Beethoven e Schumann nel concerto dell’Orchestra Filarmonica della Fenice

Venezia, Teatro La Fenice, Concerto della Filarmonica della Fenice
Orchestra Filarmonica della Fenice
Direttore e violoncello Enrico Bronzi 
Trio di Parma:
Ivan Rabaglia violinoEnrico Bronzi violoncello; Alberto Miodini pianoforte    Ludwig van Beethoven: Concerto in do maggiore per violino, violoncello, pianoforte e orchestra, op. 56
Robert Schumann: Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore, op 97 “Renana”
Venezia, 21 settembre 2015      
Ci occupiamo di una soirée – nella quale, tra l’altro, si celebrava la Giornata Mondiale dell’Alzheimer, in collaborazione con l’Associazione Alzheimer di Venezia nel ventennale della fondazione – all’insegna della grande musica e di splendidi esecutori, quali i solisti del Trio di Parma e gli strumentisti della Filarmonica della Fenice, per quanto il “mattatore” del concerto sia stato Enrico Bronzi, nella duplice veste di violoncellista e di direttore. Il violoncello, in effetti, domina nel Concerto in do maggiore per violino, violoncello, pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven, noto anche come Triplo Concerto. Scritto tra il 1803 e il 1804 (negli stessi anni in cui nascono l’Eroica e il Fidelio), fu pubblicato solo nel 1807 (con dedica, probabilmente di maniera, al principe Lobkowitz, suo mecenate) ed eseguito pubblicamente a Vienna l’anno successivo (dopo una precedente esecuzione privata, avvenuta nel 1805). Il lavoro, in realtà, era stato pensato per altri: confezionato su misura per un augusto committente, quale l’arciduca Rodolfo d’Asburgo, niente più che un buon dilettante di pianoforte, cui Beethoven, all’epoca, dava lezioni. Ne consegue che la parte per la tastiera è relativamente semplice, abbastanza lontana dall’impegno che richiede quella affidata agli altri due strumenti solisti, in particolare, al violoncello, spesso impegnato nella zona acuta. Lo stesso arciduca era al pianoforte nelle due esecuzioni testé ricordate: al violino, Carl August Seidler e al violoncello, un noto virtuoso dell’epoca, Anton Kraft. Il carattere della partitura, dunque, date le particolari circostanze in cui è nata, è tutt’altra cosa dal titanismo, che caratterizza tante altre composizioni beethoveniane, e guarda piuttosto al Settecento, al concerto grosso e alla sinfonia concertante, sia per la presenza di più solisti che per la mancanza di quella forte dialettica a livello tematico e timbrico, che sarà tipica del concerto per solista e orchestra romantico. Qui Beethoven punta su una scrittura brillante e su toni piuttosto delicati, oltre che su frequenti scambi del materiale tematico tra gli strumenti solisti.
Di rara bellezza timbrica ed interpretativa l’entrata, nel movimento iniziale, del violoncello di Enrico Bronzi, dopo l’esposizione orchestrale, ad intonare in pianissimo il primo tema che gravita nel registro acuto, seguito poi, in successione, dal violino e dal pianoforte. Precisi e brillanti i tre solisti nelle estrose rielaborazioni del solenne secondo tema, proposto dal violoncello, e nel prosieguo di tutto il movimento.  Ancora il violoncello si è imposto per la struggente cantabilità con cui ha eseguito, con mirabile intonazione nel registro acuto, il tema del Largo, una pagina già squisitamente beethoveniana. Irresistibile il Rondò alla polacca, un pezzo di bravura, una pagina di colore, destinata a concludere il concerto in un tono allegro e scherzoso, alla maniera di Haydn, pur staccandosi nettamente dal modello settecentesco, per la carica di energia che vi infonde il compositore. Qui i tre solisti hanno brillato per verve, senso dell’humour, scioltezza e padronanza tecnica, assecondati, come altrove in questa splendida esecuzione, da un’orchestra analogamente brillante e precisa. I lunghi e convinti applausi che hanno suggellato la fine della prima parte del concerto si sono placati solo all’annuncio di un bis, che si richiamava, in qualche modo, alla seconda parte: il secondo movimento del Trio n.3 di Robert Schumann, di cui è stata offerta un’interpretazione ricca di intenso lirismo.
La Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 97 detta “Renana” – passiamo così al secondo titolo in programma – fu scritta da Schumann a Düsseldorf tra il 2 novembre e il 9 dicembre del 1850. Si tratta in realtà dell’ultima sinfonia di Schumann, in quanto la Sinfonia in re minore, pubblicata nel 1851 come Quarta con il numero di opus 120, è la rielaborazione di una sinfonia, la cui prima versione risale al 1841. Il compositore a quasi quarant’anni si era trasferito a Düsseldorf per assumervi la carica di Direttore dei concerti, cosicché la Sinfonia Renana nasce in un clima positivo, che non lasciava presagire la catastrofe imminente, la malattia mentale che avrebbe segnato per sempre la vita di un compositore tanto geniale. Un genio romantico è insofferente nei confronti di regole troppo rigide, e tale è Schumann, che tuttavia nelle sue opere migliori riesce a raggiungere una mirabile sintesi tra i due poli antitetici del classicismo e del romanticismo (rappresentati allegoricamente nei suoi scritti dai personaggi di Florestano ed Eusebio). È il caso anche di questa sinfonia, di cui si è fin troppo sottolineato il carattere impressionistico o descrittivo, quando lo stesso compositore finì per eliminare dalla partitura ogni riferimento verbale troppo esplicito in questo senso. Nondimeno la volontà di creare un “Quadro di vita sul Reno”, come egli stesso ebbe a definirla, è evidente fin dal primo movimento, aperto ex abrupto da un tema appassionato e festoso – atto d’amore verso la terra renana – senza alcuna introduzione, sull’esempio dell’Eroica, rispetto alla quale condivide anche la tonalità di mi bemolle maggiore.  In realtà la Sinfonia Renana – al di là dei suoi riferimenti extramusicali – va vista come una pietra miliare sulla strada che porta all’evoluzione della sinfonia classica, proiettata com’è verso il futuro; solo così si può arrivare a capire la portata delle “trasgressioni” schumanniane. Ne farà tesoro in particolare Mahler, che porterà avanti il processo di dissoluzione della forma sinfonica classica, sostituendo al senso dello sviluppo quello del ritorno ciclico dello stesso materiale tematico, già presente appunto nel lavoro di Schumann. Così come prenderà esempio dalla ripartizione della sinfonia in cinque movimenti indipendenti tra loro, eppure sottilmente collegati, ad esempio a livello tematico.  Venendo all’interpretazione proposta da Enrico Bronzi, appare piuttosto evidente che la sua lettura va in questa direzione, sottolineando i caratteri innovativi di questa imponente partitura, gli aspetti che più marcatamente guardano verso il futuro. Assolutamente prorompente l’attacco del tema sincopato che apre il primo movimento, reso con grande pathos, nonché senso dei contrasti timbrici e dinamici, adottando, qui come in tutta la sinfonia, dei tempi piuttosto larghi, che hanno permesso una lettura attenta ad ogni particolare, oltre a mettere in valore l’imponenza e il turgore anche sonoro di questa partitura, che può considerarsi, in qualche modo, premahleriana, anche sotto questi aspetti. Dolci ma non sdolcinati i due successivi monimenti: lo Scherzo, originariamente intitolato “Mattino sul Reno”, costituito da un vero e proprio Ländler moderato e delicato, di sapore liederistico schubertiano, e il terzo movimento, rappresentato da un Intermezzo, in cui predominano i colori alquanto cupi dei legni, in particolare dei clarinetti, creando un clima intimo e pensoso, che contrasta con la solennità del successivo Maestoso. Assolutamente suggestiva e misticheggiante l’interpretazione del maestro Bronzi relativa a questo quarto movimento, ispirato alla cerimonia di consacrazione dell’arcivescovo von Geissel a cardinale presso la cattedrale di Colonia (“come per l’accompagnamento di una cerimonia solenne” era indicato originariamente in partitura), nel quale un unico tema, affidato agli ottoni, domina dall’inizio alla fine, variato soprattutto ritmicamente, a costituire una sorta di inno polifonico, che anticipa Bruckner. Lo slancio del primo tempo è ritornato nel Finale (Vivace), che ne riprende anche alcuni spunti tematici, dando vita ed una vorticosa danza, traboccante di letizia popolaresca. Scroscianti applausi a premiare anche l’ottima prestazione dell’orchestra.