Teatro Comunale di Bologna: “Lady Macbeth del distretto di Mcensk”

Bologna, Teatro Comunale – Stagione d’opera 2014
“LADI MAKBET MCENSKOGO UEZDA” (Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk)
Opera in quattro atti e nove scene
Libretto di Aleksandr Prejs e Dmitrij Šostakovič dal racconto di Nikolaj Leskov
Musica di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič
Boris Timofeevič Izmailov/Una sentinella ALEKSEJ TICHOMIROV
Zinovij Borisovič Izmailov DMITRIJ PONOMAREV
Katerina L’vovna Izmailova ELENA MICHAILENKO
Sergej ILIJA HOUZIČ
Aksin’ja/Una forzata MAJA BARKOVSKAJA
Sonetka LARISA KOSTJUK
Un poliziotto/Un sergente ALEKSANDR MIMINOŠVILI
Un balordo MICHAIL SERYŠEV
Il pope/Un vecchio forzato STANISLAV ŠVETS
Il lavorante del mulino VALERI KIRJANOV
Un guardiano/Un venditore ANDREJ OREKHOV
Un maestro/Secondo bracciante ANDREJ PALAMARCHUK
Un ospite ubriaco/Un cocchiere/Primo bracciante ARTEM DAVJDOV
Terzo bracciante ALEKSEJ VERTOGRADOV
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Vladimir Ponkin
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Dmitrij Bertman
Scene Igor’ Nežnij
Costumi Tat’jana Tulub’eva
Bologna, 9 dicembre 2014

Un po’ di aria fresca da Mosca. Forse non tutti sanno che dal 1990, nella capitale russa, è attiva una compagnia d’opera che va sotto il nome di Teatro Helikon: un gruppo di lavoro agguerrito, capace di sfornare allestimenti che spesso e volentieri vincono premi e girano anche all’estero. È il caso di questa “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” andata in scena al Teatro Comunale di Bologna, ultimo titolo della stagione 2014. Che il secondo lavoro per la scena di Šostakovič sia un classico del teatro musicale del Novecento non ci piove, meno scontato che si riesca ad allestirlo in maniera convincente. Come invece stavolta è successo.
La regia di Dmitrij Bertman cala il drammaccio di Katerina Izmailova all’interno di una cornice plumbea: la scena (di Igor’ Nežnij) è un groviglio di lucidi tubi coronati da sinistre ventole, gangli industriali ben modellati da luci cangianti, habitat perfetto per una borghesia arrogante in giacca e cravatta. Pochi altri elementi modulano la scena: la poltrona rossa ad uso e consumo della protagonista, la gabbia in cui alla sera la rinchiude il suocero Boris. E poi sedie che si fanno sbarre, a contenere i personaggi ridotti a larve nel conclusivo atto siberiano. Non manca il finale poetico e irrealistico, in deroga al libretto: Katerina non spinge Sonetka giù da un ponte, le due si fronteggiano e volteggiano in cerchio, stesso costume (non è forse Sonetka la prossima Katerina, nel piano di Sergej?), stessa lunghissima sciarpa con cui si strangolano vicendevolmente.
Quando lo spettacolo preme sul pedale dell’autoironia, le immagini si moltiplicano e il divertimento è assicurato. Gli amplessi fra Katerina e Sergej si consumano con incedere meccanico (come non pensare alle performance ad orologeria di Donald Sutherland nel “Casanova” di Fellini?), lo stupro della serva Aksin’ja si fa pura coreografia, svolta con bell’arte da omaccioni a petto nudo e pantaloni in pelle nera. Alla fine del secondo atto il marito Zinovij rimane stecchito sulla poltrona, con le gambette all’aria, grottesco insettone kafkiano. Lo scoprirà nel terzo atto un balordo con tanto di microfono che sembra uscito dal “Rocky Horror Picture Show”. Ogni elemento del cast (proveniente in massa dall’Helikon) padroneggia il proprio ruolo alla perfezione – e c’è da stupirsene positivamente, vista la difficoltà della scrittura vocale. Elena Michailenko è una Katerina di timbro pieno in tutta la tessitura, intensa nel grande arioso dell’ultimo atto e negli altri momenti cantabili della partitura. Le fa da spalla il Sergej di Ilija Houzič, tenore di begli acuti e accento appropriato. Acuti facili e timbro piacevole li ha anche il basso Aleksej Tichomirov, che interpreta un Boris severo, mai sopra le righe. Larisa Kostjuk è una Sonetka dalle note gravi sonorissime, quasi baritonali; Dmitrij Ponomarev regala a Zinovij la sua voce puntuta, efficace per il personaggio. Ottimi anche gli altri comprimari, fondamentali in un’opera come questa: scatenati sulla scena e vocalmente brillanti Maja Barkovskaja e Michail Seryšev, nei panni di Aksin’ja e del balordo, impeccabili Stanislav Švets e Aleksandr Miminošvili, rispettivamente il pope e il poliziotto. In buca c’è Vladimir Ponkin, direttore russo di gesto misurato e mestiere invidiabile, che opta (come ormai è consuetudine) per la versione originaria dell’opera, quella del 1934 tanto vituperata da un famoso articolo della “Pravda”, con i suoi ostentati e lascivi glissando, le sue sonorità stridule, gli interludi sfrenati, i cantabili densi. L’Orchestra del Comunale suona precisa e scorrevole, e una lode particolare se la meritano i legni, che ben fronteggiano i tanti assoli prescritti dalla partitura. Ma in vero stato di grazia è il Coro del teatro, diretto da Andrea Faidutti. Non è solo questione del suono, bello e compatto: per una volta assistiamo a coristi che sulla scena si divertono nel vestire i panni più disparati. La loro straordinaria pantomima nel quadro del posto di polizia (con tanto di cappelloni da guardie staliniane) vale tutto lo spettacolo e ci rassicura una volta per tutte: anche il Novecento storico si può godere, come esecutori e come spettatori.