Verona, Teatro Filarmonico:”Stabat Mater” di Gioachino Rossini

Verona, Teatro Filarmonico, Fondazione Arena. Stagione Sinfonica 2013-2014
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Stefano Montanari
Maestro del Coro Armando Tasso
Soprano Pretty Yende
Mezzosoprano Ekaterina Semenchuk
Tenore Francesco Marsiglia
Basso Mirco Palazzi
Gioachino Rossini: “Stabat Mater”per solisti, coro e orchestra
Verona, 18 aprile 2014   

Più immancabile della colomba, più controverso del mistero pasquale, più corposo e solenne di una pastiera napoletana, anche quest’anno il miglior modo per augurare una buona Pasqua rimane sempre lo Stabat Mater di Gioachino Rossini.  La sequenza poetica, attribuita a Jacopone da Todi e musicata da Rossini in momenti diversi della sua vita, è andata in scena al Teatro Filarmonico come settimo concerto della stagione sinfonica; la sua esecuzione è stata affidata alla bacchetta di Stefano Montanari, noto barocchista. Il gesto di Montanari è molto scenografico, a tratti ricorda quasi uno stile del kung fu; l’abbigliamento decisamente fuori dagli schemi – catene, orecchini e perfino stivaletti borchiati – contribuisce a dipingere l’immagine di un direttore consapevolmente anticonvenzionale. Il pubblico veronese, non è una novità, è generalmente diffidente nei confronti dei vezzi artistici troppo sopra le righe – e infatti prima dell’attacco arriva prepotente il “no ghe più religione” di una signora in platea. Ma la religione c’è, eccome: anzi, la lettura che Montanari dà dello Stabat Mater di Rossini è profonda, interessante, ricca di scelte dinamiche coraggiose e affascinanti. La sua direzione risulta fortemente influenzata dalla formazione violinistica: Montanari infatti si focalizza particolarmente sulla resa degli archi, che rispondono con discreta prontezza. Non altrettanto brillante la prestazione dei fiati, in particolare degli ottoni; il risultato complessivo resta comunque apprezzabile. Montanari sceglie dei tempi flessibili, lascia respirare i suoi solisti, non cerca di incanalare l’orchestra in schemi troppo rigidi; addirittura talvolta lascia che i musicisti proseguano da soli, per poi guidarli in cambi dinamici sapientemente calibrati.
Alla complessiva buona riuscita dello spettacolo contribuisce in maniera rilevante la scelta del quartetto solistico, un poker di giovani talenti dalla carriera ormai avviata che hanno affrontato questo Rossini così complesso e atipico con un approccio umile e una preparazione estremamente accurata. Francesco Marsiglia, tenore di eccellente formazione e dal timbro davvero molto leggero, sembra rendersi conto di quanto questa caratteristica possa rivelarsi un’arma a doppio taglio: al coraggioso re bemolle in pianissimo, risolto con un falsetto poco filologico, accosta un’ elegante linea di fraseggio, che lo mette al riparo da eccessive critiche. La ricerca del colore non è particolarmente raffinata ma i suoni non risultano gonfiati e nei momenti d’assieme è preciso e a suo agio.  Il mezzosoprano russo Ekaterina Semenchuk è la più ispirata tra i solisti: i suoi pianissimi sono davvero emozionanti, il legato è condotto egregiamente, la fascia centrale è limpida e non necessita di artificiose scuriture. Ad una relativa poca luminosità della fascia acuta oppone una minuziosa cura del colore. Anche nelle tessiture più gravi la sua voce non teme i volumi orchestrali; i fiati sono ben calibrati e assecondati dall’attenta direzione di Montanari.  Davvero eccellente la prestazione di Pretty Yende: dalla sua vittoria ad Operalia sono già trascorsi tre anni, particolarmente fruttuosi per il soprano sudafricano, che a ventotto anni è già passata da Scala e Metropolitan. Splendida nella zona centrale, agile nell’acuto, la Yende ammalia per la sua interpretazione sentita e per il colore denso e corposo, sempre una rarità per un timbro tanto chiaro. Avevamo già avuto modo di apprezzare Mirco Palazzi per la sua affascinante interpretazione di Mustafà nell’Italiana in Algeri, in scena lo scorso febbraio nella stessa cornice veronese. Il basso, chiamato a sostituire Marco Vinco, ha un colore naturalmente caldo e ricco di armonici che gli conferiscono una morbidezza di suono trasversale, ma che si rende ulteriormente evidente nella tessitura acuta. Il suo Pro peccatis, quarto movimento, è forse uno dei più riusciti della sequenza.
Un ménage à quatre vincente, che trova la sua espressione più alta nel nono movimento della sequenza, il quartetto Quando corpus, costruito su giochi cromatici resi ottimamente dai quattro solisti. Il coro, che avevamo recentemente lodato per l’ottima prestazione in Maria Stuarda e nello Styx diretto da Boris Brott, stavolta non brilla per  precisione e omogeneità; il dato si rende particolarmente evidente nel pasticciato Fugato finale.  Come già in altre occasioni, le voci gravi tentano faticosamente di “riagganciare” quelle più acute e rimetterle in carreggiata, così più che ad una fuga assistiamo ad un inseguimento da poliziottesco anni ’70.   Le cose erano andate decisamente meglio nel quinto movimento, Eia Mater: qui il coro (preparato da Armando Tasso) fa da gloriosa cornice al morbido inserimento del basso, un Palazzi davvero in ottima forma. Ancora una volta il capolavoro rossiniano ha sortito il suo effetto catartico: il pubblico, discretamente numeroso, rivive nello sguardo commosso della Vergine addolorata e, purificato, si profonde in un generoso applauso, richiamando a più riprese solisti e direttore. Foto Ennevi per Fondazione Arena