Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia: Festival Prokof’ev IV

Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2014-2015
Orchestra, Coro e Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Valery Gergiev
Violino Leonidas Kavakos
Voce recitante Tommaso Ragno
Contralto Yulia Matochkina
Baritono Roman Burdenko
Maestro del Coro Ciro Visco
Sergej Prokof’ev: Ouverture Russa op. 72; Concerto per violino e orchestra n. 1 in re maggiore op. 19; “Ivan il Terribile” op. 116, Oratorio per voce recitante, soli, coro, coro di voci bianche e orchestra dalle musiche del film di Eizenštein
Roma, 13 dicembre 2014

È sempre lodevole proporre un ciclo completo dedicato a un certo autore; e lo è ancor di più se fatto con tutti i crismi del caso, come d’uso all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il privilegio è toccato a Sergej Prokof’ev: due orchestre (quella del teatro Mariinskij e, ovviamente, quella dell’Accademia) e alcuni solisti, sotto l’esperta e geniale guida di Valery Gergiev, profondo conoscitore del compositore, regalano al pubblico romano il ciclo completo delle sette sinfonie, i due concerti per violino e orchestra, l’Ouverture russa op. 72 e Ivan il Terribile op. 116, per un totale di sei giornate di programmazione.
Qui si recensisce il conclusivo concerto, il quarto. Nei primi tre (il ciclo integrale delle sinfonie e il Concerto n. 2 in sol minore) Gergiev si è avvalso dei complessi del Teatro Mariinskij. Per il quarto e conclusivo concerto, l’eccentrico russo − che diresse una volta con uno stecchino! − guida gli Accademici nel programma che suggella il festival. Prima di iniziare, Bruno Cagli sale sul palco e ringrazia Gergiev − omaggiandolo con un mazzo di fiori − per il venticinquesimo anno di presenze all’Accademia con oltre settanta concerti.
Il primo pezzo in programma (al debutto nei concerti dell’Accademia) è l’Ouverture russa op. 72, monumento di quel mai intimo né convinto adeguamento alle direttive sovietiche in materia artistica, ossia allo ždanovismo imperante durante gli anni di Stalin. Pezzo di rara freschezza sonora e compositiva, viene adeguatamente risaltato, reso smagliante dall’eccezionale orchestra e dalla sapiente direzione di Gergiev, che sceglie di far risaltare ogni momento, di cesellare ogni ritmo o glissato della trama orchestrale: la poliritmia ne è esce galvanizzata e le increspature oscure, anticonformiste, nascoste sotto un’apparente patina brillante e convenzionale, trovano vitalità, in questa pagina che appare tersa solo a uno sguardo superficiale.
Indi abbiamo l’esecuzione del Concerto per violino e orchestra n. 1 in re maggiore op. 19; la parte solista è affidata al superbo stradivari “Abergavenny” del greco Leonidas Kavakos, virtuoso assoluto dell’archetto ben noto al pubblico romano dell’Auditorium. Capace di ogni prodezza tecnica, in questo concerto ne fa vedere di belle, anche perché il pezzo è una sequela di arditezze per violino, con alcuni momenti di afflato lirico: salti, gruppetti improvvisi, glissati, ostinati, accenti spesso cangianti, sono solo alcune delle difficoltà che Kavakos ha dovuto superare, facendolo con nonchalance. Il I movimento (Andantino. Andante assai) alterna momenti trasognati a vibrazioni dionisiache, con impressionanti esiti timbrici; il II (Scherzo. Vivacissimo) è una perla di sperimentalismo con ascendenze stravinskiane, tutto teso in ostinate figurazioni; il III (Moderato. Allegro moderato), anch’esso ricco di virtuosismo, è sorretto da ambigui vapori orchestrali. In generale il concerto è tutto imperniato sul perenne canto del violino, a tratti ardito, circense, zigano, che si declina volentieri in una nevrosi continua, ossessiva, che non tace mai. Difficile, quindi, mantenere sempre il controllo dello strumento: l’intonazione, la corposità del suono, il volume e la precisione, sono altrettante caratteristiche di Kavakos, la cui performance merita giustamente una plaudente accoglienza.
Il sodalizio fra Eizenštein e Prokof’ev fu ricco e prolifico: il regista ebbe grande stima del compositore: «Prokof’ev ha la sorprendente capacità di tradurre in musica l’immagine plastica. Ma non pensate che lo faccia in modo descrittivo. Prokof’ev parte da una percezione molto complessa dell’immagine visiva. Per lui anche le diverse sfumature del colore giocano un ruolo nel passaggio dell’immagine musicale». Le musiche scritte per le due pellicole della trilogia da Eizenštein dedicata alla figura dello zar Ivan sono state raccolte in suite dall’assistente di Prokof’ev, Stasevič, nel 1962, quando egli creò una versione comprensiva di voce narrante, solisti e coro: il tutto non è esente da certa farraginosità, ma ha un suo perché. Tommaso Ragno, come voce narrante, è abbastanza anonimo, e perde non poco di verve in più punti: la sua voce scura, però, ben si adatta al personaggio di Ivan. Yulia Matochkina ha una bella voce ricca di armonici, sebbene poco potente: molto sentite le sue interpretazioni di “Mare-Oceano” (n. 3) e soprattutto della “Canzone del castoro” (n. 19). Roman Burdenko non possiede una voce potente, né particolarmente bella: ma ha l’allure adatto per “La canzone di Fëdor con gli Opričniki” (n. 23), dal carattere maschio e rissoso. Eccelsa la performance del coro, vero protagonista della partitura: momenti indimenticabili sono stati il naturalismo intimistico di “Canto celebrativo” (n. 11), la ballata de “Il cigno” (n. 10 e 12), l’epico “Giuramento degli Opričniki” (n. 22) e il finale. Etereo il coro di voci bianche, quando evoca il dolore dello zar per la morte della zarina Anastasia (n. 20). Gergiev riesce a non annoiare mai in più di un’ora di musica; la sua direzione è sempre possente, ieratica, scultorea, ovvero, all’uopo, limpida e chiara. Non risulta mai involuto, né oscuro. Tutto scorre liscio, concertato fin nei minimi particolari. Caratteristica peculiare della sua direzione è proprio l’espressione massima dello spirito della partitura, da vero russo − e questo quid in più nessun direttore non nativo avrebbe potuto darlo. Una pioggia di applausi suggella l’ottimo concerto.