Pisa, Teatro Verdi: “Il convitato di pietra”

Teatro Verdi – Stagione Lirica 2015/2016
Ciclo “Una Gigantesca Follia” – Dongiovanni Festival
“IL CONVITATO DI PIETRA”
Farsa in sue atti di Giovanni Battista Lorenzi
Musica di Giacomo Tritto
Revisione sull’autografo a cura di Roberto De Simone
Don Giovanni  VLADIMIR REUTOV
Donna Anna  NATALIZIA CARONE
Il Commendatore  PIOTR WOLOSZ
Il Marchese Dorasquez  JAVIER LANDETE
La Duchessa Isabella  ELISABETTA FARRIS
Lesbina  GELSOMINA TROIANO
Pulcinella  DANIELE PISCOPO
Bastiano  MARCO INNAMORATI
Chiarella  VALENTINA IANNONE
Orchestra Arché
Direttore  Carlo Ipata
Maestro al cembalo Eugenio Milazzo
Regia  Renato Bonajuto
Coordinamento scenografico  Giacomo Callari e Enrico Spizzichino
Disegno luci  Michele Della Mea
Produzione del Teatro di Pisa
Pisa, 14 novembre 2015

Compositore fra i più longevi (1733 – 1824), l’altamurano Giacomo Tritto, oltre a numerose cantate e ad una considerevole quantità di musica sacra e strumentale, sfornò una sessantina di opere liriche, di cui Il convitato di pietra (Teatro dei Fiorentini, Napoli,1783) è soltanto l’undicesima. Infatti, nonostante avesse composto la prima opera Le nozze contraste nel 1754, fu soltanto dopo la quarta, Il principe riconosciuto, nel 1780 che prese avvio una carriera che non si svolse esattamente nel modo in cui il compositore avrebbe voluto. Il chiodo fisso di Tritto era difatti quello di affermarsi come autore di opere serie, desiderio in parte esaudito soltanto nell’ultima parte della carriera, in cui, benché anzianissimo, continuò a produrre opere dai soggetti ormai obsoleti quali Cesare in Egitto, Andromaca e Pirro e l’ultima, Albino in Siria, messa in scena nel 1810 al Teatro San Carlo di Napoli praticamente alla vigilia della rivoluzione rossiniana. Suo malgrado, il compositore (che oltre ad esser produttore seriale di opere lo fu anche di figli, ben diciotto!), è rimasto nella storia, o meglio ai margini di essa, grazie ad un piccolo numero di farse, di cui Il convitato di pietra è la più citata, e quasi sempre come una delle tante precorritrici del capolavoro mozartiano. Ad ascolto avvenuto, credo di poter affermare che, se quest’opera presenta indubbi spunti di interesse per lo spettatore moderno, lo deve più al libretto di Giovanni Battista Lorenzi che alla musica stessa. Nel paragonare le varie opere “dongiovannesche” uno degli esercizi più intriganti è quello di scoprire quale sia il rapporto di forza tra i vari personaggi; Da Ponte e Mozart per esempio fanno di Donn’Anna la primadonna seria (ricordiamo che nella prima versione Elvira non aveva ancora la grande aria del secondo atto) e le affidano due grandi arie, mentre Bertati e Gazzaniga la liquidano in poche battute, e tutto sommato anche Lorenzi e Tritto la relegano sullo sfondo. Fra i personaggi femminili quello che riveste maggiore importanza e che ha l’aria più incantevole è quello della contadina, qui chiamata Lesbina.  La predominanza del personaggio buffo e popolano è ancor più marcata sul versante maschile, in cui il servo di Don Giovanni la fa da padrone, in più di un senso. Questo non è altri che la maschera napoletana più celebre della storia, Pulcinella, ed è appunto il suo ruolo di protagonista assoluto che dà all’opera il suo carattere di salace e pungente satira, sottraendo importanza al racconto morale di supremo egoismo, tradimento, ammonizione e punizione divina.  Lo scopo del Convitato di pietra era infatti quello di offrire una visione dell’Illuminismo napoletano, ed è attraverso l’autenticità della maschera di Pulcinella (che si esprime esclusivamente in dialetto) che i messaggi dell’opera potevano raggiungere gli spettatori dell’epoca.  Pulcinella poteva parlare con autorità delle condizioni sociali di allora: nessuno più di lui, in quanto rappresentante supremo dei ceti bassi, era vittima delle stratificate gerarchie sociali napoletane. Eppure questo Pulcinella sa riconoscere i propri limiti e persino confermare le malefatte di Don Giovanni non perché vi sia costretto con la forza, ma in quanto spinto da un obbligo morale; capisce benissimo le forze sociali che lo osteggiano, e esprime il proprio onore e la propria concretezza non con i soliti lazzi volgarotti ma con fatti e parole. Per esempio dice a Bastiano di non volere più sposare la di lui figlia Lesbina fuggita con Don Giovanni, perché quando ritorna sarà ormai “roba vecchia”; quando Bastiano e Lesbina credono ormai di far parte della nobiltà e noleggiano abiti “da signori”, dopo aver cercato invano di riportarli alla ragione, li deride chiamandoli con nomi di comuni ortaggi. In pratica i suoi insulti ritraggono i due “arrampicatori sociali” come merce che può esser comprata e venduta da aristocratici come Don Giovanni, mettendo a nudo il loro egoismo, e non quello del “dissoluto”, qui figura scialba invero. Queste qualità accentuano la concezione di Lorenzi dell’opera nella tradizione della locale commedia per musica, nota per servire da megafono alla critica sociale. A nostro parere a questo aspetto sovversivo non veniva dato il giusto rilievo in questo allestimento di Renato Bonajuto, che ha puntato su una lettura più “comoda” e meno stratificata, offrendo in ogni caso un prodotto godibilissimo, divertente, elegante, garbato, sciolto, ottimamente recitato, con alcuni effetti speciali prodigiosi se si considerano gli scarsi mezzi a disposizione, e quindi a conti fatti pienamente riuscito. Molto belli i costumi e più che soddisfacente il coordinamento scenografico, ossia la scelta delle scene e suppellettili già utilizzati in altre produzioni, a cura di Giacomo Callari ed Enrico Spizzichino, e suggestivo come sempre il disegno luci di Michele Della Mea. Il cast molto affiatato ha assecondato alla perfezione il regista, dando l’impressione che la recita fosse frutto di lunghi periodi di prove, ed anche vocalmente era diversi gradini al di sopra di quello del Giovanni Tenorio di Gazzaniga della settimana scorsa. Una parte sillabata come quella di Pulcinella può indurre l’interprete nella tentazione di scadere nel parlato, trappola fortunatamente evitata dal baritono Daniele Piscopo che è riuscito a mantenere un suono costantemente rotondo, e al tempo stesso dare una grande prova di attore comico, di autentico mattatore.  Vladimir Reutov, tenore lirico-leggero russo dal timbro molto chiaro, ben proiettato e dotato di un piacevole “vibratino”, si è distinto in un ruolo che, musicalmente scialbo e privo di momenti in cui poter brillare, correva il rischio di passare quasi inosservato: Bonajuto ha sfruttato l’eleganza, la grazia e soprattutto l’atletico fisico da danzatore classico del tenore mostrandolo in diversi gradi di “svestimento”, fino alla scena finale dell’apparizione di Don Giovanni dannato all’inferno in cui non molto era lasciato all’immaginazione.  Ha saputo indubbiamente ritagliarsi un un proprio spazio personale Gelsomina Troiano, Lesbina dalla travolgente padronanza scenica, cui comunque gioverebbe una maggiore compattezza del suono nel registro acuto, che comunque era qui scarsamente sollecitato. Marco Innamorati, classico basso buffo, è riuscito nella non facile impresa di non rimanere nell’ombra di Pulcinella grazie ad un suono più scuro e corposo. Natalizia Carone ha messo in luce un bel timbro penetrante che sappiamo da precedenti esperienze esser accompagnato da buona tecnica e da una notevole estensione che qui non ha potuto sfoggiare; sia lei che Elisabetta Farris, Duchessa Isabella di gran temperamento, timbro squillante persino un po’ troppo abbagliante e anche aggressivo, potrebbero beneficiare di una migliore dizione, di cruciale importanza in opere come queste incentrate sui recitativi secchi. Completavano onorevolmente il cast Piotr Wolosz, un Commendatore cui quest’opera riserva pochissimo spazio, il soprano Valentina Iannone nelle vesti di Chiarella, servetta di Donna Anna, e il baritono Javier Landete in quelli del Marchese Dorasquez,il Ministro di Giustizia cui si rivolgono tutti i personaggi per denunciare le malefatte di Don Giovanni. Carlo Ipata, alla guida dell’Orchestra Arché, ha dato prova ulteriore di grande e intima familiarità con l’idioma dell’opera sei-settecentesca dirigendo con una felicità ritmica, una scioltezza e un vigore eccellenti, di pari passo con l’eleganza e la precisione, innalzando così ben oltre i suoi meriti intrinseci un’opera dalla musica scarsamente memorabile. Foto Massimo D’Amato