Venezia, Teatro La Fenice: “Alceste”

Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2014-2015
“ALCESTE”
Tragedia per musica in tre atti Wq. 37. Libretto di Ranieri de’ Calzabigi, dall’omonima tragedia di Euripide
Musica di Christoph Willibald Gluck
Admeto MARLIN MILLER
Alceste CARMELA REMIGIO
Eumelo LUDOVICO FURLANI* / ERNESTO GEMPERLÉ*
Aspasia ANITA TEODORO* / TANIA PLAISANT*
Evandro GIORGIO MISSERI
Ismene ZUZANA MARKOVÁ
Un banditore / Oracolo ARMANDO GABBA
Gran sacerdote d’Apollo / Apollo VINCENZO NIZZARDO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Guillaume Tourniaire
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Light designer Vincenzo Raponi
Movimenti coreografici Roberto Pizzuto
*Piccoli Cantori Veneziani: maestro del coro Diana D’Alessio
Cembalo Roberta Ferrari
Violoncello Alessandro Zanardi
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice nel tricentenario della nascita di Christoph Willibald Gluck (1714) in coproduzione con la Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.
Prima rappresentazione a Venezia
Venezia, 22 marzo 2015

Splendida ed essenziale la messinscena ideata da Pier luigi Pizzi – che cura oltre alla regia, anche le scene e i costumi – per la prima rappresentazione al Teatro La Fenice dell’Alceste di Gluck. Vi dominano il bianco e il nero, a rappresentare la luce e le tenebre, la vita e la morte, in una suggestiva tensione dialettica, che è cifra distintiva della cultura tardo settecentesca, ma è anche connaturata in ogni tempo con la condizione umana: bianca la scena prevalentemente fissa, di un sobrio neoclassicismo alla Piacentini, dove appare, sotto un arco, la statua di Apollo con l’arco e la faretra – il nume che sconvolge la città di Fere, in una Tessaglia senza tempo, con un un terribile vaticinio: la vita del buon re Admeto, ormai morente, sarà salva, se qualcun altro si immolerà in sua vece –, bianchi i volti, bianchi o neri i costumi, per questo dramma, mutuato da Euripide, che classicamente si origina dallo φθόνος τῶν θεῶν (l’invidia degli dèi) e si conclude felicemente – nel libretto originale in italiano di Ranieri de’ Calzabigi – con l’intervento del deus ex machina – un Apollo placato e mosso a pietà dalle lamentazioni dei devoti –, che si sostituisce all’azione salvifica di Ercole, con cui invece si conclude la tragedia euripidea. Molto si è discusso sulla “riforma gluckiana”, di cui Alceste è considerata l’esito più rigoroso: la collaborazione del compositore tedesco con il poeta italiano è per alcuni assolutamente fondamentale per l’evoluzione del melodramma, e un filo rosso lega Gluck e il Calzabigi, da un lato, al “recitar cantando” di Monteverdi, dall’altro, ad autori successivi (Wagner in primis), che come loro volevano liberarsi di una tradizione ritenuta assai discutibile, che aveva, tra l’altro, assoggettato la parola al virtuosismo, spesso fine a se stesso e di pessimo gusto, dei cantanti, intendendo riequilibrare il rapporto tra musica e testo poetico, a favore della chiarezza e della verosimiglianza. Ma non tutti, a quanto pare, ultimamente sono di questo avviso, come si legge nel dotto saggio di Andrea Chegai, all’interno del programma di sala, che tende a ridimensionare l’importanza della cosiddetta “riforma gluckiana”, almeno in Italia, dove se ne ebbe una conoscenza più che altro teorica, derivante dalla lettura della prefazione di Calzabigi all’Alceste, e non tanto dall’esperienza diretta della musica originale, cosicché – secondo il Chegai – il teatro musicale serio tra Sette e Ottocento ebbe una genesi complessa: l’estetica metastasiana convisse inizialmente con quella gluckiana e, in generale, le sorti dell’opera furono determinate da una contaminazione tra vecchio e nuovo senza netti spartiacque (esempio sommo, La clemenza di Tito mozartiana).  Sia come sia, l’ascolto della musica di Alceste non lascia dubbi sulla sua coerenza rispetto all’impostazione estetica espressa dal Calzabigi come sulla sua lungimiranza riguardo a quanto avverrà, in un futuro anche lontano, nel teatro musicale: dall’ouverture che deve immergere il pubblico nel clima dell’opera alla rinuncia al virtuosismo vocale per dare risalto alla parola e al suo valore espressivo, dall’eliminazione pressoché totale della dicotomia tra recitativo e aria alla presenza nella partitura di precisi elementi di richiamo, che ritornano stabilmente (non siamo di fronte al leitmotif, ma la strada è aperta).  Notevole, come si è detto, la messinscena di Pier luigi Pizzi – che in tanti anni di presenza al Teatro La Fenice ha legato il suo nome a più di quaranta spettacoli –, in quanto riesce ad esprimere visivamente il neoclassicismo razionalista attraverso il nitore delle forme e nello stesso tempo certe atmosfere ossianiche, sepolcrali o già Sturm und Drang – come nella scena in cui Alceste evoca le ombre dell’Averno, offrendo loro la sua vita in cambio di quella dell’adorato Admeto –, nella quale si erge sinistro un albero che ha come frutti dei teschi. Molto efficaci, e coerenti con la visione di Pizzi, le luci di Vincenzo Raponi al pari dei movimenti coreografici di Roberto Pizzuto.  Anche sul piano musicale, l’interpretazione di Guillaume Tourniaire – già noto al pubblico della Fenice in qualità di direttore di coro durante la stagione 2001-2002 – si è rivelata perfettamente in linea con le scelte estetiche del regista e, in ultima analisi, di Calzabigi/Gluck: il direttore francese ha saputo distillare, assecondato da un’orchestra in gran forma, un suono di volta in volta nitido e smagliante o cupamente funereo, senza mai perdere la concentrazione e l’intensità espressiva nei tre atti in cui si articola il dramma, ognuno costituito in larga parte da un continuum sonoro, che egli ha saputo caratterizzare in ogni momento con opportune sottolineature dinamiche ed agogiche, sempre valorizzando pienamente le voci di prim’ordine, che aveva a disposizione.  Straordinaria, a questo proposito, l’interpretazione, nel ruolo di Alceste, del soprano Carmela Remigio, che il pubblico della Fenice aveva già avuto il piacere di ascoltare nella stagione 2013-2014 nella Clemenza di Tito e nel Rake’s Progress (Anne Trulove), e che tra breve interpreterà nel teatro veneziano il personaggio di Norma. L’artista ha saputo offrirci un personaggio estremamente credibile nella sua complessità, conferendogli, a seconda della situazione, la sensualità della sposa innamorata, la tenerezza della madre, la nobiltà della regina. Il tutto grazie ad una linea di canto omogenea, a un fraseggio nitido ed espressivo, ad una sobria eppure intensa gestualità, dimostrando piena maturità tecnica ed artistica in un ruolo non certo facile. Autorevole l’Admeto del tenore Marlin Miller – anch’egli già noto da qualche anno a Venezia come Ferrando e Don Ottavio nella trilogia mozartiana di Damiano Michieletto, Loge nel Rheingold, Aschenbach in Death in Venice di Britten – un tenore dal timbro piuttosto chiaro, ma virile, che ha ugualmente sfoggiato una recitazione ricca di pathos, e tuttavia mai enfatica, ad esprimere, pur con nobile controllo delle passioni, lo strazio per non poter evitare l’estremo sacrificio della propria sposa-  Il soprano Zuzana Marková – altra recente conoscenza del pubblico veneziano: presente nel Cast di Aspern di Sciarrino, di Elegy for Young Lovers di Henze e dell’Africaine (Inès)grazie alla sua voce fresca e giovanile ha delineato un’Ismene teneramente affettuosa come intensamente partecipe del dramma che sconvolge Alceste. Incisivo nel fraseggio, il tenore Giorgio Misseri – già fattosi conoscere a Venezia nel ruolo di Alberto nell’Occasione fa il ladro, Edoardo nella Cambiale di matrimonio e Dorvil nella Scala di seta–, ci ha analogamente consegnato un Evandro vario negli affetti. Assolutamente all’altezza i baritoni Armando Gabba – apparso recentemente al Teatro La Fenice nei panni del barone Douphol nella Traviata, di Sciarrone in Tosca, di Schaunard nella Bohème –, che con voce timbrata e incisivo fraseggio ha interpretato il doppio ruolo del Banditore e dell’Oracolo e Vincenzo Nizzardo, anch’egli con due ruoli (Apollo e Gran Sacerdote d’Apollo) e analoghe prestazioni. Concludiamo con un cenno al coro, che in quest’opera riveste un ruolo di primissimo piano, come lo rivestiva nella tragedia greca, che Calzabigi e Gluck intendevano far rivivere. Magistralmente istruito da Claudio Marino Moretti, ha saputo svolgere, con estrema nitidezza vocale e sobrie movenze, il suo classico ruolo di personaggio collettivo, di partecipato commento all’azione scenica. Pieno sonoro successo per questo riuscitissimo spettacolo.