Bernd Alois Zimmermann: “Die Soldaten” al Teatro alla Scala

Regia di Alvis Hermanis

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2014-2015
“DIE SOLDATEN”
Opera in quattro atti su libretto di Bernd Alois Zimmermann da Jacob Michael Reinhold Lenz
Musica di Bernd Alois Zimmermann
Wesener ALFRED MUFF
Marie LAURA AIKIN
Charlotte OKKA VON DER DAMERAU
Weseners alte Mutter CORNELIA KALLISCH
Stolzius THOMAS E. BAUER
Stolzius’ Mutter RENÉE MORLOC
Die Gräfin de la Roche GABRIELA BEŇAČKOVÁ
Der junge Graf MATTHIAS KLINK
Desportes DANIEL BRENNA
Pirzel WOLFGANG ABLINGER-SPERRHACKE
Eisenhardt BOAZ DANIEL
Mary MORGAN MOODY
Haudy MATJAŽ ROBAVS
Obrist JOHANNES STERMANN
Drei junge Offiziere PAUL SCHWEINESTER, ANDREAS FRUEH, CLEMENS KERSCHBAUMER
Andalusierin (danzatrice) DONATELLA SGOBBA
Der Bediente der Gräfin de la Roche WERNER FRIEDL
Drei Faehnriche / Drei Hauptleute STEPHAN SCHÄFER, VOLKER WAHL, MICHAEL SCHEFTS
Madame Roux ANNA-EVA KÖCK
Der junge Faehnrich / Ein junger Jaeger RUPERT GRÖSSINGER
Der betrunkene Offizier ACO BISCEVIC
Artistin KATHARINA DRÖSCHER
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Ingo Metzmacher
Ensemble vocale “Il canto di Orfeo”
Direttori Ruben Jais e Gianluca Capuano
Regia Alvis Hermanis
Co-regista Gudrun Hartmann
Scene Alvis Hermanis e Uta Gruber-Ballehr
Costumi Eva Dessecker
Luci Gleb Filshtinsky
Video designer Sergej Rylko
Nuova produzione in coproduzione con il Festival di Salisburgo
Milano, 20 gennaio 2015

Non si è ripetuto quanto avvenne al Wozzeck di Alban Berg diretto da Dimitri Mitropoulos nel giugno 1952 secondo l’aneddoto più volte raccontato da Alberto Arbasino (fischi e proteste tali da interrompere l’esecuzione, e il direttore che implora il pubblico con la magica parola: «Abbiate rispetto del nostro lavoro»); piuttosto, assistere al turno A di Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann in prima esecuzione alla Scala fa tornare alla mente il clima da opera “moderna” offerta a una platea di attentissimi abbonati, che Dino Buzzati racconta in Paura alla Scala («Sì, c’era dell’energia, ma a quale prezzo. Strumenti, suonatori, coro, cantanti, massa di ballo […] direttore e persino spettatori erano sottoposti al massimo sforzo che si potesse pretendere da loro. Al termine della prima parte l’applauso esplose non tanto a scopo di consenso quanto per il comune bisogno fisico di sfogare la tensione»). Con differenza duplice e notevole rispetto al racconto: in Buzzati il teatro era gremito e nessuno osava manifestare la propria insofferenza; di fronte all’opera di Zimmermann la Scala è invece – si può ben dire – mezza vuota, e qualcuno non resiste alla tentazione di contestare lo spettacolo alla fine della prima parte (che riunisce I e II atto). Si è detto “tentazione” perché, rispetto a una première o a un lavoro sperimentale, Die Soldaten compie nel 2015 cinquant’anni; dunque ha impiegato mezzo secolo per giungere alla Scala (Wozzeck, il titolo musicalmente e narrativamente più apparentabile, era stato più rapido, poiché aveva raggiunto Milano dopo ventisette anni dalla prima assoluta berlinese). Ci si può chiedere allora se l’opera porti bene o male i suoi primi cinquant’anni, dal momento che la musica difficilmente fuoriesce dal rigido ambito seriale, al di là delle molteplici citazioni, delle inserzioni jazz, dell’apparato di percussioni che tracima dalla fossa orchestrale per invadere numerosi palchi. Ma il giudizio è certamente positivo grazie all’allestimento scenico cui la musica dà vita, perché sul palco tutto funziona in modo fantastico: dall’inizio alla fine le scene si susseguono in parallelo e anche in sovrapposizione, per accavallare i momenti di tensione e non permettere che l’azione abbia mai pause rassicuranti. Al termine, infatti, soltanto applausi, unanimemente crescenti per gli interpreti principali e per il direttore d’orchestra.
A differenza di tante altre partiture, più recenti ma già dimenticate, Die Soldaten rivivono grazie a una rappresentazione scenica intelligente come quella di Alvis Hermanis, nata per gli ampi spazi della Felsenreitschule di Salisburgo, ora opportunamente adattata al boccascena scaligero; in altre parole, l’attualità del dramma tardo-settecentesco di Jacob Lenz vince la prova del teatro grazie alla sceneggiatura dello stesso Zimmermann e grazie a una musica profondamente ancorata al Novecento storico e dodecafonico, che non dà mai tregua all’ascoltatore.
A guidare con straordinaria sicurezza l’orchestra e la pletora di cantanti è Ingo Metzmacher, determinato a far risaltare lo specifico colore di ogni famiglia strumentale (in particolare delle percussioni), ma senza mai eccedere in esplosioni sonore troppo violente. Per il concertatore di Die Soldaten una delle difficoltà più ricorrenti deve essere infatti controllare la sonorità di 112 strumentisti (compresi i quindici percussionisti dislocati tra fossa, palchi e Sala Prove dell’Orchestra; questi ultimi amplificati live da altoparlanti appesi al soffitto) e del complesso “Jazz Combo” collocato nella barcaccia stampa; sul palco, poi, 25 artisti vocali da guidare nei continui intrecci di recitazione e di canto. Ma l’intera squadra, collaudata sin dalle recite estive salisburghesi del 2012, è coesa e perfetta; su tutti svetta il personaggio protagonista di Marie, una straordinaria Laura Aikin (torna alla Scala dopo la strepitosa Lulu di Berg, diretta da Daniele Gatti nell’aprile 2010), di grande forza interpretativa e attoriale, oltre che dalla voce solida, uniforme e al tempo stesso duttile: da fanciullina ingenua e impulsiva si trasforma progressivamente in donna smaliziata e ambiziosa, ma sempre rovinata dalle peggiori pulsioni degli uomini che la avvicinano. Daniel Brenna deve interpretare il ruolo antagonistico del barone Desportes quale “tenore molto acuto” (sehr hoher Tenor, richiede la partitura); con la sua voce chiara, pronta a trascorrere dalla posizione in maschera al falsetto, rende bene la viscida doppiezza del personaggio; dà il meglio di sé, per recitazione e per fermezza di intonazione, nella scena finale dell’avvelenamento e della morte.
Molto convincenti il Wesener di Alfred Muff (che deve recitare più che cantare), lo Stolzius di Thomas E. Bauer, l’Eisenhardt di Boaz Daniel (“baritono eroico”, richiede la partitura: Daniel è più signorile, grazie al timbro corposo ricco di armonici, che eroico). Una gemma è la Contessa de la Roche di Gabriela Beňačková, incredibilmente debuttante in un ruolo d’opera alla Scala (dove mancava dal 1991). Non del tutto convincente, perché un po’ troppo “verista”, la Charlotte di Okka von der Damerau, così come un po’ troppo stridula è la voce del giovane Conte, Matthias Klink. Tutti gli artisti vocali sono però a loro agio nella rispettiva parte; se talora devono forzare l’emissione, è dovuto alla scrittura impervia di Zimmermann. I momenti musicalmente più interessanti dell’opera, del resto, sono alcuni numeri d’insieme affidati alle voci più importanti: il duetto tra Marie e Desportes nel II atto, il terzetto femminile che chiude il III atto con la Contessa, Marie e Charlotte impegnate in lunghi vocalizzi e messe di voce di lontana ascendenza belcantista, e ancor più la citazione del corale bachiano dalla Matthäus-Passion nel finale II, stravolto dalla serialità, ma riconoscibile nella cifra musicale che porge un senso a tutto il dramma, ossia un’invocazione di pietà per uomini che non sanno che cosa fanno.
Lo spettacolo di Hermanis non è né volgare né provocatorio, perché non ha bisogno di esserlo; nell’intento di denuncia della condizione femminile degradata e violata, è del tutto funzionale alla complicata partitura di Zimmermann. La scelta di una scena unica (che riproduce i fornici della Felsenreitschule, aggiungendo vetrate e pannelli mobili) e al tempo stesso molteplice, permette non solo lo svolgimento parallelo di azioni simultanee, ma anche il raggiungimento di un ben preciso esito meta-narrativo: lo spettatore ha chiaro che tutti i personaggi vedono tutto quello che accade agli altri, e maturano la loro recitazione di conseguenza. La regia persegue cioè la chiarezza e la comprensibilità, senza risparmiare nulla delle espressioni più sordide e disumane del mondo del reggimento. A questo proposito, la coralità cui fa pensare il titolo stesso è mantenuta più dall’assetto dello spettacolo che non da quanto risulti nella partitura, perché il regista schiera i soldati dietro o al disopra dello svolgimento di ciascuna scena, sempre in atti bestiali o indolenti: si risvegliano con fastidio e scatti nervosi all’inizio del I atto, si masturbano alla vista delle donne, oziano e scherzano in modo spregiudicato, giocano a carte, si radono, cucinano; sono sempre sporchi, laceri, trasandati; è significativo che della «bella vita militar» Hermanis non voglia recepire nulla di risplendente, né una sciabola né un’uniforme di gala, e tanto meno un gesto di eroismo o di nobiltà (analogia con il rigore della composizione: Zimmermann non concede nulla a elementi melodici o stilemi tardo-romantici). Quando danzano compostamente – e per questo stupiscono l’osservatore – nella parte alta della scena, forse i soldati non fanno altro che simulare l’ipocrisia dei sottostanti personaggi nobili (la Contessa de la Roche e suo figlio), impegnati in un duetto ipocrita e classista a danno della disgraziata Marie.
I costumi di Eva Dessecker servono ottimamente le scelte registiche di Hermanis nel non distaccarsi mai dal basso profilo etico: tutti i personaggi si degradano, e se cambiano non possono che volgere al male e allo squallore, come le vesti esteriori segnalano. Ma il regista ricorre anche a simbologie molto semplici, come il camminare di Marie su una ringhiera sospesa nel vuoto al termine del II atto, quando la fanciulla si trova davvero sull’orlo dell’abisso morale. A volte quel che si vede è ancora più ossessivo e violento della musica: nel finale III, mentre le percussioni accompagnano febbrilmente il ripetersi della solita struttura seriale, Marie seduta sul suo lettino si toglie da sotto le vesti lunghissimi filamenti di fieno, estraendoli in modo compulsivo, come per strapparsi di dosso un morbo o una maledizione. Sin dal I atto il fieno ricopre una forte valenza simbolica perché le balle disseminate sul palcoscenico rappresentano i fondamenti comportamentali che Marie, inconsapevolmente, distrugge; ecco perché Desportes, nel corso del duetto del II atto, calpesta tali blocchi di fieno, saltellandovi sopra tutto lieto e animato dalle più squallide intenzioni.
L’obbiettivo ricercato dal regista è l’espressione non solo delle pulsioni sessuali dei soldati, bensì delle forme di violenza di cui tutti sono portatori, e di cui Marie è vittima: anche quella esercitata dalle famiglie (per questo sono presenti così tante madri nella folla dei personaggi) è una manifestazione di violenza, perbenistica o piccolo-borghese, parallela agli scherni dei soldati contro Stolzius, il primo fidanzato di Marie. Alla fine, dopo tante scene di coercizione, dopo decine di fotografie d’epoca con donne nude o seminude costrette alla prostituzione, il messaggio del libretto e della regia si staglia nella forte indignazione e nella denuncia netta. Il mondo composito e basso del reggimento è dunque una metonimia del mondo intero, e i soldati sono tutti coloro che approfittano della debolezza altrui a proprio vantaggio, aggiungendo all’inganno l’insulto e la violenza. A considerare la condizione femminile in gran parte del mondo di oggi, Die Soldaten denunciano che non solo dai tempi della prima esecuzione (1965) ma addirittura dai tempi della commedia di Lenz (1776) non sia cambiato proprio nulla. Foto  Marco Brescia & Rudy Amisano – Teatro alla Scala