Teatro alla Scala: Maria Agresta in concerto

Milano, Teatro alla Scala, Recital di canto, Stagione 2013/2014
Soprano Maria Agresta
Pianoforte Julius Drake
Antonio Vivaldi (Geminiano Giacomelli): da Bajazet, “Sposa son disprezzata”
Wolfgang Amadeus Mozart: “Dans un bois solitaire”, Ariette K 308/295b
Vicenzo Bellini: “La ricordanza”
Richard Wagner: “Tout n’est qu’images fugitives”
Giacomo Puccini: “Sole e amore”, “Terra e mare”
Reynaldo Hahn: “La dernière valse”
Pier Adolfo Tirindelli: “O Primavera!”
Luigi Denza: “Torna!”, “Si tu m’amais”
Francesco Paolo Tosti: “A’ Vucchella”, “Chanson de Barberine”, “La chanson de l’adieu”
Luigi Arditi: “Il bacio”
Milano, 8 settembre 2014

L’8 settembre 2014 è una data che il mondo dell’opera non potrà scordare facilmente: un giorno segnato dal vuoto immenso che Magda Olivero lascia dietro di sé con la sua scomparsa e, al contempo, dal più degno omaggio in musica che le si potesse riservare questa sera al Teatro alla Scala. Il recital di Maria Agresta – primo al Piermarini – si trasforma da evento molto atteso a trionfale e commovente omaggio all’arte del canto e alla Signora che ne è stata indimenticabile protagonista e pilastro. Prima dell’inizio del concerto una voce invita a ricordare l’artista scomparsa ripercorrendo brevemente le sue presenze in Scala – poche ma significative nella sua carriera – dal debutto nel ruolo del titolo con Marcella di Giordano (1938) passando per Bohème, il cavallo di battaglia Adriana Lecouvreur e Francesca da Rimini, fino ad arrivare all’ultima interpretazione nella Jenufa di Janaček nel 1974. “Voce carismatica, attrice formidabile, intelligenza pronta e tagliente fino alla fine”. Di lei ci rimane questo, la sua arte immensa che l’ha resa immortale. Tutti in piedi, un assordante minuto di silenzio, un lungo e commosso applauso.
Maria Agresta fa il suo ingresso in abito viola-fucsia, colore che per i superstiziosi sarebbe sconsigliabile indossare in teatro…ma la bella performance che segue dimostra che superstizioni sono e superstizioni restano. Al suo seguito Julius Drake, pianista britannico specializzato in musica da camera che accompagna il soprano per l’occasione. Il concerto si apre ufficialmente sulle inconfondibili note d’introduzione di “Sposa son disprezzata”, aria tratta dal pastiche Bajazet che Vivaldi prende in prestito da Geminiano Giacomelli. Da subito si sente emergere una vocalità morbida che va a spandersi uniformemente su ogni frase, conferendo ad ognuna una drammatica dolcezza. La Agresta ci porta al culmine del pathos impreziosendo con accento delicato il verso chiave “Cieli, che feci mai?”, complici anche i tempi estremamente dilatati scanditi da Drake che rendono – se possibile – il tutto ancor più malinconico e straziante.
Si tratta solo dell’antipasto di un programma eclettico che spazia tra epoche e stili differenti, con una focalizzazione particolare sulle romanze da salotto. Un altro fil rouge è la tematica amorosa che pervade ogni componimento e un terzo – evidente – è la voluta selezione di compositori prevalentemente italiani, con cui la cantante va a confezionare una sorta di dichiarazione d’amore spassionato verso il nostro Paese. Fanno eccezione solamente tre arie in francese: una graziosissima rarità mozartiana (“Dans un bois solitaire”), il breve componimento di un quasi irriconoscibile Wagner ventiseienne (“Tout n’est qu’images fugitives”) e un valzer del venezuelano Reynaldo Hahn (“La dernière valse”). Ma torniamo al suol natìo. Dal nord del veneto Vivaldi migriamo nel profondo sud a scomodare il Cigno di Catania e la sua “Ricordanza”. Qui Bellini sperimenta per la prima volta quello che sarà il noto tema musicale ripreso ne I Puritani con la pazzia di Elvira, ruolo che la Agresta ha debuttato con successo all’Opéra Bastille di Parigi lo scorso dicembre. Con quest’aria il soprano fa immediatamente incetta di una prima serie consistente di “brava”, e non a torto. La linea di canto è di estrema puliza, le incursioni all’acuto sicure e alcuni legati al limite del sussurrato ma senza perdere mai di smalto: una bella lezione di canto e non c’è altro da aggiungere. Dalla struggente malinconia belliniana si passa alla tenera semplicità di due canzoni di Giacomo Puccini. L’ultimo verso di “Terra e mare” – seconda nell’ordine – è cantato con una delicatezza vocale e gestuale tale da valere da solo le due intere esecuzioni: un’isolata sbavatura avvertita nella precedente “Sole e amore” diventa immediatamente un ricordo lontano e insignificante.
A seguito dell’intervallo – con annesso cambio d’abito che vira dal viola precedente ad un brillante verdazzurro – la totale italianità dei compositori diventa denominatore comune fino a fine concerto, bis compresi. Si parte dal brano più celebre del meno noto Pier Adolfo Tirindelli: “O primavera” (1911). Un appunto al pianista: sarà la concitazione che apre musicalmente il brano, ma pare che Drake inizi ad eccedere di volume e a farsi avaro di colori. Anche i tempi scelti cominciano a perdere quella sincronia millimetrica di alcuni dei brani precedenti: non sono pochi i casi in cui Drake accelera o rallenta inaspettatamente, svincolato a tratti dal soprano. Si sperava si trattasse di pagine isolate, ma la sua serata va purtroppo in discesa. Primi incidenti pianistici a parte, il recital di Maria Agresta prosegue felicemente in un’incursione nelle sue amate terre natali, con due romanze del campano Luigi Denza: “Torna!”, cantata con una suggestiva e convincente mescolanza di speranza e desolazione, e il melanconico “Si tu m’amais” ampiamente apprezzato dal pubblico, probabilmente per la corposa sonorità dei centri abbinata a una serie di limpide e pregevoli  puntature. Restando in un solare clima napoletano, si procede con “’A Vucchella”, il gioco letterario di Gabriele D’Annunzio musicato da Tosti, autore delle prossime quattro arie. L’esecuzione di questa ironica canzonetta è come sempre curatissima e precisa, con un tocco aggiunto di giocosa spontaneità. A sorpresa, non prevista nel programma, segue la celebre “Non t’amo più”. La vibrante esclamazione “il mio sogno d’amor non sei più tu” brilla per volume e trasporto, che uniti all’acuto finale tenuto incredibilmente a lungo fanno nuovamente breccia nel cuore del pubblico, che ormai con gli applausi non si risparmia più. “Chanson de Barberine” e “Chanson de l’adieu” concludono questo piccolo ciclo di Tosti, con una pulitissima chiusura della frase “Partir, c’est mourir un peu” deliziosamente accompagnata dalla suoneria di un telefono acceso in platea. Il programma ufficiale si chiude con “Il Bacio” di Arditi. Se l’aria è sicuramente più adatta ad un soprano di coloratura, la Agresta – ormai abituata in teatro ad osare con un’ampia forbice di ruoli e vocalità – riesce comunque a destreggiarsi dignitosamente, forte della sua solida tecnica: buona la gestione degli acuti (solo quello finale meno a fuoco, per comprensibile stanchezza), elegante il fraseggio e rifinita con cura la cadenza. Ma è con i bis che torna nel suo repertorio d’elezione. Prima di una gradita replica de di “A’Vucchella” e di un tripudio di bellezza timbrica in “Sì, mi chiamano Mimì” da Bohème, Maria Agresta vuole dare l’ultimo saluto alla Signora Olivero nel migliore dei modi possibili: con il canto, con un’aria a lei dedicata. E così intona “Tu che di gel sei cinta”: la fine di un personaggio così dolce e meraviglioso con il suo messaggio d’amore; la fine di Giacomo Puccini – così caro alla Agresta come anche alla Olivero – che come ultima pagina di partitura ci lascia il corteo funebre che segue la morte di Liù; la fine di quella Signora che ha segnato per sempre la storia dell’opera. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala