“Lucio Silla” di Mozart alla Scala

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2014-2015
“LUCIO SILLA”
Dramma per musica in tre atti su libretto di Giovanni De Gamerra
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Lucio Silla KRESIMIR SPICER
Giunia LENNEKE RUITEN
Cecilio MARIANNE CREBASSA
Lucio Cinna INGA KALNA
Celia GIULIA SEMENZATO
Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro alla Scala
Direttore Marc Minkowski
Maestro del Coro Bruno Casoni
Direttore del Corpo di ballo Makhar Vaziev
Regia Marshall Pynkoski
Scene e costumi Antoine Fontaine
Coreografia Jeannette Lajeunesse Zingg
Luci Hervé Gary
Nuova produzione in coproduzione con Mozartwoche Salzburg/Fondazione Mozarteum e Festival di Salisburgo
Milano, 14 marzo 2015

Forse non potrebbe esserci opera più “milanese” del Lucio Silla mozartiano, ultima della trilogia composta per il Regio Ducale Teatro (dopo Mitridate re di Ponto e Ascanio in Alba), andata in scena la sera inaugurale della stagione, il 26 dicembre 1772. Eppure nella storia del principale teatro cittadino, che cinque anni più tardi avrebbe assunto il nome attuale, e dove nella seconda metà del Novecento Mozart avrebbe goduto di una renaissance paragonabile a quella rossiniana, il titolo tratto dalla storia romana non ha avuto quasi alcuna fortuna (eccettuata la ripresa del 1984). Questa stessa produzione, del resto, non è nata a Milano, ma a Salisburgo; l’importante, comunque, è che sia giunta alla Scala, e con Marc Minkowski alla guida; della sua direzione musicale, che è il vero nerbo dello spettacolo, non si può dire che bene: il suo Mozart è l’esuberante adolescente, perfettamente capace di rappresentare affetti e sentimenti con la schietta struttura dell’opera metastasiana, senza quelle ombreggiature che diventeranno poi frequenti nella “maturità”. L’orchestra scaligera scintilla senza posa, Minkowski è perfetto accompagnatore dei cantanti, e davvero riesce ad animare diversamente le arie di furore, quelle meditative, quelle di lamentazione. Eppure le sue scelte di partenza non sono del tutto condivisibili; nell’ambito musicale, infatti, i personaggi restano appena sbozzati, a causa dei continui tagli delle parti recitate (come evidenziato nel libretto del programma di sala) e addirittura dell’intera parte di un personaggio minore (Aufidio, tribuno, amico di Lucio Silla). La scelta è probabilmente dovuta a ragioni pratiche; ma sarebbe certamente preferibile riproporre l’opera integralmente, con i due intervalli tra i tre atti, anziché uno solo a metà del II, e magari con un’ora di anticipo rispetto all’inizio solito della rappresentazione. L’idea di cassare la parte di Aufidio, poi, è proprio infelice, perché un ulteriore cantante maschile (il secondo dopo il protagonista) avrebbe riequilibrato un poco l’attuale sproporzione, di due ruoli en travesti e di due soprani a fronte di un solo tenore.
Decisamente veniale è un’altra idea peregrina. Forse Minkowski vuole evitare la fama di “filologo” musicale, e per questo non esita a inserire una piccola interpolazione, come l’accenno alla marcia nuziale di Mendelssohn nella scena tra Lucio Silla e Celia, prima dell’aria «Strider sento la procella» (III i); inutile dire che stride davvero con tutto il resto …
La compagnia vocale è complessivamente discreta, ma al suo interno sono troppo forti discrepanze. Inga Kalna è Lucio Cinna, la cui voce sopranile è spesso coperta dall’orchestra, nonostante l’avamposto del piccolo grembiule da cui protendersi verso il pubblico; neppure le sue agilità sono ben sgranate, e le messe di voce risuonano solide soltanto nelle note centrali. Marianne Crebassa, interpretando Cecilio Metello, fornisce la prestazione migliore dell’intera compagnia: sua è l’aria «Il tenero momento», una delle più belle di tutta l’opera, che l’artista esegue con un canto vibrante ed espressivo. Nel corso della recita va crescendo in spigliatezza e sicurezza dell’emissione, tanto da collocarsi a un livello qualitativo molto distante da tutti gli altri (a voler essere pignoli, va detto che il timbro mezzosopranile della Crebassa talvolta le impedisce di raggiungere appieno le note acute; ma queste ultime passano tranquillamente in secondo piano). Giulia Semenzato è Celia, molto sicura e maliziosa nell’interpretare la sorella di Silla, ma meno musicale delle sue colleghe. Lenneke Ruiten è Giunia, la protagonista del dramma: è sufficiente ascoltare la sua prima aria, «Dalla sponda tenebrosa», per rendersi conto dell’insufficienza di estensione, mentre con la lamentazione, «O del padre ombra diletta», si ascoltano suoni fissi e fastidiosi, che le impediscono di comunicare qualsivoglia affetto. Da ultimo, l’unica voce di uomo, che è poi quella del protagonista. Doveva essere Rolando Villazón, che ha rinunciato a prender parte alle recite milanesi per motivi di salute, ed è stato sostituito dal secondo interprete, il tenore Kresimir Spicer. Questo Lucio Silla ha timbro molto chiaro, e appoggia la voce così in alto, da avere problemi nella messa in maschera; quindi è costretto a forzare l’emissione, e a gridare negli acuti. Siccome, poi, marca molto la recitazione, con un gesto attoriale veristico (disomogeneo rispetto a tutta la linea dello spettacolo), riesce in un tiranno isterico e nevrotico. «Il desio di vendetta e di morte», la sua prima aria, si caratterizza negativamente per suoni fissi e acuti molto legnosi; Spicer deve inoltre misurarsi con notevoli problemi di pronuncia: si sforza di fraseggiare, anche se l’esito non è lusinghiero. Ha poca grazia, nel complesso, e fa ancora peggio quando vorrebbe atteggiarsi a tenore aggraziato. Impeccabile, invece, il Coro istruito da Bruno Casoni.
Lo spettacolo è decisamente elegante, pur immobilizzato in una scena unica costituita di colonne, scalinate e corridoi in legno, con un paesaggio italico sul fondale; sono i costumi in stile settecentesco, straordinariamente rifiniti, a determinare il successo visivo dell’allestimento, concentrato appunto nel loro innesto in un contesto architettonico neoclassico (scene e costumi sono di Antoine Fontaine). Su tale polarizzazione lavora poi a fondo la regia di Marshall Pynkoski, con recupero di gestualità enfatiche, in parallelo alle coloriture di ogni aria. Terzo elemento registico, le coreografie di Jeannette Lajeunesse Zingg, che a volte inscenano un vero tripudio di danze, sullo scorcio dell’antica Roma. Le architetture lignee della scena riportano ancora ad altra epoca, per esempio quella del Teatro Olimpico di Vicenza, e dunque all’età della rinascita della tragedia classica. Ma sembra anche di rivivere una serata al Teatro Ducale di metà Settecento quando, durante la sinfonia, le luci restano a mezza sala. Ugualmente “antichizzante” è un altro accorgimento della regia, per cui tutti i personaggi, almeno per qualche battuta di ciascuna delle proprie arie, si trovino sul piccolo grembiule che aggetta verso la sala dal centro del palcoscenico, come allora era consuetudine. Non è però un allestimento “immobile” (o reso mobile soltanto dalla danza): nella scena della festa nuziale, che poi si tramuta in scena del tradimento, le colonne e i fondali si muovono per creare più spazio praticabile; le luci variano a seconda di chi canta nel numero d’insieme («Se gloria il crin ti cinse», II xii), mentre la coreografia rappresenta i moti della congiura e dell’acrimonia. Da tutta questa romanità artefatta emerge bene il capriccio del potere dispotico, con la sua prodigiosa metamorfosi finale in clemenza e umiltà.
Il pubblico della Scala apprezza e festeggia tutti i cantanti, ma soprattutto il direttore d’orchestra, che «gode / d’ogni gloria, e d’ogni lode / vincitore oggi si fa», secondo le parole del coro conclusivo.   Foto Marco Brescia e Rudy Amisano – Teatro alla Scala