Richard Strauss (1864 – 1949) – 18: “Daphne” (1938)

Richard Strauss (Monaco di Baviera 1864 – Garmisch-Partenkirchen 1949)
Daphne op. 82, Tragedia bucolica in un atto su libretto di Joseph Gregor
Concepita nello stesso periodo del Friedenstag, insieme al quale avrebbe dovuto essere rappresentata essendo un atto unico, Daphne ebbe una gestazione più travagliata dal momento che Strauss , abituato agli esiti poetici di Hofmanmsthal e di Zweig, non si accontentò facilmente di quanto scritto dal suo nuovo collaboratore Joseph Gregor. Questi, nel mese di luglio del 1935, aveva proposto a Strauss una tragedia in un atto con danze e cori – magnifico ambiente greco, la cui prima idea gli era venuta il 21 giugno dello stesso anno, quando, secondo la mitologia classica, il sole, portato dal carro di Apollo, compie il percorso più lungo in cielo. Tra le fonti d’ispirazione, invece, lo stesso Gregor citò un dipinto del pittore romantico francese Théodore Chassériau:
“Mi colpì la bellezza della figura di Daphne: severa, fredda e assente, e ancora dolcissimamente infantile nei suoi caratteri di fanciulla. Il corpo nudo è ancora umano, ancora femminile in tutta la sua pienezza, ma il rivestimento che le copre le gambe pare già di un altro materiale, un’altra essenza. È il momento del mettere radici, del passare ad un altro mondo, visto con la ricchezza interiore del romanticismo, così come, in Bernini, con il consapevole splendore del barocco”. Imbevuto di cultura classica, Gregor diede vita ad un abbozzo nel quale la bellezza quasi neoclassica della poesia lasciava poco spazio ad una vera azione drammatica che appariva sin dall’inizio, sia a Zweig che a Strauss, priva di qualunque attrattiva per il pubblico. Zweig aveva fornito in modo piuttosto delicato alcuni suggerimenti Gregor che ne aveva fatto richiesta : “una scena solistica per Dafne, e ciò non solo per opportunità esteriori – affinché la cantante possa sviluppare la propria parte in modo soddisfacente – ma anche per ragioni interiori. Se Dafne alla fine viene tramutata in albero da Zeus, ciò non dev’essere un miracolo arbitrario e casuale: è più bello e logico qualora Zeus faccia avverare un inconscio desiderio di lei”.
Ben più duro fu invece il commento di Strauss il quale in una lettera del 25 settembre 1935 scrisse al suo collaboratore:“Il tutto, così come è sviluppato ora […] in un gergo omerico non sempre felicemente imitato, non attirerà in teatro neppure cento persone”.
Un po’ offeso, Gregor si mise, tuttavia, a lavoro e riscrisse, per metà gennaio del 1936, interamente il libretto del quale il compositore non fu del tutto soddisfatto, nonostante avesse iniziato a mettere sulla carta qualche schizzo musicale. In una lettera del 4 marzo 1836 si legge, infatti: “Vede: dal punto di vista psicologico tutto deve diventare molto più sottile e intrecciato. Al personaggio di Dafne bisogna dare il chiaroscuro di cui ha bisogno, per rendere evidenti il suo legame fatale con la natura e il suo rifiuto dell’uomo e del dio che le viene incontro in forma umana e con sentimenti umani. Lei s’inebria sempre troppo dei Suoi stessi versi, di cui forse un quinto del pubblico dell’opera capirà qualcosa […]. Dai miei tagli potrà vedere ciò che già oggi, ad un primo esame non troppo accurato, mi è parso inutile: ma sono convinto che molto ancora si può tagliare, e soprattutto ‘addensare’”. Accolte le richieste di Strauss, Gregor gli consegnò un libretto che finalmente soddisfece quasi del tutto il compositore il quale, in preda a un momento di felice ispirazione, compose in poco tempo la maggior parte dell’opera eccezion fatta per la scena finale, la cui struttura drammaturgica originaria, giudicata statica e con una cerimonia a cui partecipava il coro, gli appariva di scarso interesse. Fu lo stesso Strauss, come già fatto in precedenza, a imporre a Gregor l’ulteriore modifica, pur cercando di mitigare la sua proverbiale mancanza di tatto con un retorico quanto inutile le piace?:
“Domenica Clemens Krauss venne qui da me e ci siam trovati d’accordo sul fatto che dopo il commiato d’Apollo nessun essere umano, tranne Dafne, può più apparire sulla scena: niente Peneo, niente solisti, niente coro: insomma, niente oratorio: sarebbe un indebolimento. […] Quando Apollo è uscito ella vuole seguirlo, ma dopo pochi passi rimane fissata al suolo, e lentamente – alla luce lunare, ma perfettamente visibile – si compie in lei il prodigio della metamorfosi; ma con la sola orchestra! Al massimo, durante la trasformazione, Dafne può cantare ancora qualche parola, che diviene balbettìo e melodia senza parola! Forse neppure questo! In ogni caso, proprio alla fine: quando l’albero è compiuto, ella canta senza parole – solo suono di natura, otto battute ancora – il motivo dell’alloro! Le piace?”
Il 24 dicembre 1937 la partitura fu completata da Strauss durante un suo soggiorno a Taormina e l’opera vide le scene a Dresda il 15 ottobre 1938 sotto la direzione di Karl Böhm a cui l’opera era stata dedicata e alla cui stesura aveva, in un certo qual modo, assistito come lo stesso direttore d’orchestra ebbe modo di ricordare: “Era un pomeriggio a Garmisch: distesi sulle sdraio aspettavamo il testo dell’opera Daphne […] Strauss lo scorse e me lo passò. Avvenne pressoché l’inconcepibile, qualcosa che mi permise di assistere direttamente al processo creativo. La pagina recava ai margini (lo ripeto: dopo la prima, veloce lettura) già indicazioni di ritmo, spesso di tonalità, e anche – dove si trattava di più personaggi – indicazioni precise sulla forma musicale. Per quest’atto già pienamente creativo Strauss non aveva impiegato più tempo di quello a me necessario per scorrere il testo”. L’opera, dopo la prima esecuzione nel cui cast, accanto alla protagonista Margarete Teschemacher (Daphne), figuravano Sven Nilsson (Peneios), Helene Jung (Gaea), Martin Kremer (Leukippos), Torsten Ralf (Apollo), in Italia ebbe migliore fortuna di Fridenstag. Dopo la prima rappresentazione alla Scala il 17 aprile 1942, nella versione ritmica di Rinaldo Küfferle, sotto la direzione di Gino Marinuzzi e con Gina Cigna nel ruolo della protagonista, Daphne è stata ripresa negli studi RAI per ben due volte (1950 e 1956) in forma di concerto per tornare alla Scala nel 1988 sotto la direzione di Wolfgang Sawallisch e con Catherine Malfitano nel ruolo della protagonista. Di recente l’opera è stata ripresa alla Fenice il 9 giugno 2005 sotto la direzione di Stefan Anton Reck e con June Anderson nel ruolo della protagonista.

L’opera
Un breve preludio di straordinaria forza icastica introduce l’opera disegnandone l’ambientazione grazie anche alla scelta strumentale di utilizzare nella sezione iniziale un ottetto di fiati. Questa sezione, di cui protagonista è l’oboe, si distingue, inoltre, per una straordinaria ricchezza tematica che allude sia al carattere pastorale della vicenda soprattutto nei due temi affidati all’oboe  sia all’amore di Dafne per la natura Le due parti del preludio sono divise dall’intervento del corno delle Alpi, uno strumento molto grande dalla costruzione particolare e dal volume di suono talmente notevole da essere utilizzato dai pastori per segnalazioni a lunga distanza, ma capace di emettere soltanto i suoni armonici. La seconda parte del preludio disegna un temporale estivo con onomatopeici interventi dei timpani e dei corni su rapidi disegni cromatici degli archi che rappresentano le folate di vento e gli scrosci di pioggia. Protagonisti della scena iniziale, aperta ancora una volta da un richiamo del corno delle Alpi, sono i pastori che discutono della prossima festa di Dioniso mentre si sentono gli echi del temporale che va via via placandosi. Questo quadro iniziale si chiude con un inno alla luce intonato dai pastori (Leb wohl, du Tag /O giorno, addio) il cui tema è una rielaborazione di quello introdotto dal corno delle Alpi, mentre l’orchestra, grazie alle celestiali sonorità dei violini, esegue una rielaborazione del secondo tema intonato dall’oboe nel preludio. Già in questo quadro iniziale Strauss, attraverso il principio musicale della variazione del materiale tematico, sembra voglia alludere simbolicamente al mito della metamorfosi di Dafne che entra in scena subito dopo intonando un lungo inno alla luce del giorno (O bleib, geliebter Tag / Riman, o caro dì) e all’albero, suo rifugio nelle ore notturne. Dal punto di vista musicale questo brano è diviso in due parti delle quali la prima, in un solare sol maggiore, è densa di simbolici richiami da parte degli archi, dei clarinetti e dei flauti non solo alle fonti d’acqua e alle farfalle evocate nel testo, ma alla natura in generale che prende vigore grazie alla luce di Apollo. Nella seconda parte dell’assolo Dafne (O wie gerne blieb ich bei dir, mein lieber Baum / Come ben io sto presso a te, albero mio) si abbandona ad uno slancio panico di intenso lirismo immedesimandosi nella natura rappresentata da un’orchestrazione estremamente raffinata che anticipa il finale dell’opera nella quale la protagonista subirà la metamorfosi.

Questo momento di lirismo è interrotto bruscamente dall’ingresso in scena di Leucippo caratterizzato da una scrittura musicale di carattere prosastico e dialogico in netto contrasto con il poetico lirismo di ascendenza decadente che aveva caratterizzato l’assolo di Dafne. L’uomo, innamorato sin da bambino di Dafne, le dichiara ancora una volta il suo amore dimostrandosi geloso di quell’albero a cui la ninfa rivolge le sue preghiere. Nel frattempo Leucippo le ricorda i giochi infantili, che li vedevano protagonisti, musicalmente evocati dal flauto, strumento utilizzato allora per tali giochi. Alla fine la sua perorazione si tramuta quasi in un rimprovero che induce la ninfa a giustificarsi, affermando di non sdegnare il suono del flauto ma gli approcci amorosi di Leucippo, mentre in orchestra ritorna l’ambientazione bucolica dell’inizio grazie ad un uso onomatopeico degli strumenti e alla ripresa di temi del preludio. Il poetico e accorato discorso di Daphne, tuttavia, non sortisce alcun effetto sull’animo di Leucippo il quale non desiste dalle sue profferte amorose; il duetto si produce, quindi, in un climax il cui punto culminante avviene quando l’uomo rompe il flauto uscendo rapidamente di scena dopo aver pronunciato le drammatiche parole Ich bleib allein (Io resto solo). Un mutamento di atmosfera è prodotto dall’ingresso in scena di Gea, madre di Dafne, che, in una scrittura solenne e ieratica, caratterizzata anche da un’armonia piuttosto statica roteante attorno al la bemolle maggiore, invita la figlia alla festa in onore di Dioniso; la ninfa rispondee che avrebbe partecipato alla festa con il corpo e non con lo spirito che sarebbe rimasto tra gli alberi e i fiori, evocati dall’oboe che riprende il tema iniziale del preludio. Le parole di Gea, secondo la quale esiste per le ragazze un momento in cui devono aprirsi all’amore, la cui misteriosa forza sembra insinuarsi grazie al tema dei violoncelli (Es. 3), non riescono a fare breccia nell’animo della figlia la cui voce si mantiene in un registro acuto a marcarne la purezza verginale. Alla conclusione del duetto i due personaggi lasciano il posto a due ancelle che danno vita ad un grazioso duetto nel quale esse chiacchierano con una certa civetteria dei monili e degli abiti che Dafne disdegna. Alla loro compagnia si unisce quella di Leucippo, triste e arrabbiato per il rifiuto di Dafne; le due ragazze con ironica leggerezza e soprattutto con una scrittura diatonica cercano di persuaderlo a travestirsi da donna. L’uomo, alla fine, accetta irretito anche lui dal tema della malia esposto in precedenza dagli archi allorché le fanciulle rivendicavano a sé il diritto di accudire Daphne. Annunciato dai corni e dai violoncelli, l’ingresso di Peneo, padre di Dafne, produce un nuovo cambiamento di atmosfera che si fa improvvisamente solenne quasi da tragedia greca; come nel genere classico l’uomo, infatti, che dialoga con il coro, qui costituito dai pastori, annuncia sempre in tono solenne il prossimo arrivo di una divinità. Si tratta di Apollo che si materializza grazie al suo Leitmotiv già esposto da Strauss nella seconda parte del lungo assolo di Dafne. Peneo aggiunge ancora che al banchetto si uniranno gli dei dell’Olimpo, mentre l’orchestra s’inspessisce progressivamente insinuando al suo interno un tema che sarà utilizzato per rappresentare l’orgia dionisiaca. Nel suo quasi delirante vaticinio Peneo vede gli dei scendere sulla terra in un crescendo di trepidazione che spaventa il coro di pastori i quali sentono un gregge che si sta avvicinando mentre la natura stessa, con la ripresa di elementi della seconda parte del preludio, sembra partecipare al clima d’ansia minacciando, con lampi in lontananza, un temporale. Accompagnato dal suo tema qui affidato ai primi violini, entra in scena Apollo che, nelle vesti di un umile pastore, afferma che stava facendo ritorno con il suo gregge quando un toro, eccitato dall’odore della carne arrostita e dal vino, aveva dato l’assalto alle mucche. La sua menzogna è smascherata dall’orchestra che intona il tema di Dafne, il vero scopo per cui il dio aveva deciso di scendere tra gli uomini. Apollo, dopo aver ingannato i Pastori e Gea, rimasto solo, rivela a sé e al pubblico la vera ragione della sua discesa tra gli uomini, la passione per Dafne, la cui apparizione di Dafne ridà magicamente la sua dignità divina ad Apollo che esprime la sua passione è espressa con il tema del desiderio (es. 4) che si sovrappone a quello di Dafne quasi a creare una sintesi tra il desiderio e il suo oggetto. Apollo, da parte sua, cerca di sedurre la ninfa chiamandola sorella e lasciando così un segno nell’animo di Dafne che incomincia a tergere il corpo del dio, mentre l’orchestra, insieme al tema iniziale dell’oboe, ripropone un altro tema del preludio che rappresenta l’amore della donna per la luce di cui Apollo è la divinità. In una scrittura di intenso lirismo il dio fa scivolare il mantello che lo ricopriva mostrando la sua divinità e lasciando completamente senza parole Dafne. Qui è introdotto un lungo duetto tra Apollo e Dafne, nel quale i due personaggi appaiono soggiogati l’uno dall’altro, mentre in orchestra si sentono alcuni dei Leitmotiv principali che rappresentano una reciproca attrazione erotica. Apollo rivela a Dafne di essersi innamorato di lei, mentre guidava il carro del sole, mentre la donna si dichiara affascinata dal dio; la musica intreccia i Leitmotiv in modo tale che le parole di Dafne sono accompagnate dal tema del desiderio di Apollo mentre quelle del dio sono, a loro volta, accompagnate dai temi che hanno caratterizzato Dafne. Il duetto, nel quale Apollo afferma di voler portare sul carro del sole Dafne che pensa sempre alle sue fonti in una scrittura di incantato lirismo, trova il suo punto culminante nel momento in cui il dio bacia la ninfa. Qui l’orchestra si produce in un’inquietante concatenazione accordale difficile da classificare secondo i principi dell’armonia tradizionale. Le vere intenzioni di Apollo poco spirituali ma estremamente materiali, vengono rivelate da un coro di pastori dietro le quinte che intona una preghiera a Dioniso per propiziarselo per l’imminente baccanale.
Nel frattempo un brevissimo interludio orchestrale di appena 4 battute introduce l’ingresso di Peneo che dà il via al Baccanale il cui tema diventa assoluto protagonista della scena fino ad esplodere nella danza dei pastori, marcata in partitura con l’andamento Allegro furioso e caratterizzata da una scrittura quasi “barbarica” in senso bartokiano per il forte carattere percussivo. È una scrittura volutamente volgare che allude alla scena del baccanale nella quale i pastori sembrano quasi degli animali sfrenati pronti a godere delle fanciulle, il cui ingresso, in corteo, porta a un repentino cambio di atmosfera. Il tema del baccanale ritorna nella parte dei legni, ma la scrittura orchestrale perde quella sfrenata vitalità della danza dei pastori per assumere contorni più eleganti e galanti. Ad attendere le fanciulle è una forma di ratto rituale espresso, nella musica, dal carattere percussivo che aveva caratterizzato la danza dei pastori, mentre il tema di Leucippo si sente in orchestra quasi a smascherare il personaggio travestito da fanciulla. Gea, allora, prende la parola (Trinke, du Tochter! / Bevi, tu figlia!) per invitare Dafne a bere il vino affinché, non più in sé, possa cedere alle profferte amorose del suo spasimante. Spinto dalle fanciulle, Leucippo riesce a trascinare nelle danze Dafne non più in sé a causa del vino. Il baccanale prosegue e i pastori, accompagnati da una lenta danza di carattere cerimoniale e nel contempo sensuale, danno vita ad un rituale stupro di massa delle fanciulle che viene interrotto da Apollo (Furchtbare Schmach dem Gotte! / Orrido oltraggio a Dio!) il quale svela l’inganno di Leucippo affermando che l’intero rito è un inganno. I pastori, in un primo momento, si adirono con Apollo chiedendogli un segno della sua divinità e il dio, non prima di aver smascherato Leucippo che stava contaminando con la sua maschera la festa, lancia una freccia in aria suscitando un temporale rappresentato con gli stessi elementi musicali già utilizzati nel preludio dell’opera. Alla fine, su invito di Peneo, i pastori e le fanciulle si ritirano lasciando sulla scena Apollo, Leucippo e Dafne contesa dai due personaggi maschili. I tre danno vita ad un terzetto nel quale Leucippo accusa Apollo di essersi anche lui avvalso di un travestimento quello del pastore, mentre Dafne delusa si lamenta del fatto che nessuno ha comprese la sua vera passione per la natura. Alla fine, Apollo, in uno dei momenti di più intenso lirismo dell’opera, rivela la sua identità (Jeden heilingen Morgen / Ogni santa mattina) affermando di essere colui che ogni giorno guida il carro del Sole, affascinando così Dafne che, tuttavia, non comprende in modo profondo la vera natura del dio che gli sta davanti. Leucippo, invece, accusa Apollo di essere un mentitore suscitando l’ira del dio che lo trafigge con una freccia rappresentata da un glissando dell’arpa, mentre la natura esplode in lampi e tuoni annientando l’uomo e i suoi temi fagocitati da un fragoroso rullare dei timpani. Alla fine l’uomo dichiara che causa della sua morte è stata l’amore per Dafne la quale una lunga trenodia in suo onore (O mein Leukippos / O mio Leucippo) di commosso lirismo e dalla delicata scrittura cameristica; in questa trenodia la donna, oltre ad ammettere le sue responsabilità, promette di restare per sempre accanto al cadavere dell’uomo fino a quando gli dei non la chiameranno a sé. La musica, che anticipa la scena della metamorfosi di Dafne in alloro, suscita una forma di estasi in Apollo che si produce in un assolo (Was erblicke ich? Cosa vedo mai?) nel quale, dopo aver riconosciuto la sua colpa e aver preso coscienza della sofferenza provocata, decide di compiere un gesto d’amore nei confronti di Dafne concedendole di trasformarsi in alloro e di diventare così parte di quella natura da lei tanto amata. Particolarmente importante è l’ultima parte dell’assolo (Priesterlich diene, verwandelte Daphne / Servi, mutata in albero Dafne), nella quale il dio, in un tono ieratico, consacra la pianta d’alloro come sua affermando che le sue foglie avrebbero dovuto cingere il capo degli uomini che si sarebbero distinti nella vita.
La scomparsa di Apollo e un violento unisono orchestrale, al quale segue uno svuotamento della compagine strumentale, introducono la scena finale in cui avviene la metamorfosi di Dafne suddivisa in due sezioni, delle quali la prima rappresenta appunto la metamorfosi, mentre la seconda allude all’apparizione dell’alloro. Per la rappresentazione della metamorfosi Strauss sceglie la forma della passacaglia che fa della variazione il principio compositivo fondante; il tema prescelto, che viene ripreso in canone dagli altri strumenti in un ispessimento della compagine orchestrale, è quello affidato a Dafne nel duetto con Apollo, quando la ninfa intuisce con una certa paura chi ha di fronte. Nella seconda parte della metamorfosi che vede l’apparizione dell’albero d’alloro Strauss dà vita ad una splendida pagina strumentale, un breve poema sinfonico, caratterizzato da una raffinatissima scrittura orchestrale con gli archi divisi e da un’immobilità armonica che allude alla metamorfosi compiuta, mentre Dafne, ormai non più donna, ma pianta, può solo imitare i suoni della natura attraverso dei vocalizzi che riprendono il tema iniziale dell’oboe. L’opera si conclude su un incantevole e incantato accordo liberatorio di fa diesis maggiore, tonalità sempre associata da Strauss in questa partitura alla dimensione panica della natura.