra i vari personaggi, la dimensione epica della parola che rammemora antiche vicende; e per rendere più mobile la resa dei colori è attentissimo a valorizzare le singole famiglie strumentali in dialogo con le voci.
Poi entra in scena Anna Caterina Antonacci, la grande protagonista dei primi due atti; nelle nere vesti della profetessa inascoltata, Cassandra intona «Malheureux Roi!» con una linea di canto e un’espressività grandiose. Il timbro chiaro della Antonacci e la sua straordinaria musicalità sono i tratti più apprezzabili; forse alcuni acuti riescono un po’ faticosi, ma il personaggio è vivissimo e instancabilmente animato.
Fabio Capitanucci è invece un Chorèbe non del tutto convincente, perché oltre a forzare gli acuti produce risonanze di gola e accusa qualche difetto d’intonazione. Nella parte di Énée è un Gregory Kunde in forma smagliante: con la voce, con la presenza, con l’interpretazione, Kunde non è il giovane eroe avventato, ma l’uomo saggio, vigoroso, devoto: è insomma il pius Aeneas del modello virgiliano. Nel concertato che avvia al finale I, poi, gli svettanti acuti del tenore guidano tutta quanta la compagine, ancora meglio della bacchetta di Pappano. Kunde riesce a interpretare assai bene la curvatura caratteriale del personaggio nel corso dei vari atti: smanioso e cavalleresco in III e IV, disperato, eterodiretto e annientato dal fato nel V. Il duetto del IV atto tra Énée e Didon, per esempio, è una straordinaria lezione di canto espressivo sia da parte di Kunde sia da parte di Daniela Barcellona: fraseggio, mezze voci, colori notturni; tutto è al servizio del testo musicale e letterario (completamente nuovo rispetto al modello virgiliano, questa volta). Ma lo stesso duetto è anche un modello di “accompagnamento” orchestrale da parte di Pappano: le tinte scure e calde dei fiati sormontano ogni altra sonorità, prima che il triplice grido «Italie!» di Mercure concluda l’atto con un presagio di catastrofe. Il momento in cui Kunde dimostra meglio la robustezza delle sue note centrali è il duetto drammatico dell’ultimo atto con Didon: però si apprezzano anche la solidità delle note basse e la sicurezza negli acuti (delle cui puntature la parte di Énée è continuamente cosparsa). L’arioso e il declamato di Berlioz si attagliano senz’altro alla voce di Kunde, che canta tutto sul fiato, con eccezionale musicalità.
Deyan Vatchkov, L’ombre d’Hector, ha voce apprezzabile, anche se piccola e non carismatica come dovrebbe essere (il carisma è indispensabile quando si deve declamare versi come «L’ennemi tient nos murs! / De son falte élevé Troie entière s’écroule!»: i lettori virgiliani riconosceranno la perfetta traduzione di Aen. II 290, Hostis habet muros; ruit alto a culmine Troia).
La II parte dell’opera ha per protagonista la Didon di Daniela Barcellona, che sin dall’ingresso in scena deve cimentarsi con una tipica pagina berlioziana: declamato e arioso a ritmo sostenuto, agilità e prodezze vocali. Se all’inizio la voce della cantante rossiniana risuona un po’ piccola, già nel primo duetto con Anna essa si riscalda, e continua ad arrotondarsi sempre meglio, per tutta l’opera. Si è già detto della meraviglia del duetto del IV atto; nel V, tornando in scena furibonda alla notizia dell’imminente partenza di Énée, la Barcellona è sempre più convincente nel tono drammatico e nella linea di canto, in tutto precisa. Molto lontana da quel belcanto rossiniano grazie al quale ha raggiunto la notorietà internazionale, la Barcellona delle scene finali raggiunge l’unità di qualunque intento drammatico, omogenea in tutte le zone del registro. L’aver frequentato anche altri repertori senza dubbio le giova a sostenere i repentini cambiamenti di atteggiamento di Didon, che da furia anguicrinita si trasforma in tenera amante disperata.
Molto buona l’interpretazione di Paola Gardina del ruolo en travesti di Ascagne. Nella parte della soror Anna è Maria Radner, che ha voce piccola e tremula, anche se abbastanza calda. Non del tutto ferma, ma autorevole, è la voce di Giacomo Prestia, nella parte di Narbal. Gradevole la voce tenorile di Shalva Mukeria (Iopas), anche se appena sale nel registro acuto si stimbra e risuona nasalmente. Ottimo invece Paolo Fanale, dalla voce delicata e garbata, nel ruolo del marinaio frigio Hylas, che canta dalla coffa della nave di Enea all’inizio dell’ultimo atto; trattandosi di un canto di nostalgia per la patria perduta, è un momento di grande suggestione romantica (che anticipa i canti solitari di personaggi wagneriani come Brangäne o il pastorello del Tristan und Isolde). Simpaticissime le due sentinelle del V atto (unici personaggi scherzosi di tutto il grand opéra), interpretate da Guillermo Esteban Bussolini e Alberto Rota: dialogano sul dispiacere di abbandonare le loro belle (e compiacenti) cartaginesi per andare alla ricerca dell’ignota Italia. Veramente ottimo tutto il coro, e perfetto quello femminile del II atto, con il suicidio collettivo reso in modo perfettamente credibile.
David McVicar ha realizzato uno spettacolo di eccezionale coerenza e di costante capacità comunicativa, coniugando tutte le possibili dimensioni che un’opera monumentale come Les Troyens richiede; ma non c’è soltanto la grandiosità (che non ha peraltro nulla di hollywoodiano): sin dal duetto iniziale tra Cassandra e Chorèbe l’attenzione della regia si coglie nella gestualità e nei movimenti corporei; non c’è mai staticità, a denotare l’angoscia della veggente inascoltata e l’impossibilità di comunicazione tra lei e Chorèbe.
Un torrione ferrigno, tutto rivestito di balaustre e ringhiere, che aggetta sul palco: è la roccaforte di Troia, come si presenta all’indomani della (falsa) partenza dei Greci; a sinistra si erge, ma per nulla monumentale, la tomba di Achille. La torre si apre poi in due blocchi, rivelando al suo interno uno spaccato di più livelli, tutto fatto di blocchi metallici, ingranaggi, ruote dentate: è l’identificazione di Troia come macchina da guerra. I sistri risuonano ancora dal palco di proscenio durante la processione di ringraziamento, mentre gli ufficiali troiani, in perfetta divisa militare in stile Secondo Impero, sfilano davanti al trono di Priamo. Ed è magnifica l’apparizione di Andromaca (drammaturgicamente importantissima, proprio perché il personaggio è muto): in abito di sposa e velo bianco, è la vedova che prefigura il destino di tutta Troia. Peccato che nel corso della processione troiana i tre idoli al centro della devozione siano realizzati con la riproduzione di esemplari della statuaria greca di VI-V secolo: un doriforo, una kore e un kouros (anche una regia attenta corre sempre il rischio di cadere nel trovarobato facilmente evocativo).
Il momento più spettacolare è certamente la comparsa del cavallo di legno (che in realtà Berlioz aveva voluto evitare); ma McVicar è filologico, perché ricorda la definizione virgiliana della trappola come fatalis machina che si arrampica sulle pareti della rocca (Aen. II 237): in tutta la sua maestosa mole, la testa del cavallo è un’intelaiatura cava, realizzata con ingranaggi, ruote dentate, armi, baionette, mitragliatrici, tutto appiattito per modellare il contorno del cavallo e lasciare traforata la superficie. La testa enorme spunta tra vapori rossastri, e avanza piano, caracollando su e giù più volte, fino a raggiungere il proscenio, girarsi di lato, capovolgersi, tornare indietro tra i cori acclamanti. McVicar riesce dunque non solo a far muovere persone e masse, ma anche macchine e oggetti con modalità naturali. Nell’entr’acte che separa La prise de Troie dai Troyens à Carthage domina la videoproiezione del mare : è l’elemento di collegamento narrativo rispetto alle peripezie mediterranee del libro III dell’Eneide, che a Berlioz interessano assai meno rispetto alla parentesi tragica del IV.
Lo scenario africano è dominato in tutti e tre gli ultimi atti dalle alte mura di Cartagine in costruzione; Didon è accolta da una pioggia di petali davanti al modello in miniatura della città (che il regista abbia pensato alla urbs antiqua – che non è Roma, ma appunto Cartagine – con cui si avvia la storia di tutto il poema virgiliano, in Aen. I 12?). Se prima il ferro rugginoso della rocca troiana era avvolto da un’oscurità mortifera, ora il colore diffuso è quello della sabbia del deserto illuminata dal sole; e poiché III e IV atto sono quelli dalla musica più gioiosa, dalle fanfare di guerra e di caccia e dei momenti di danza, giustamente Lynne Page ha elaborato coreografie molto semplici, popolari, nel corso delle quali la stessa Didon si lascia portare in trionfo; perché trionfa l’idea di lavoro, di abilità artigianale e tecnica, di costruzione del bello e del nuovo. Se Troia era osservata dall’esterno, Cartagine lo è dall’interno di una concava parete riarsa dal sole, e comunque monumentale; McVicar, insomma, coglie bene l’opposizione contestuale dei Troyens, opera epica esclusivamente ambientata nei limiti urbani: la città è il luogo della tragedia storica al pari di quella individuale, della guerra come dell’amore (deluso). Il IV è infatti l’atto notturno: il modellino circolare della città, sollevato in alto, è appena illuminato di viola, mentre sulla scena si svolge un pantomimo di caccia, con satirelli che insidiano ninfe e personaggi armati di arco e frecce all’inseguimento delle belve; nel mezzo, Didon ed Énée che si amano. Ecco il momento coreuticamente più virtuosistico: in sgargianti costumi moreschi, sei coppie di danzatori si abbandonano a tenere effusioni su ritmi musicali esotici, mentre la sorpresa è completata da voci del coro che si levano dai palchi di proscenio.
Nel V atto il grande disco sormontato dal plastico di Cartagine è spezzato in due, come l’idillio tra il figlio di Venere e colei che «ruppe fede al cener di Sicheo». A Enea appaiono i fantasmi dei morti troiani, dall’alto della parete di una Cartagine ormai dimezzata. Il genio registico è nella sintesi, nel richiamo interno, nel ritrovamento della coerenza: ecco dunque che la pira funebre su cui Didon si abbandona dopo essersi suicidata è realizzata con pezzi di ruote, armi, ingranaggi, che in precedenza si erano osservati a costituzione del cavallo. Del resto, nel terminare l’opera con i nomi di Annibale e di Roma («immortelle!», esclama dolorosamente la regina), Berlioz aveva sintetizzato la storia e l’epica omerico-virgiliana in poche battute. Se anche questo dovesse rientrare nel novero degli “effetti senza causa”, non potrebbe che essere definito sublime, e foriero di tanto altro teatro musicale. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala