Sassari, Teatro Comunale: “Elisabetta, regina d’Inghilterra”

Teatro Comunale – Stagione Lirica 2015
“ELISABETTA REGINA D’INGHILTERRA”
Dramma per musica in due atti su libretto di Giovanni Schmidt.
Musica di Gioachino Rossini
Elisabetta SILVIA DALLA BENETTA
Leicester ALESSANDRO LIBERATORE
Matilde SANDRA PASTRANA
Enrico OLESYA BERMAN CHUPRINOVA
Norfolc DAVID ALEGRET
Guglielmo NESTOR LOSAN
Orchestra e Coro dell´Ente Concerti Marialisa de Carolis
Direttore Federico Ferri
Maestro del coro Antonio Costa
Regia Marco Spada
Scene Mauro Tinti
Costumi Maria Filippi
Disegno luci Fabio Rossi
Nuovo allestimento dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Sassari, 9 ottobre 2015
La rossiniana Elisabetta Regina d’Inghilterra e una brutta serata di pioggia hanno battezzato l’apertura della 72esima stagione lirica sassarese nel nuovo Teatro Comunale. L’Ente Concerti de Carolis organizzatore della stagione, pur nell’attuale clima di stretta economica, è riuscito quest’anno nell’impresa di ottenere un notevole aumento del proprio contributo regionale (sciaguratamente a danno di tutti gli altri operatori musicali del territorio), inaugurando un cartellone ricco di titoloni ma che ha rinunciato anche ai labili tentativi degli ultimi anni di costruire un’idea coerente tra le opere in programma. Dopo l’apertura sarà infatti la volta di Don Giovanni, che concluderà la trilogia italiana di Mozart programmata negli ultimi anni e di un’attesissima Aida, realizzata finalmente in una situazione logistica praticabile rispetto all’unico precedente del vecchio Teatro Verdi. Tra la seconda e terza opera, grazie alle modifiche regolamentari per l’accesso ai contributi ministeriali, ecco comparire la pubblicizzata “novità” del balletto, in realtà già regolarmente programmato in passato. Purtroppo la vera novità è che Lo Schiaccianoci di Tchajkovskij, realizzato dal Balletto di Roma, sarà messo in scena con le basi registrate, scelta quanto mai discutibile da parte di un Ente che non manca mai di sottolineare il possesso di una propria orchestra. È evidente che l’opinabile scelta di consentire nella realizzazione dei balletti l’utilizzo dei supporti registrati vada letta soprattutto in direzione di una diffusione della danza contemporanea che purtroppo ha in sostanza smesso da tempo di commissionare partiture acustiche. Ma la messa in scena con le basi registrate dello Schiaccianoci, partitura la cui suite orchestrale fa parte del grande repertorio, grida vendetta e testimonia evidentemente la considerazione di cui gode in questo momento la realizzazione musicale rispetto alla messa in scena. Terminerà la stagione la Nona Sinfonia di Beethoven che in pratica sostituisce il tentativo negli ultimi anni di imbastire una stagione sinfonica parallela a quella lirica.
L’Elisabetta di apertura è quindi sicuramente il titolo più debole del cartellone, almeno per il grande pubblico, e l’impressione generale è che l’allestimento sassarese abbia inoltre complessivamente sottovalutato le improbe difficoltà stilistiche ed esecutive della partitura. L’opera in se non è un capolavoro: la drammaturgia inverosimile della vicenda è anche ulteriormente raffreddata dalla convenzionale versificazione di Giovanni Schmidt e dalle consuetudini consolidate del Teatro San Carlo di Napoli che ospitò, il 4 ottobre 1815, la prima assoluta. Non mancano però i motivi d’interesse dal punto di vista musicale e formale: la riorganizzazione dei vari autoimprestiti, l’insolita distribuzione nei ruoli vocali, la condensazione scenica al di fuori dei numeri tradizionali e gli straordinari esperimenti orchestrali, ben testimoniano la volontà del giovane compositore di adattare la propria scrittura alle possibilità di una compagnia e di un’orchestra, all’epoca, di assoluto riferimento.
Adesso il teatro belcantistico, costruito sulle lussureggianti colorature vocali e con una concezione drammaturgica antirealistica, si scontra inevitabilmente su una sensibilità del pubblico praticamente opposta e filtrata attraverso la grande epopea del melodramma italiano: che senso ha quindi oggi riproporre un’opera del genere? Probabilmente la riscoperta di un capolavoro ingiustamente dimenticato o la disponibilità di solisti spettacolari capaci di dominare l’impervia scrittura vocale, ovviamente con il doveroso bagaglio della moderna filologia esecutiva. Purtroppo nessuna delle due condizioni è stata soddisfatta nella prima sassarese e il risultato complessivo è stato assai deludente.
Il cast vocale nel complesso non era adeguato al ruolo, ma alla lettera, cioè pur essendo composto da buoni o ottimi professionisti non è apparso adatto nella specifica circostanza. Con varie differenze. Per esempio Silvia Dalla Benetta, nel ruolo del titolo, sfoggia un bel colore drammatico e anche agilità precise e facili in ogni zona del registro. Tende a prediligere una coloratura di forza, forse più adatta a un altro repertorio, ma comunque sicuramente funzionale a dare vigore e caratura drammatica al personaggio. È inevitabile però notare la differenza tra la bella entrata iniziale e il finale ultimo dove la stanchezza vocale la porta anche a non centrare perfettamente l’intonazione di alcuni acuti. Comunque nel complesso una prestazione positiva, specialmente per le deliziose mezze voci nel cantabile, l’ottimo legato e per una presenza scenica che ha dato spessore e rilievo all’unico personaggio sfaccettato dell’opera. Anche Alessandro Liberatore canta bene, ha bei mezzi vocali e mostra una buona coloratura, ma nel ruolo dell’eroe nobile Leicester appare talvolta in difficoltà: la parte, scritta per Andrea Nozzari, è da tipico baritenore dell’epoca, un tenore di tessitura grave che eseguiva gli acuti di testa o in falsettone, prima che la caratterizzazione romantica distinguesse il baritono e il tenore come li conosciamo adesso. Nella notevole estensione richiesta dalla parte un tenore moderno non può che essere a mal partito e nell’ambito della coperta troppo corta sono in questo caso le note gravi a soffrire, opache e mancanti ovviamente dell’accentuazione drammatica richiesta spesso dal testo. David Alegret, tenore acuto nel virtuosistico ruolo di Norfolc, (creato dal grande Manuel Garcìa) è sembrato l’unico interprete autenticamente rossiniano della compagnia: colorature precise e intonate, uguaglianza in ogni zona del registro, facilità negli acuti, utilizzati a fine espressivo nel fraseggio. Penalizzato però da un timbro non gradevolissimo, si è trovato spesso anche sommerso da una concertazione poco curata a causa di uno scarso volume vocale, almeno negli spazi del Comunale e nel confronto con i compagni di palcoscenico.  Da segnalare a questo punto una piccola chicca: l’interprete di Norfolc nella prima storica registrazione dell’Elisabetta (tra l’altro realizzata come omaggio italiano nel 1953 all’allora appena incoronata Elisabetta II) fu il sardo Antonio Pirino, tenore proprio di Sassari, classe 1919, oggi dimenticato ma che all’epoca, grazie a un’estrema facilità nei sovracuti, seppe ritagliarsi una parte nei ruoli allora fuori portata per i tenori dell’epoca (i Puritani per tutti), anche in contesti e con direttori di assoluto prestigio.  Bello invece il timbro del soprano Sandra Pastrana che ha dato voce e discreti accenti patetici al personaggio di Matilde: peccato per l’evidente difficoltà a tener fermi gli acuti, dal vibrato eccessivamente largo, e talvolta non impeccabili nell’intonazione. Olesya Berman Chuprinova ha svolto correttamente la parte “en travesti” di Enrico e Néstor Losàn, Guglielmo, mostra un bel timbro e una discreta presenza ma anche un vibrato largo nei centri che, data la giovane età, può e deve assolutamente correggere in vista di una futura carriera.
Il cast non era assemblato al meglio, ma va detto, a scusante di tutto e tutti, che non è stato certamente facilitato dalla direzione: Federico Ferri sin dalla celebre ouverture iniziale ha mostrato qualche idea interessante sul piano agogico, specie in certe insolite “nuances” cadenzali, ma altrettanta incapacità di tradurre in maniera netta e incisiva sul piano ritmico il proprio pensiero. Se i battere sono per aria, se le ripartenze dell’orchestra sono spesso imprecise, se gli attacchi del coro sono sporchi, se s’innescano continuamente nei concertati controtempi non previsti dall’autore, se gli sfasamenti ritmici diventano la regola, la colpa può essere solo del direttore. Con cinquanta persone in buca e cinquanta sul palcoscenico il gesto deve essere preciso, gli attacchi netti e bisogna ricorrere alla suddivisione ogni volta che sia necessario. Il cercare campate larghe col gesto può essere funzionale e anche doveroso con piccoli ensemble: ma in fondo a un palcoscenico non si capisce assolutamente nulla con un gesto così vago e indeciso. Il risultato è ovvio: aldilà delle continue imprecisioni i tempi erano slargati, più per la mancanza di un’incisività ritmica che per un fatto puramente metronomico, e la preoccupazione di portare la pelle a casa ha in generale depauperato il fattore espressivo. Oltretutto mancava una concertazione dinamica e nel fraseggio tra buca e palcoscenico: tutti gli innumerevoli preziosismi dell’orchestra sembravano passare nell’indifferenza oppure emergere grazie alla musicalità individuale del singolo musicista. Come esempio per tutti sarebbero da citare i recitativi obbligati con gli archi (all’epoca al San Carlo preferiti a quelli secchi realizzati solo col cembalo): se non si vuole incorrere nella monotonia dovuta alla minore agilità, devono essere assolutamente eseguiti con le opportune dinamiche e sottolineature per rafforzare il valore del testo. Se passano piatti e banali qualunque cosa succeda sul palcoscenico quale può essere il risultato? Un vero peccato perché l’orchestrazione è sicuramente la parte musicalmente più interessante dell’opera. La concertazione è sembrata più a suo agio nelle miniature strumentali, come nell’originale finale del primo atto, con l’interessante lavoro dei corni soli (un plauso all’ottima realizzazione del quartetto in orchestra) o nell’incredibile doppio duetto nel secondo atto tra i due flauti piccoli e i due corni inglesi. Gli strumentini comunque, ancora più del solito in Rossini, hanno ben risposto alla scrittura raffinata: una citazione la merita sicuramente anche il gran lavoro del primo clarinetto, spesso utilizzato in funzione concertante.
Il coro, preparato da Antonio Costa, nel complesso ha una prestazione positiva, ma ovviamente non esce indenne dal barcollante insieme buca e palcoscenico. Ottimo l’inizio con le mezze voci nel bel coro maschile del secondo atto, ma non si capisce la necessità negli uomini, specialmente in questo repertorio, di un artificioso scurimento della voce che ha il solo risultato d’ingolare i suoni e rendere sbiancati e incerti gli acuti di testa nei salti ascendenti, come per esempio nel coro iniziale.
Che dire infine del nuovo allestimento scenico dell’opera? Marco Spada, direttore artistico dell’Ente Concerti, si cimenta ancora una volta nella regia con il risultato di congelare ulteriormente, se fosse possibile, la già barcollante macchina teatrale. Il primo problema è la scelta tra una rappresentazione simbolica, più fedele all’originale concezione di teatro vocale o la trasposizione in chiave naturalistica cui siamo più abituati. La questione è fondamentale in questo repertorio e la mancanza di una scelta netta e coerente è stata subito evidente nell’allestimento sassarese. La scena viene trasportata apparentemente ai giorni nostri, in una Londra moderna e con il facile apparentamento tra l’Elisabetta del titolo e l’attuale sovrana della Gran Bretagna. Intorno un guazzabuglio di luoghi comuni “old England”: le guardie reali e la Magna Charta, Il Penny Black e gli operatori in bombetta della City, ma anche i giovani punk e l’improbabile vestiario di corte. La carnevalata potrebbe anche avere un suo senso nel rappresentare il variegato popolo inglese: ma la mancanza di precise e coerenti scelte registiche finisce subito per ingenerare stanchezza più che perplessità. È perfettamente inutile far costruire un essenziale e funzionale impianto scenico con praticabili spostati a vista e pannelli vagamente ispirati alla pop art (interessante sia dal punto di vista grafico che costruttivo la semplice scenografia di Mauro Tinti illuminata con la consueta professionalità da Fabio Rossi) se poi è animato, si fa per dire, dalle figurine sperdute di un presepe. Ecco quindi comparire un po’ di tutto e il suo contrario: dalle generiche convenzioni gestuali melodrammatiche (che fanno a pugni ovviamente con l’ambientazione e con i pur bei costumi di Maria Filippi) alla staticità da “tableau vivant”, dagli studiati e lenti movimenti di massa ai soliti parlottamenti e ammiccamenti pseudo naturalistici. Appaiono mal realizzate anche le pochissime scene dinamiche. Pur comprendendo le inevitabili incongruenze del testo, non si può non rilevare la goffaggine dell’aggressione alla regina nel finale, per non parlare della scena collettiva del trionfo nel primo atto: difficile un risultato più triste e raggelante.  Lo scarso e annoiatissimo pubblico ha applaudito con un certo trasporto solo la protagonista ed è stato decisamente freddo con la regia: aveva soprattutto voglia di scappare a casa.