Napoli, Teatro San Carlo Opera Festival: “Tosca”

Napoli, Teatro di San Carlo – San Carlo Opera Festival  
“TOSCA”
Melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dall’omonimo dramma di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini 
Floria Tosca
FIORENZA CEDOLINS
Mario Cavaradossi STEFANO LA COLLA
Il barone Scarpia SERGEY MURZAEV
Cesare Angelotti GIANLUCA LENTINI
Il sagrestano DONATO DI GIOIA
Spoletta FRANCESCO PITTARI
Sciarrone BRUNO IACULLO
Un carceriere ROSARIO NATALE
Un pastorello GIUSEPPINA ACIERNO
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro San Carlo
Direttore Jordi Bernàcer   
Maestro del coro Marco Faelli  
Maestro del coro di voci bianche Stefania Rinaldi   
Regia e luci Jean Kalman  
Scene Raffaele Di Florio   
Costumi Giusi Giustino   
Nuovo allestimento del Teatro San Carlo
Napoli, 17 luglio 2015

“Quanto alla frammentarietà è cosa voluta da me”, scrive Puccini a Ricordi riguardo al duetto del terzo atto: “[…] ritorna sempre la preoccupazione di Tosca, la ben simulata caduta di Mario e relativo suo contegno davanti ai fucilatori suoi”… solo in quel momento, l’eroica posa registica assunta dalla protagonista può congedare l’opera in nome dell’amore immortale, unico vero valore di questo melodramma. Ed è proprio sul finale che il passaggio orchestrale per le scelte cromatiche maggiormente sottili dell’ultimo atto viene finalmente condotto verso espansioni più coinvolgenti. Per altro, la direzione di Jordi Bernàcer tiene con le briglie la professionale orchestra del teatro lirico napoletano, smarrendosi in tempi di adagio monocordi ed inclini a rallentamenti. Escludendo qualche reminiscenza tematica di archi e fiati, la sua bacchetta manca d’inventiva, difettando principalmente nella varietà dell’agogica e nello scavo delle parossistiche pulsazioni della partitura. A dispetto di questa impostazione, il coro del teatro e quello di voci bianche, diretti rispettivamente dai maestri Marco Faelli e Stefania Rinaldi, sopperiscono alla stazionarietà della buca col vivo andamento popolare della gazzarra di giubilo per la sconfitta napoleonica, prima d’inserirsi con aulica partecipazione nella progressione del “Te Deum”, che tutto sommato permette un’incisiva prima chiusura di sipario.
Se il taglio musicale e la staticità delle luci non riservano grandi sorprese, la riapertura scenica all’interno di palazzo Farnese svela la chiave registica di Jean Kalman, in realtà ben anticipata dal necessario realismo dei costumi di Giusi Giustino. Sadiche donne inquisitrici, “escort” alla moda, divise gerarchiche note dal grande schermo, abiti maschili di un passato non troppo lontano… tutti elementi che si spiegano nell’imponente parete di marmo grigio sopra la scrivania di Scarpia, su cui fa da monito un’inconfondibile aquila fascista. Ambientazione del dramma alla mano, lo scetticismo iniziale sfuma presto verso lo stupore di una messa in scena non più per i contemporanei di Puccini, ma per gli spettatori del XXI secolo, sicuramente più predisposti ad associare il clima di estorsione, inganno o condanna prestabilita col periodo fascista di cui quella stessa Roma è stata teatro e che è così radicato nell’immaginario collettivo. Non sorprende che tale linea consenta alle sobrie scene di Raffaele Di Florio di allinearsi al più con la tradizione nell’atto primo, d’effetto per lo scorcio animato sulla cupola di Sant’Andrea della Valle, il quale riesce a far collimare gli elementi fondamentali predisposti dal libretto con le esigenze registiche almeno fino alla maggiore essenzialità dell’ultimo atto, allusione definitiva a quelle esecuzioni alle porte figurate dall’inquietante catasta di sedie vuote. Il tocco puntualizzatorio dei tacchi di Tosca conferma la funzionalità dei costumi all’azione, ma la riuscita dell’allestimento si regge prevalentemente sull’accuratezza di una regia che impreziosisce il filone di base attraverso una ricca e credibile tela di espedienti a livello delle interazioni relazionali, ad evidenziare visivamente le divergenze sentimentali che musica e testo esprimono.
L’interpretazione di Stefano La Colla come Mario si annovera tra la pila di tenori ostinati a risolvere la parte sul rinforzo degli acuti conclusivi. L’assetto strofico monocromatico, i fiati corti senza slancio lirico e la sistematica fissità dei suoni, sono i primi segnali di un controllo periclitante che compromette l’esecuzione dell’aria di congedo, specie nelle incontrollate aperture sulle vocali e nel deragliare delle legature discendenti. Dispiace, perché l’emissione sarebbe anche nitida, ma centri di modico volume ed un fraseggio tutto tranne che personalizzato rafforzano l’impressione di un personaggio al di là dalle sue corde, in un disinteressamento scenico che mostra giusto diligenza verso le indicazioni registiche.
Più consono lo Scarpia di Sergey Murzaev, favorito da un’emissione a fuoco di scura matrice timbrica, che ben si fonde con l’imperturbabile convinzione di poter forgiare gli intenti altrui. Se questo gli consente i migliori risultati introspettivi nel canto di centro, aperto a note basse precise ed insinuanti sospensioni in piano, la riproposizione dei soliti espedienti dinamici affligge la resa degli aspetti di mera perversione e perfidia, che a stento emergono anche sul fronte scenico. Avremmo gradito maggiore efficacia nella presa delle frasi liriche più spinte in area non acuta, dove percettibili forzature cercano di compensare la natura meno risonante della voce, oltre ad un fraseggio più attento alle variegate sfaccettature della parte.
A partire dalla straripante sensualità timbrica che pervade la sala fin da quando la si sente dal fuori scena, Fiorenza Cedolins indossa il manto rosso di Tosca con un’aderenza interpretativa ragguardevole almeno quanto la disinvoltura nell’impietosa estensione della parte. La sua Floria estende con invidiabile omogeneità la rotonda morbidezza del registro di mezzo a quello inferiore per evolvere, nella salita, verso il timbro pastoso dell’area media, prima della smaltata proiezione nella tessitura più acuta. Una solidità che con profonda esperienza le ha consentito la messa a punto di ogni sfumatura emozionale del ruolo. È così che alla delicatezza dei legati si alternano gli accenti dogliosi smorzati in piano, la linea di canto modellata sulle intenzioni drammatiche, gli impeti taglienti di gelosia, ma soprattutto la caratteristica efficacia nelle modulazioni d’intensità di alcuni passi discendenti di fine frase, rafforzativi sonori di sentimenti vivi a cui tanto si deve il fascino della sua interpretazione. Su terreno meno fertile il canto a piena orchestra. In fase ascensionale, infatti, il vibrato si fa più serrato con suoni tendenti all’occlusione ed una certa usura del volume diminuisce la sanguinarietà del contrasto con Scarpia. Da ultimo, l’inappuntabile senso ritmico e la saldezza con cui viene staccato il Do acuto sulla parola “lama”, prima dell’impeccabile discesa d’ottava, sono solo il suggello di un terzo atto dal declamato magistrale.
Convince solo in parte la schiera dei comprimari. A Gianluca Lentini, Angelotti dal fraseggio opaco e generico, si reclama soprattutto l’assenza del portamento guardingo dai pigli ansanti del fuggitivo. Di debole proiezione anche gli interventi di Donato Di Gioia, che riduce le inflessioni caleidoscopiche della parte all’accentuazione più decisa di qualche sillaba, figurando un sagrestano solo devoto. A palazzo Farnese, lo Sciarrone di Bruno Iacullo tiene testa a Scarpia con coraggio e nitida definizione delle frasi, opponendosi agli scambi pallidi di un intimorito Francesco Pittari (Spoletta), mentre Rosario Natale tratteggia sui bastioni un carceriere dal timbro tanto scuro quanto di morbida emissione. Nello scorcio sulla Città Eterna, infine, il mezzosoprano Giuseppina Acierno garantisce sì un assolo corretto, ma senza quel barlume d’innocenza tra le tenebre che solo una voce bianca di pastorello avrebbe potuto proiettare. A conclusione, l’esiguo pubblico estende il calore del golfo partenopeo a tutti gli interpreti principali. Foto Francesco Squeglia