Felice Romani e i suoi melodrammi: “Giulietta e Romeo” di Nicola Vaccaj

Il 31 ottobre 1825 al Teatro della Cannobiana di Milano Giulietta e Romeo, settima opera di Nicola Vaccaj, otteneva, grazie anche al cast costituito dal tenore Giovanni Battista Verger (Capellio), dal contralto Adele Cesari, nome d’arte di Anna Corradini (Romeo) e dal soprano Joséphine de Méric (Giulietta), un discreto successo a testimonianza di un mutamento del gusto del pubblico che stava abbandonando l’imperante stile rossiniano a favore di una concezione drammaturgica che, pur rimanendo ancora all’interno della Scuola Napoletana, apriva le porte al Romanticismo di Bellini e di Donizetti. Della novità dell’opera si rese subito conto anche il giornalista della «Gazzetta di Milano» che nell’articolo apparso il 3 novembre 1825 esaltò l’opera affermando:
“Il maestro Vaccaj è venuto fra noi a confermare l’opinione di chi non dispera che la musica italiana non abbia altra via da percorrere che quella delle imitazioni”.
Proprio nella maggiore libertà rispetto ai modelli rossiniani consiste la novità di Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj, musicista oggi quasi del tutto sconosciuto, ritemuto l’ultimo compositore della Scuola musicale napoletana. Nato a Tolentino, nelle Marche, il 15 marzo del 1790, Nicola Vaccaj si formò come compositore a Roma e a Napoli, dove seguì le lezioni del maestro Giovanni Paisiello e dove conseguì il suo primo successo con l’opera I solitari di Scozia, rappresentata nel 1815; fino alla ripresa moderna di Giulietta e Romeo, il nome di Vaccaj era ricordato per il suo Metodo pratico di canto italiano per camera e per la sua attività di insegnante di canto, apprezzata anche da Rossini, che egli esercitò a Trieste, a Vienna, a Parigi e soprattutto al Conservatorio di Milano, e non per la sua produzione operistica che scomparve presto dai teatri. D’altra parte Giulietta e Romeo era stata l’unica opera di Vaccaj ad imporsi con una certa continuità nel repertorio teatrale nella prima metà dell’Ottocento essendo stata rappresentata non solo in Italia (Teatro Regio di Parma il 26 dicembre 1829 con Eugenia Tadolini e Clorinda Corradi), ma anche all’estero e in particolar modo a Barcellona il 26 maggio 1827, a Parigi l’11 settembre 1827, a Lisbona nell’autunno del 1828, a Londra il 10 aprile 1832 e a Città del Messico nel mese di luglio del 1841, mentre a Graz (18 ottobre 1833) e a Budapest (31 luglio 1845) apparve in una versione tedesca curata da I. C. Kollmann. Alla Scala l’opera fu rappresentata per l’ultima volta nel 1835, con Maria Malibran nella parte di Romeo, in una versione rimaneggiata; fu, infatti, sostituita la cabaletta della cavatina di Romeo del primo atto (Guerra, bramata, insani) con una nuova composta sui versi scritti da Romani per il libretto dei Capuleti e Montecchi di Bellini (La tremenda, ultrice spada). Queste due opere, del resto, vissero un destino incrociato per tutto l’Ottocento, dal momento che il finale della Giulietta e Romeo di Vaccaj fu spesso utilizzato in sostituzione di quello di Bellini nei Capuleti. Fu proprio la Malibran, forse su consiglio di Rossini, a cantare, il 27 ottobre 1832, a Bologna in una ripresa dei Capuleti e Montecchi il Finale di Vaccaj a partire dal coro Addio per sempre, come testimoniato dagli spartiti dell’epoca pubblicati da Ricordi che lo riportano in appendice. Non è del tutto chiaro come in quell’occasione il soprano Sofia Schoberlchner (Giulietta) abbia acconsentito alla sostituzione dal momento che veniva penalizzata la sua parte molto più sviluppata nel Finale belliniano. È probabile che l’abbia accettata ritenendo il taglio compensato dalla splendida cavatina di Giulietta dell’atto primo (Ah! Quante volte Oh quante) la cui musica era stata tratta da Bellini dal suo giovanile Adelson e Salvini. Questa sostituzione, particolarmente apprezzata dal pubblico dell’epoca, fu adottata anche dalla celebre coppia Ernestina e Giuditta Grisi in una ripresa dei Capuleti al Regio di Torino nel 1835 e, nonostante la levata di scudi dello stesso Romani, fu abbastanza diffusa per tutto l’Ottocento.
Giulietta e Romeo fu il frutto di un momento particolarmente ispirato che stava vivendo il compositore entusiasmato dalla possibilità di avvalersi di un librettista come Felice Romani. L’entusiasmo di Vaccaj si tradusse sia nella scelta del soggetto da lui stesso suggerito a Romani sia nella velocità con la quale l’opera fu composta; si narra, infatti, che Vaccaj abbia composto la musica contemporaneamente alla stesura dei versi da parte del librettista che, per questa suo lavoro, non utilizzò direttamente il modello di Shakespeare, ma, secondo quanto ricordato in modo del tutto impreciso dalla moglie Emilia Branca:
“alla semplicità «della narrazione d’una pietosa istoria che in Verona al tempo del signor Bartolomeo Scala avvenne», Novella IX di Matteo Bandello (dalla quale Shakespeare medesimo trasse il soggetto) per isvolgere il suo componimento tutt’affatto italiano e adattarlo alla scena lirica” (Emilia Branca, Op. cit., p. 155).
In realtà Romani, come aveva fatto per altri libretti precedenti tra cui Rodrigo di Valenza, tratto dal Re Lear per la musica di Pietro Generali, e l’Amleto, messo in musica da Mercadante, molto probabilmente aveva utilizzato il rimaneggiamento della tragedia di Shakespeare, realizzato dal poeta e drammaturgo francese Jean-François Ducis il quale, in ossequio a la sévérité de nos règles et la délicatesse de nos spectateurs, aveva ridotto l’intreccio, relegando la manifestazione dell’amore tra Giulietta e Romeo nell’antefatto e facendo ruotare la vicenda sul contrasto fra questo amore e l’odio tra le due famiglie veronesi. Con grande intelligenza teatrale Romani, tuttavia, utilizzò, in modo limitato, come modello anche un libretto, molto più vicino all’originale di Shakespeare, scritto da Giuseppe Maria Foppa per un’opera di Zingarelli che aveva avuto grande successo e per le cui rimembranze in molti ancor vive, come si legge nell’Avvertimento. Il librettista, da parte sua, fuse, in questo libretto che poi avrebbe ulteriormente rimaneggiato per I Capuleti e i Montecchi di Bellini, i due modelli in modo estremamente originale, attingendo da Ducis l’idea di eliminare la scena del ballo e il conseguente innamoramento, presenti in Foppa, per iniziare con una scena d’ambiente nella quale Capellio rifiuta le proposte di pace di Romeo, mentre nel Finale del primo atto l’uccisione di Tebaldo, da parte di Romeo che in abito guelfo sventa il matrimonio di quest’ultimo con Giulietta, è spostata fuori scena contrariamente a quanto avviene nel libretto di Foppa dove è visibile agli spettatori. In questa scelta sembra trasparire il gusto alfieriano di Romani per lo scontro delle passioni piuttosto che per la rappresentazione dei fatti, mentre il secondo atto, aperto da un coro che informa il pubblico della morte di Tebaldo, appare più vicino al modello di Foppa. Estremamente originale è il Finale dell’opera nel quale Romani creò ex novo una scena, inserita dopo la morte di Romeo, nella quale Giulietta cerca la morte, utilizzando accenti alfieriani, per mano del padre prima di cadere esanime, distrutta dal dolore, sul corpo dell’amato.

Atto primo
Secondo quanto notato sempre dal giornalista della «Gazzetta di Milano», l’opera si apre con una specie di breve preludio, che tien luogo di sinfonia con cui viene introdotto il drammatico clima della vicenda nel quale l’amore sembra delinearsi nel già romantico squarcio lirico affidato ai legni che inizialmente si contrappongono agli inquietanti tremoli degli archi.  La scena si apre nella galleria del palazzo di Capellio dove i partigiani della famiglia veronese, in un coro giudicato dal giornalista della «Gazzetta» di assai bella fattura, grazie al quale il pubblico poté fin d’allora valutare la nobiltà dello stile e gli artifici della composizione per cui il maestro ottenne il primo plauso, esprime il timore che i Montecchi, ghibellini e storici rivali dei Capuleti, appartenenti alla fazione guelfa, stiano insorgendo per minacciare la libertà di Verona. Capellio ordina ad Adele, madre di Giulietta, di esporre le sue decisioni alla figlia che rifiuta il matrimonio combinato dal padre con Tebaldo, come si apprende dalle parole di Lorenzo (Mesta ed ognor languente) che non riescono a fare breccia nel cuore dell’uomo. La scena si conclude con un coro guerriero, anche questo di ottima fattura (Finché stille di sangue ne resta).

Nel successivo recitativo secco (O di Capellio generosi amici) Capellio informa i presenti che li ha convocati per informarli di aver ricevuto una richiesta di pace tramite un non ben identificato ambasciatore dei Montecchi; ciò suscita la fiera ira del coro che non vuole scendere a patti con i Montecchi. Questi non è altri se non Romeo, il quale, presentatosi sotto mentite spoglie, è riconosciuto solo da Lorenzo (Ciel! Che vedo? Romeo!); l’uomo nel successivo recitativo accompagnato si fa ambasciatore di una pace definitiva che sarebbe stata suggellata dal suo matrimonio con Giulietta. Nel cantabile della cavatina (Se Romeo t’uccise un figlio), la cui melodia dolce e piena d’effetto, come notato dal giornalista della «Gazzetta», non sfigura di fronte a quella, certamente meglio sviluppata e più accattivante, composta da Bellini per questo corrispondente passo, Romeo, dopo essersi giustificato per aver ucciso il figlio di Capellio affermando di averlo fatto in battaglia, si propone come nuovo figlio. La risposta negativa di Capellio, di Tebaldo e dei suoi partigiani produce la reazione sdegnata di Romeo, affidata alla fiera cabaletta La guerra bramata.
Nel successivo recitativo secco Romeo si informa con Lorenzo, l’unico ad averlo riconosciuto, sulle condizioni di Giulietta, prima che la scena si sposti negli appartamenti di quest’ultima dove un coro di ancelle, insieme con Adele, contempla, grazie a una melodia distesa che disegna un’oasi di serenità e apre a una scrittura già pienamente romantica, la fanciulla che in quel momento ha trovato un po’ di quiete nel sonno. Lorenzo, giunto subito dopo, prepara Giulietta, già sveglia, all’incontro con Romeo che non si fa attendere (tempo d’attacco del duetto: Mia Giulietta) suscitando la gioia della fanciulla. I due nello splendido cantabile (Ah! Quante volte Amor), caratterizzato da una delicata sognante melodia, si rinnovano le promesse d’amore aggiungendo, nel tempo di mezzo (Ma sia pur barbara), che la sola morte potrà dividere i loro destini. Nella brillante cabaletta (Vederti e stringerti) i due celebri amanti rinnovano ancora una volta le promesse d’amore, ma sono interrotti da Lorenzo che li avvisa del prossimo arrivo di Capellio il quale le chiede, nel tempo d’attacco del duetto (Parla, i timori acqueta), chi sia l’uomo che accende la sua fiamma nel cuore e, quando comprende che si tratta di Romeo, va su tutte le furie. In quel momento giunge Tebaldo che, con il suo intervento (Pien della dolce speme), trasforma il duetto in un terzetto, ritenuto dal già citato giornalista della «Gazzetta» una delle più belle ispirazioni dell’opera. Tebaldo, nel cantabile (Cara! Deh! Fa che splendere), dichiara il suo amore a Giulietta la quale, da parte sua, appare triste per la situazione in cui si trova, mentre Capellio giustifica lo scarso entusiasmo della fanciulla affermando che piange la morte del fratello secondo un cliché che ritroveremo nella Lucia di Lammermoor di Donizetti, dove la protagonista sarebbe mesta durante il matrimonio con Arturo perché piangerebbe la madre estinta. Nella cabaletta Ah! Se trovo in ogni core i tre personaggi esprimono diversi sentimenti: Giulietta sperimenta la crudeltà paterna, Capellio minaccia la figlia di eventuali ritorsioni, mentre Tabaldo capisce che il suo amore non è corrisposto perché il cuore di Giulietta è occupato da un forte sentimento per un’altra persona.
Nonostante l’opposizione di Giulietta, Capellio decide di celebrare il rito e ordina di invitare tutti gli amici e i parenti, come si apprende nel successivo recitativo secco; l’atrio del Palazzo si popola di Cavalieri e Dame che intonano un coro di giubilo per le prossime nozze. Romeo, in abito guelfo e mescolato tra gli invitati, è riconosciuto da Lorenzo al quale rivela che i ghibellini armati sono pronti ad intervenire, mentre un inno d’Imene, intonato dal coro, fa intendere che il rito è prossimo. Splendidi sono i commenti di Lorenzo e di Romeo che contrappuntisticamente si integrano con la serena melodia principale affidata al coro e interrotta da un gran tumulto che produce lo svuotamento della scena in cui rimane Giulietta da sola. La fanciulla, nel patetico cantabile (Tace il fragor), si dibatte tra due sentimenti opposti: la gioia per essere sfuggita al matrimonio e il terrore per Romeo della cui sorte non sa nulla. La paura per le sorti dell’amato viene subito fugata dall’arrivo di Romeo che vorrebbe fuggire con lei, ma è fermato da Capellio e da Tebaldo, accompagnati da armigeri. Giulietta con un eroico gesto fa da scudo all’amato generando la sorpresa del padre e degli astanti espressa nel concertato Soccorso, sostegno, di ottima fattura contrappuntistica e di intenso pathos. Nel tempo di mezzo (Accorriam… Romeo!), come da prassi nel Finale d’atto, si produce un nuovo colpo di scena con l’arrivo dei Montecchi in soccorso di Romeo che sfida a duello Tebaldo; il furore delle due fazioni si esprime nella concitata stretta (Esci; vanne. Io fremo, avvampo).
Atto secondo
Nel vestibolo del palazzo Adele e le ancelle commentano i recenti avvenimenti e apprendono dal coro dei Capuleti che Tebaldo è stato ucciso da Romeo, mentre Capellio, adirato con la figlia Giulietta, esprime, nel successivo recitativo secco, l’intenzione di punirla chiudendola in un chiostro. Lorenzo, rimasto solo con Giulietta, le propone nel recitativo del duetto (Ciel! Di tue stanze fuori) di bere un filtro che simuli la morte; la fanciulla sarebbe stata, quindi, sepolta tra le tombe della famiglia dove, come si apprende nel tempo d’attacco (Là riposa il mio germano), sarebbe stata liberata da Romeo avvertito da Lorenzo. Questa proposta fuga tutti i dubbi e le ansie della giovane (cantabile: Un crudel presentimento) che, nella brillante cabaletta (Lungi il timor dal core), si mostra risoluta nel perseguire il piano appena ordito.

Nel frattempo, come si apprende nel recitativo secco A che mai vieni, Capellio si mostra irremovibile nella sua decisione di chiudere Giulietta in un chiostro e non ascolta nemmeno le preghiere della moglie Adele, quando, accompagnato da un inquietante tremolo degli archi, un coro compiange la triste sorte di Giulietta morta poco prima. Capellio, prima smarrito e addolorato per la morte della figlia, prorompe in propositi di vendetta dai quali non è distolto da Lorenzo, mentre, assalito dal rimorso per essere stato la causa di quella morte con la sua fiera opposizione al matrimonio con Romeo (cantabile: Ah! Con qual nome, o misera), prega il Cielo affinché possa trovare conforto nel pianto (cabaletta: Giusto ciel).
Giulietta e Romeo Es. 1La scena si sposta nella tomba dei Capuleti dove un mesto coro in sol minore (Addio per sempre) introduce la parte più bella e intensa dell’intera partitura che subito presenta una delle sue pagine più interessanti già nel preludio in mi bemolle maggiore, che precede il recitativo di Romeo (È questo il loco!) e di cui è protagonista il corno che dà vita ad un a solo di vago sapore belliniano la cui melodia sarà ripresa nel finale alle parole di Romeo Vieni, cara (Es. 1). Romeo, dopo aver aperto l’avello che chiude le spoglie mortali di Giulietta della quale contempla il volto che non sembra per nulla toccato dalla morte, si rivolge alla fanciulla chiedendole di risvegliarsi nello splendido cantabile dell’aria (Ah! Se tu dormi, svegliati), (Es. 2) una volta popolarissima e il cui incipit ricorda quella di Elcia nel secondo atto del Mosè in Egitto di Rossini (Porgi la destra amata). Credendo morta Giulietta, Romeo si avvelena proprio un attimo prima che la fanciulla si svegli. Costei vorrebbe uccidersi, ma non trova né un pugnale né il veleno interamente consumato da Giulietta e Romeo Es. 2Romeo e, non reggendo alla morte dell’amato, cade svenuta sul corpo di Romeo.
Mentre Lorenzo, appena arrivato contempla il triste risultato del suo piano, giunge Capellio. Giulietta riavutasi, dopo aver chiesto al padre in una scrittura che rivela la chiara matrice alfieriana nel testo di Romani (Tu t’arrresti!… il ferro neghi!…), si precipita sul corpo di Romeo sul quale cade esamine provata dagli eventi, mentre Capellio è sopraffatto dal rimorso.