“Il turco in Italia” al Teatro Regio di Torino

Dir. Daniele Rustioni, Regia Christopher Alden

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera e di balletto 2014-2015
“IL TURCO IN ITALIA”
Dramma buffo in due atti su libretto di Felice Romani
Musica Gioachino Rossini
Selim, principe turco CARLO LEPORE
Donna Fiorilla NINO MACHAIDZE
Don Geronio PAOLO BORDOGNA
Don Narciso EDGARDO ROCHA
Prosdocimo SIMONE DEL SAVIO
Zaida SAMANTHA KORBEY
Albazar ENRICO IVIGLIA
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Maestro al fortepiano Luca Brancaleon
Regia Christopher Alden
Ripresa da Karolina Sofulak
Scene Andrew Liebermann
Costumi Kaye Voyce
Luci Adam Silverman
Riprese da Cecile Giovansili
Assistente alla regia e ai movimenti coreografici Anna Maria Bruzzese
Nuovo allestimento, in coproduzione con Festival d’Aix-en-Provence, Opéra de Dijon e Teatr Wielki-Polish National Opera (Varsavia)
Torino, 15 marzo 2015

Nelle coproduzioni teatrali, con riprese di regia, spostamenti di teatro in teatro, passaggi di mano in mano di idee e di progetti, succede a volte che il significato di uno spettacolo – si vorrebbe dire il suo ‘spirito’ – vada smarrendosi o sia molto difficile da individuare. È quanto accade con Il turco in Italia rossiniano nato da una triangolazione italo-franco-polacca, ora giunta a Torino; sia detto subito, perché non insorgano i soliti equivoci (che tanto nasceranno comunque): lo spettacolo piace moltissimo al pubblico del Teatro Regio, che si diverte, apprezza i cantanti e la loro recitazione, addirittura esalta il giovane direttore d’orchestra; insomma è un grande successo. Ma l’ascoltatore che, uscendo di teatro, si domandasse quale interpretazione sia stata offerta della fabula, della vicenda (solo apparentemente bizzarra), del contrasto tra le due culture mediterranee di cui l’opera si sostanzia allegramente fin dal titolo, che cosa potrebbe rispondersi? In casi come questi, più che mai, è necessario tenere distinta l’analisi delle componenti musicali da quella dell’allestimento scenico; se le prime sono complessivamente buone, il secondo è disastroso; peggio ancora: nella sua pura formalità è inutile.
Direttore d’orchestra è il giovane Daniele Rustioni, che affronta l’opera rossiniana con piglio sicuro, ma esagerando talvolta nelle sonorità delle percussioni, con un effetto di diffusa pesantezza (sin dalla sinfonia e per tutto il I atto; appare invece più brillante nel II). Il vero protagonista maschile, anche perché meglio valorizzato dalla regia, finisce per essere il Don Geronio di Paolo Bordogna, che ha personalità vocale e attoriale ben riconoscibile. Selim, il turco, è impersonato da Carlo Lepore, che con intelligenza professionale si sforza di attutire difetti vocali ormai scoperti. Il primo tenore, Don Narciso, è Edgardo Rocha, a sostituzione di un indisposto Antonino Siragusa; delicato fraseggiatore, dalla voce carezzevole, ma – forse un po’ stanco dalla sera precedente, per la recita con la seconda compagnia – con poca consistenza nelle note acute. Simone Del Savio è il poeta Prosdocimo, cui il libretto di Felice Romani affiderebbe un compito-chiave (se fosse rispettato, e prima di tutto capito dal regista): canta con molto garbo, con ottima dizione, senza effetti grossolani. Il secondo tenore, nella parte accessoria di Albazar, è Enrico Iviglia; considerate le sue difficoltà nel virtuosismo belcantistico, non si comprende davvero perché la sua aria “di sorbetto” non sia stata tagliata (è certo – tra l’altro – che non sia stata neppure scritta da Rossini. Nel Lucio Silla scaligero è stata espunta, oltre a centinaia di versi recitativi, l’intera parte di un personaggio minore, pure musicata da Mozart; nel Turco del Regio si ascolta invece anche quel che non è di Rossini, in conseguenza del pregiudizio che in un’opera buffa tutto debba essere divertente, godibile, e perciò eseguito). Protagonista femminile, la Fiorilla di Nino Machaidze è il personaggio vocale meno riuscito: ed è triste constatare come la sola avvenenza esteriore sia ragione della scelta, perché, oltre alla voce, neppure la recitazione dell’artista riesce convincente. Samantha Korbey è una Zaida corretta, ma dalla vocalità un po’ petulante.
I numeri musicali non procedono con il brio che si attende, in seguito a scelte direttoriali molto caute, quasi dettate da una vecchia “tradizione”. «Non si dà follia maggiore», la prima aria di Fiorilla, fa rilevare la voce oscillante, l’emissione malferma, gli acuti spericolati e l’assenza di agilità della Machaidze; fortunatamente l’espressività del fraseggio di Lepore salva il successivo duetto. Con Bordogna la prestazione del soprano è leggermente migliore, anche se la puntatura finale resta bruttissima. All’inizio del II atto è molto istruttivo il duetto tra i due personaggi buffi, Selim e Don Geronio, perché rivela gli accorgimenti che i due cantanti mettono in atto al fine di risolvere le rispettive difficoltà vocali: Lepore con spinte di fiato e accenti caricati, Bordogna con il ricorso in maschera a un timbro che non è il suo naturale, ma su cui ha costruito parte della carriera. L’esito piace molto al pubblico, anche perché vi coopera l’indubbia capacità attoriale di entrambi. Al contrario, la voce di Fiorilla nel II atto peggiora ancora: forse perché circondata da zingarelle, sembra quella di un’Azucena imbolsita anzi tempo; nell’ultima aria, che dovrebbe risuonare elegiaca e disperata («Squallida veste, e bruna»), il ricorso ad accenti che le sono del tutto estranei si traduce in acuti gridati, al limite di quel che sia tollerabile ascoltare (nel dicembre 2005 Fiorilla al Regio era un’incantevole Eva Mei …). Ma, come già si è detto, il pubblico applaude con entusiasmo, e alla fine festeggia tutti con molto calore; a cominciare dal Coro del Teatro Regio, che si destreggia assai bene nel canto e nei movimenti, grazie alla preparazione di Claudio Fenoglio.
Lo spettacolo di Christopher Alden è molto luminoso, sgargiante in alcune scene; ma in definitiva è un’illustrazione scialba del dramma buffo che vorrebbe reinterpretare. La scena si apre su un ambiente enorme, ogivale come l’hangar di un dirigibile, chiuso sul davanti lungo tutto il palcoscenico da un cortinaggio verde; in primo piano c’è un uomo di schiena allo scrittoio (il poeta Prosdocimo), che durante la sinfonia si alza, passeggia, prende un caffè, insomma compie gesti insulsi sopra una musica degna di migliore utilizzo (o forse degna di essere semplicemente ascoltata e goduta, senza intralcio per gli occhi). Poi il cortinaggio scompare, lasciando quasi vuota l’ampiezza del palcoscenico del Regio (ed ecco il primo difetto di un allestimento nato per Aix-en-Provence che deve misurarsi con un boccascena più ampio); una vuotezza malamente colmata da pochi oggetti scenici e da una gigantesca polena (nel finale I e poi nel corso del II atto), che non s’incastra per nulla con il resto dell’allestimento. A dispetto delle migliori intenzioni che il regista professa nell’intervista acclusa al programma di sala, le possibilità metateatrali offerte dalla parte di Prosdocimo sono del tutto trascurate; assillato dalla necessità di scrivere un dramma, è infatti il poeta a dar vita all’intreccio del Turco in Italia, semplicemente annotando in tempo reale quanto accade intorno a lui (ed è finissima parodia del ruolo dello stesso librettista, che Felice Romani eredita dall’omonimo modello di Caterino Mazzolà, aggiungendovi trovate originali di natura “rossiniana”). Nello spettacolo di Alden, Prosdocimo è un mero orpello, o peggio, un personaggio di cui il regista non sa bene che cosa fare, sebbene l’allestimento si apra e si chiuda con la sua persona intenta a scrivere (il suo essere marginale si capisce prima di tutto dalla gestualità insignificante che gli è riservata).
I costumi di Kaye Voyce, volendo evitare accuratamente ogni cliché turchesco, finiscono per scadere nella genericità, e per omologare Selim a personaggio qualunque, anzi, il più dimesso di tutti («Ma è un principe!», predica invano il libretto …). C’è poi un male che si abbatte quasi sempre sulle opere buffe rossiniane: credere che i caratteri, per far ridere, debbano prima o poi ritrovarsi in mutande o cambiarsi d’abito di fronte al pubblico; e così nel I atto le zingarelle spogliano Don Geronio, mentre nel II è il coro maschile a svestirsi per indossare gli abiti del ballo (i costumi di Maurizio Millenotti per la produzione torinese del 2005 paiono ormai un favoloso miraggio). Che un’intera produzione del Turco in Italia prescinda dagli elementi esotici o – errore anche più grave – da quello marino, per prediligere tavolini da caffè di paese o sofà piccolo-borghesi, è indicativo della profondità di lettura da parte di regista e collaboratori. Altre scelte errate si abbattono sui singoli interpreti, per lo meno quelli privi di forte personalità artistica; è un errore, per esempio, fare comportare come una timida mammoletta il tenore che già soffre per una parte minoritaria (la gelosia che a Don Narciso attribuisce il libretto non si manifesta mai); è un errore affidare a Fiorilla movenze seduttive grezze e volgari, come quelle che la Machaidze mette in atto, perché così la sua scelta finale di tornare presso il marito appare ancor più triste e poco credibile.
Alden, nell’intervista già citata, dice che un regista dovrebbe «ricreare le emozioni provate dal pubblico al debutto dell’opera». A onor del vero, sul piano drammaturgico il suo Turco in Italia suscita proprio le stesse perplessità che l’opera aveva sollevato dopo le recite scaligere del 1814, essere cioè una ripetizione commerciale dell’Italiana in Algeri. Il “secondo livello” della narrazione, quel «potenziale metaforico di Così fan tutte» di cui parla Angelo Cantoni nel suo saggio del programma di sala (Dall’omaggio a Mozart al metateatro: sui diversi livelli di realtà nel Turco in Italia) è ancora tutto da scoprire e da valorizzare. Foto Teatro Regio di Torino