“Simon Boccanegra” al Teatro Verdi di Pisa

Teatro “Giuseppe Verdi” – Stagione 2015/16
“SIMON BOCCANEGRA”
Melodramma in un prologo e tre atti su libretto di Francesco Maria Piave con aggiunte e modifiche di Arrigo Boito dal dramma Simón Bocanegra di Antonio García Gutierrez
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra  ELIA FABBIAN
Jacopo Fiesco  ROBERTO SCANDIUZZI
Paolo Albiani  GABRIELE RIBIS
Pietro  SINAN YAN
Maria Boccanegra  VALERIA SEPE
Gabriele Adorno  LEONARDO CAIMI
Un capitano dei balestrieri  VLADIMIR REUTOV
Orchestra della Toscana
CLT Coro Lirico Toscano
Direttore  Ivo Lipanović
Maestro del Coro  Marco Bargagna
Regia Lorenzo Maria Mucci
Scene  Emanuele Sinisi
Costumi  Massimo Poli
Disegno Luci  Michele Della Mea
Nuovo allestimento del Teatro Verdi di Pisa
Coproduzione Teatro Verdi di Pisa, Teatro del Giglio di Lucca, Teatro Goldoni di Livorno, Teatro Sociale di Rovigo
Pisa, 10 ottobre 2015

Come è prassi comune nelle serate inaugurali della stagione, la rappresentazione dell’opera è stata preceduta da un breve discorso di alcune autorità locali, in questo caso rappresentate da Marco Filippeschi, sindaco della città, Marcello Lippi, direttore artistico della Fondazione Teatro Verdi di Pisa, e Giuseppe Toscano, il Presidente della stessa, che ha illustrato come il Teatro Verdi sia una delle poche realtà nel panorama lirico italiano ad aver terminato la scorsa stagione con un bilancio in attivo (e commentando non senza ironia come il FUS abbia premiato tale comportamento virtuoso rifiutando di elargire i 95.000 euro promessi) pur aumentando al contempo il numero delle produzioni offerte. Inoltre sono ormai diversi anni che il Teatro Verdi non si limita a proporre le solite opere del grande repertorio; la stagione appena iniziata per esempio, oltre a titoli di sicuro richiamo come Aida e La vedova allegra, offre un nuovo allestimento del Mefistofele di Boito, opera conosciuta ma ai tempi nostri divenuta quasi una rarità sui palcoscenici e sicuramente non fra le più facili da mettere in scena, e continuando il benemerito ciclo di lavori musicali ispirati al mito di Don Giovanni, costituiti per lo più da opere in prima esecuzione in epoca moderna. A Pisa persino l’opera contemporanea registra il tutto esaurito. Fra l’altro non si può neanche affermare che il titolo scelto per l’inaugurazione, Simon Boccanegra, sia di tale richiamo da attirare automaticamente le masse a teatro.  Nonostante la rivalutazione degli ultimi decenni, rimane un’opera abbastanza ostica anche per gran parte degli appassionati. Tale dovizia di proposte ovviamente implica un budget distribuito più o meno equamente fra i vari progetti con consequente assenza di produzioni visivamente opulente; è comunque ben noto che spesso e volentieri l’esiguità dei mezzi aguzza l’ingegno e porta a risultati di notevole entità, come è avvenuto appunto, nel caso di questo Simon Boccanegra, un allestimento di Lorenzo Maria Mucci, regista formatosi artisticamente a Pisa e a cui, dopo alcuni progetti coronati da successo (la prima mondiale di Falcone e Borsellino di Antonio Fortunato, il Convitato di pietra di Dargomyžskij) ma sicuramente scenicamente meno impegnativi, viene dato l’onere e l’onore di inaugurare la stagione con un’opera piuttosto difficile, definita da Giorgio Strehler una delle sfide più improbe della propria carriera, un’opera, per usare le sue parole, dalla  “nebulosità prospettica”. Mucci e i suoi collaboratori, lo scenografo Emanuele Sinisi e il costumista Massimo Poli, hanno creato un allestimento inevitabilmente essenziale, dominato da angoli di varie aperture e dimensioni, che, grazie anche al sapiente uso delle luci di Michele Della Mea, creano misteriosi coni d’ombra, rifugi naturali quanto mai adatti in un’opera in cui i personaggi si mascherano, letteralmente e figurativamente; un allestimento semplice, sobrio ed elegante, con una regia che ha fatto di tutto per rendere il più comprensibile possibile una trama inenarrabile, convoluta già nella prima versione del 1857 e resa ancor più fumosa dalla sublime aggiunta della scena del consiglio della revisione finale del 1881.
La parte musicale è stata affidata alle cure del direttore croato Ivo Lipanović, che, alla guida dell’Orchestra della Toscana, è parso preoccuparsi principalmente di assicurare la continuità della linea ispirativa fondamentale, sottolineandone i tratti fondamentali; è stata una direzione un po’ spicciativa, dritta allo scopo, senza preoccuparsi troppo dei particolari, con un eccesso di primi piani, che le hanno conferito violenza piuttosto che potenza nelle scene più drammatiche, e con una certa meccanica uniformità di toni e di accenti; aveva però il senso del colore del suono e ha saputo dare rilievo e presenza alle numerose occasioni che offre lo strumentale. Tempi più fluidi e plastici, sarebbero stati benaccetti per esempio nella sublime coda dell’aria di Fiesco, che oserei definirei pregna di un’atmosfera mahleriana ante litteram, e soprattutto nell’unica vera oasi di luce dell’opera, il duetto d’agnizione, condotto sbrigativamente (la seconda parte sarà anche una cabaletta, ma è pur sempre un allegro giusto) e senza dar respiro all’estatica esclamazione “Figlia!” È pur vero che in certi momenti è indispensabile la cooperazione del cantante, in questo caso Elia Fabbian, baritono dai mezzi imponenti ma non usati con il massimo della raffinatezza.  In un personaggio scisso fra pubblico e privato, Fabbian è risultato più convincente nei panni del capo politico, e in particolare nella scena della maledizione, mentre il Boccanegra padre, lirico, amorevole e dolente lo ha spesso trovato a disagio per una certa difficoltà a smorzare il suono e a cantare a fior di labbra, tentativi che comportavano spesso anche lievi cedimenti di intonazione nel registro acuto. Il timbro è innegabilmente baritonale, anzi da vero baritono di forza (e già questo è molto considerati tutti i tenori corti che si cimentano nel repertorio baritonale verdiano), ma non si addice del tutto al personaggio, che ne risulta come irrigidito, fatto ruvido e violento, senza risolversi in espressioni compiute di sentimenti, assai più appropriato (come già accennato) quando obbedisce alla semplicità della propria natura che quando cerca, attraverso la retorica e l’enfasi, accentuazioni e sottolineature che risultano un po’ false e sforzate.  Per la cronaca, Fabbian, originariamente in programma solo per la pomeridiana di domenica 11 ottobre, ha acconsentito a cantare anche la recita precedente (oggetto di questa recensione), sostituendo il previsto Stefano Antonucci, che ha dovuto annullare in seguito a una frattura a un piede durante le ultime prove. È stato un enorme sollievo ritrovare Roberto Scandiuzzi in buona forma: l’ultima volta che lo avevo ascoltato, tre anni fa in un’Anna Bolena fiorentina, era parso in condizioni vocali di grave declino.  Scandiuzzi è stato per oltre un ventennio uno dei bassi più importanti della sua generazione, uno dei pochissimi dotati di voce da basso autentico, in un’epoca dominata da bassi-baritoni. Sarebbe ingannevole affermare che la voce di Scandiuzzi sia ancora quella con cui ha conquistato i palcoscenici internazionali alla fine degli anni ’80, ma resta il fatto che in questa recita, alle prese con un ruolo da basso profondo (Fiesco è l’unico personaggio nel canone verdiano descritto con il curioso appellativo di “primo basso profondo assoluto”), ha saputo abilmente distrarci da certe sbiancature in acuto per impressionarci con l’autorevolezza e il bel colore del registro medio-grave.  Il suo è un Fiesco cupo, notturno, dalla potenza tenebrosa, ma in grado di trovare accenti sinceramente accorati nello struggente duetto con Simone morente. Negli ultimi anni mi sono trovato spesso a dover sottolineare il significativo apporto di Valeria Sepe ai ruoli secondari cui era sempre relegata, chiosando la recensione con l’augurio di ascoltarla in parti principali, desiderio finalmente avveratosi. La prova offerta nel ruolo di Maria Boccanegra ha evidenziato che, pur presentando dei limiti, il soprano napoletano è pronto per la ribalta.  Il limite più evidente è l’immaturità dell’interpretazione, che manca di profondità, di continuità: il personaggio resta nei limiti convenzionali di una fanciulla tenera e malinconica. Verdi definiva Maria Boccanegra una “monachella”, è vero, però, pur non essendo fra le sue creazioni femminili psicologicamente più scolpite, che si tratti di una donna che compie pur sempre un proprio percorso.  Da un punto di vista strettamente vocale la Sepe, sebbene non abbia un timbro immediatamente discernibile, ha dimostrato di possedere una buona fonazione, che le permette una bella emissione, un canto a fior di labbra (ad esempio “Orfanella il tetto umile” contraddistinto dal un bel legato e fiati lunghi), un buon registro acuto compatto e squillante con cui ha dominato il concertato della scena del consiglio, con tanto di trillo accettabile, e due do acuti sicuri nel terzetto del secondo atto. Leonardo Caimi (Gabriele Adorno) possiede un timbro da tenore lirico puro, bello, virile e schietto, tipicamente italiano, corredato purtroppo da un bagaglio tecnico non proprio coltivato, che a partire da un passaggio di registro non risolto, produce in alto suoni spinti da sotto, potenti ma fibrosi. I carteggi verdiani dimostrano che durante la composizione dell’opera l’assillo principale del compositore era il timore che il Teatro La Fenice non riuscisse ad ingaggiare un baritono comprimario all’altezza della difficoltà del ruolo di Paolo Albiani, personaggio che ha acquistato prominenza ancora maggiore nella revisione finale, in cui è divenuto in pratica un bozzetto per lo studio di Iago. In poche parole, un Paolo Albiani deve esser un baritono in grado di affrontare anche la parte del protagonista, e qui a Pisa Gabriele Ribis non si è rivelato all’altezza della situazione, complici un timbro opaco, scarsamente proiettato, e un’interpretazione anonima. Completavano il cast Sinan Yan, un Pietro senza infamia e senza lode, e Vladimir Reutov nei panni del Capitano dei Balestrieri. Davvero ottimo il CLT Coro Lirico della Toscana, diretto da Marco Bargagna, con una sezione sopranile particolarmente valida: di grande effetto l’irruzione nella scena del consiglio con gli energici si naturali dei soprani, e i soffocati “sia maledetto!”. Foto Massimo D’Amato, Firenze