Palermo, Teatro Massimo: “Don Giovanni”

Palermo, Teatro Massimo – Stagione Lirica 2014 
“DON GIOVANNI”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni CARLOS ÀLVAREZ
Il Commendatore MICHAIL RYSSOV
Donna Anna  ROCIO IGNACIO
Don Ottavio TOMISLAV MUŽEK
Donna Elvira  MAIJA KOVALEVSKA
Leporello MARCO VINCO
Masetto BIAGIO PIZZUTI
Zerlina BARBARA BARGNESI
Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del Coro Piero Monti
Regia Lorenzo Amato
Scene Angelo Canu
Costumi Maria Hoffmann
Luci Alessandro Carletti
Maestro al fortepiano Giacomo Gati
Palermo, 16 maggio 2014

Solitudine, seduzione violenta, morte, ma anche caos, frenesia, ciclicità. Questi i temi portanti del nuovo allestimento del Don Giovanni che, dopo un’assenza lunga dodici anni, torna in scena a Palermo per festeggiare il 117° compleanno del Teatro Massimo.
Sul podio il Maestro Stefano Ranzani, molto amato dal pubblico palermitano e presenza costante nelle stagioni del Teatro Massimo proprio come il regista dell’opera, Lorenzo Amato, che qui è stato chiamato come consulente artistico della stagione 2013. Nell’idea del regista «Don Giovanni comincia e finisce con la morte». È forse questo il motivo per cui si è scelto di rappresentare l’opera nella sua rivisitazione viennese del 1788, ossia con il taglio della scena ultima che segue allo sprofondare negli inferi del protagonista. In realtà però, a quella stessa edizione apparterrebbe l’eliminazione dell’aria di Don Ottavio «Il mio tesoro» che qui viene invece eseguita. Un mix di edizioni, dunque, che opta per il finale ad effetto, ma che allo stesso tempo vuole mantenere i pezzi di bravura che hanno reso gloriosi nei secoli tanti interpreti mozartiani.
La chiave di lettura di questo allestimento è dichiarata già durante l’Ouvertura (italianizzazione dello stesso Mozart) dove il contrasto e il susseguirsi incalzante dei temi musicali è commentato dall’azione mimica. Nulla da dire sull’efficacia di questa lettura: attraverso un sipario trasparente – espediente a cui ricorre più volte questa regia per suggerirci che ciò che vediamo si svolge su un piano differente da quello della realtà o del presente – prende vita la figura di uomo nudo, indifeso, incapace di interagire con le figure femminili che numerose lo sfiorano, quasi lo ossessionano, passandogli accanto. Basta però che egli indossi i panni del cavaliere licenzioso perché la situazione si capovolga e così, al graduale mutare dell’atmosfera musicale, ecco prendere forma l’essenza del protagonista, l’irresistibile seduttore che con un semplice tocco fa sua ogni sorta di donna. Ma la genialità sensuale di kierkegaardiana memoria, che sorge con la musica e si incarna in Don Giovanni, ha davvero bisogno di esplicitarsi su un piano visivo per essere compresa? Non sarebbe meglio lasciar spazio alla sola musica, che è già presentazione e sintesi del dramma, affidandosi alla fantasia e alla sensibilità dello spettatore? A parte qualche trovata buffa di Leporello e certe movenze assai disinibite di Zerlina che, dopo esser stata sedotta da Don Giovanni, può finalmente mostrare di cosa è capace al suo amato Masetto («Vedrai carino»), nulla riesce a distogliere l’attenzione dall’idea di morte che pervade l’opera dall’inizio alla fine.
Una tetra e angosciosa atmosfera, surreale, quasi allucinata, carica dei fumi e delle luci livide dirette da Alessandro Carletti, avvolge i personaggi anche nei momenti più leggiadri, come quello della «Canzonetta» del secondo atto, in cui il corpo scenico ruota come un carillon nell’oscurità esibendo, uno dopo l’altro, i corpi immobili delle donne collezionate da Don Giovanni e imprigionate dietro le finestre illuminate. Il libertino licenzioso è rappresentato come un personaggio cupo, sicuro di sé e fiero della sua amoralità, che seduce le donne ed è sedotto dalla morte nello stesso istante in cui guarda volar via l’anima dal corpo del Commendatore («Già dal seno palpitante/Veggo l’anima partir»). La scena girevole dalla forma ellittica, realizzata da Angelo Canu, ci sembra una delle scelte vincenti di questo allestimento: estremamente funzionale al cambio di scena, all’alternarsi tra giorno e notte, essa si muove insieme ai personaggi conferendo una fluidità visiva all’azione che ben si presta alla continuità della musica, soprattutto nei momenti più complessi dell’intreccio drammatico come quello lunghissimo del secondo atto (scene IV-IX), dove i personaggi percorrono la struttura in lungo e in largo mentre questa è in movimento. Particolarmente pittoresca invece la resa scenica dell’aria «Dalla sua pace», che Don Ottavio canta rivolto al pubblico mentre alle sue spalle Donna Anna passeggia in cima alla balconata, mostrandosi a noi come una visione della mente del suo amato.
Considerato dal regista «un mito che attraversa la musica», il personaggio di Don Giovanni ci appare come un’idea, un mito che attraversa il tempo e che esiste per contrasto con gli altri personaggi; è infatti l’unico, insieme a Leporello, ad indossare un costume settecentesco mentre gli altri attori vestono ognuno un’epoca diversa, sicuramente successiva, addirittura contemporanea: ne danno ampia prova gli abiti dai colori sgargianti, disegnati dalla vulcanica costumista Maria Hoffmann, che volutamente trasformano la festa dei contadini in onore di Masetto e Zerlina in un pacchiano ricevimento nuziale dei giorni nostri, con balli di gruppo moderni e selfie scattati dai telefonini.
Interprete di riferimento del ruolo di Don Giovanni, il baritono Carlos Álvarez veste i panni del ‘dissoluto’ con una presenza scenica di tutto rispetto, affrontando con disinvoltura i pezzi chiusi così come i recitativi – accompagnati dal fortepiano di Giacomo Gati – importantissimi per il suo personaggio: don Giovanni seduce attraverso il discorso che, parola dopo parola, giunge dritto al cuore delle sue vittime. Alter ego di Don Giovanni, sua coscienza e vero e proprio catalizzatore del dramma, Leporello trova nel giovane basso Marco Vinco un interprete eccellente, forse il migliore di questo cast, sia per la disinvoltura sella scena, sia per la voce dal timbro profondo ma chiaro: notevole l’esecuzione dell’aria del catalogo «Madamina il catalogo è questo» (segnaliamo l’intervista al cantante su GB Opera).
Rocio Ignacio, che proprio accanto ad Álvarez nel 2003 debuttò, conquista con la sua Donna Anna i primi applausi del pubblico a conclusione del duetto «Fuggi, crudele» cantato insieme a Don Ottavio che è qui interpretato dal tenore croato Tomislav Muzek. Il soprano sivigliano fa propria la drammaticità del personaggio che esprime con trasporto con il corpo e con la voce, capace di una potente intensità che negli acuti però un po’ si appiattisce, screziandosi di accenti metallici («Or sai chi l’onore»; «Non mi dir»). Muzek è forse troppo statico sul palcoscenico ma, grazie al suo timbro pulito e possente, affronta con sicurezza i numeri da solista («Dalla sua pace»; «Il mio tesor») come anche i pezzi d’insieme; di grande effetto il terzetto delle maschere del primo atto «Protegga il giusto cielo», che viene nettamente e improvvisamente isolato dalla scena facendo calare un sipario nero alle spalle dei tre cantanti, quasi a fotografare quel momento come elemento cardine dell’intreccio musicale e drammatico che precipiterà subito dopo verso il finale d’atto. Maija Kovalevska interpreta intensamente la sua Donna Elvira sedotta e abbandonata, con tanto di pancione che fa capolino da un completo chiaro, pulito e umile come la sua anima. Pulito e chiaro anche il suo canto, che si dispiega su una linea vocale delicata con una dizione impeccabile e con una carica drammaturgica degna di nota, soprattutto dopo l’ennesimo tradimento del suo amato («Mi tradì quell’alma ingrata»). Il soprano Barbara Bargnesi e il baritono Biagio Pizzuti sono una Zerlina e un Masetto giovani e leggiadri, adatti ai rispettivi ruoli vocali e ben integrati nel coro di contadini del primo atto, interpretato dal Coro del Teatro Massimo e arricchito dalle coreografie variopinte di Giancarlo Stiscia. Timbro cupo e spettrale infine quello del basso Michail Ryssov, il Commendatore, che si presenta in scena anche da morto con lo stesso severo abito nero del primo atto: non c’è nessuna Statua ma soltanto lo spirito, il fantasma, che all’ultima cena di Don Giovanni fa il suo ingresso tra i fumi e le lugubri luci dell’aldilà dove presto l’ostinato libertino sprofonderà, risucchiato da uno stuolo di vittime.
Solo una considerazione sull’esecuzione dell’Orchestra del Teatro Massimo che, forse a causa della velocità di esecuzione scelta da Ranzani, non riesce sempre a interpretare con disinvoltura la scrittura mozartiana, fatta di contrasti di forze opposte da evidenziare e mai sedare, di equilibri timbrici e strutturali fragili ma fondamentali per conferire continuità alle diverse forme musicali dell’opera. Repliche fino al 25 maggio. Foto Franco Lannino/Studio Camera