Intervista al tenore Marcello Nardis

Incontro Marcello Nardis in una giornata d’ inverno e subito appare ai miei occhi come un moderno gentiluomo, rivelando sotto la foltissima chioma, uno sguardo e un sorriso che confermano una personalità fatta non solo da una grande formazione culturale, ma da una brillante ed ironica intelligenza. Laureato con il massimo dei voti in Greco Antico, in Archeologia cristiana e in Pedagogia musicale presso l’università di Roma La Sapienza e L’Alma Mater Studiorum di Bologna, conseguendo precedentemente i diplomi in pianoforte, canto e musica vocale da camera nei conservatori di Roma, Napoli e Firenze. Ha completato i suoi studi alla Liszt Hochschule di Weimar con Peter Schreier ed al Mozarteum di Salisburgo con Kurt Widmer. Presente in molti palcoscenici operistici, svolge un’importante attività nell’ambito della musica vocale da camera, eseguendo più di 90 volte il ciclo Schubertiano del Winterraise anche nella doppia veste, simultaneamente, di pianista e cantante.
Il Lied è l’essenza dell’anima tedesca. Quando ci si abbandona alla seduzione di  un testo, quando nel canto ti fondi nell’incanto: come traduci le tue emozioni al pubblico?
L’unico modo per abbandonarsi alle emozioni nel canto è possedere un perfetto controllo dei suoi aspetti tecnici. La vera ispirazione artistica, quella che distingue l’esecutore dall’interprete, comincia quando la dimensione performativa  si è affrancata  da ogni difficoltà. Una sintesi di introspezione analitica ed evocazione pittorica, questo significa ‘tradurre’ il Lied, restituendo all’ ascolto un organismo musicale vitalissimo, totale e perfettamente coeso al suo interno.
Parliamo dell’universo schubertiano. Quali sono gli elementi fondamentali capaci di sedurre chi per la prima volta ascolta questo repertorio e che lo possano indurre a proseguire nel “viaggio”?
Uno degli elementi fondamentali per comprendere la grandezza dei Lieder di Schubert  è costituito dalla magnifica coincidenza dei simboli musicali e poetici. Un linguaggio comune in cui la poesia influenza la musica e la musica stessa infonde vitalità alla parola poetica.  Un ciclo come la Winterreise, per voler rimanere strettamente all’archetipo del viaggio, seduce ed appassiona proprio in ragione del tema: è  un percorso di elaborazione di un abbandono, di un lutto emotivo, utilissimo anche per l’uomo di oggi, che non conosce più le parole dell’addio. Una eziologia musicale del trapasso. Il distacco implica sempre una sequenza di stati d’animo diversi; in questo caso si tratta di un percorso per molti aspetti psicotico, ove si alternano realtà vissuta e proiezione. Un senso di ‘nostalgia dell’ essere’ diventa il suono (vocale e pianistico) dei 24 Lieder, tra ferite e reminiscenze ossessive, fino alla fine, fino al termine ultimo della vita.  La morte e la partenza si rassomigliano:  entrambe sono causa di separazione ed è questo il motivo per cui spesso l’una è utilizzata come metafora dell’ altra. Il tema del viaggio ha affascinato da sempre le culture: Gilgamesh, Osiride. Ma anche Odisseo, Giasone e Teseo. Lo stesso Don Chisciotte e il fugitivus errans di cui parla Nietzsche: sono tutte figure connesse al mito dell’ individualità. La fortissima connotazione ‘maschile’ della mobilità è un aspetto cui sto elaborando alcune riflessioni. Schubert con la Winterreise (amplificando l’esperienza depressiva rappresentata dalla Schöne Müllerin) offre l’invito a guardare dall’interno il panorama di un’anima, attraverso la dimensione eterna dell’ itinerario che si svolge dentro il proprio personale inverno; l’inverno della perdita dell’amore  che non ha colore, che non trova redenzione, che non ottiene scampo.
In Italia è un repertorio poco frequentato o qualcosa sta cambiando.
Qualcosa sta cambiando. Quando ho cominciato a proporre programmi  monografici alle Società di concerto italiane, il Lied era considerato un genere musicale di nicchia, per amatori.  Nel mio caso, posso senza dubbio affermare, almeno all’inizio, che certe scritture arrivavano più per curiosità (un tenore, italiano, che canta i Lieder?) che per vera e propria consapevolezza. Oggi  mi sembra che il pregiudizio sia minore, di fronte alla risposta di un pubblico che va coinvolto e sempre sensibilizzato.
Parlami del beneficio che un cantante d’opera può trarre dallo studio della Liederistica.
La cognizione della parola, perché nell’esecuzione liederistica non hai altro che quella. La seduzione del Lied  ( e degli interi cicli) è la medesima che viene dalla fiaba, dal racconto orale, dall’ io che narra, dall’ Ich-Drama che può essere soliloquio, una confessione tra amici, un flusso di coscienza con sé stessi. Quando non hai la dimensione scenica, registica e orchestrale a supportarti, la capacità di tenere l’attenzione del pubblico per settanta minuti ininterrotti si raffina sul testo e su quello che io chiamo ‘ gesto vocale’ , estremizzando una esecuzione (ed una appercezione) che lambisce l’ ipnosi.
In una tua precedente intervista esprimi un tuo pensiero sulla regia d’opera contemporanea, consigliando di non eccedere nella ricerca, ma di concentrarsi di più sul testo.
Mozart, Rossini, Donizetti, Bizet, Verdi, Puccini ed i Compositori del barocco italiano ed europeo… Tutto quello che noi definiamo ‘repertorio’ nasce come opera contemporanea e molti di quei titoli sono considerati  (e sono) capolavori proprio perché quella contemporaneità non l’hanno persa. È rispettando l’eterna modernità del testo che alcuni registi particolarmente visionari – penso a Emma Dante, Francesco Micheli, Damiano Michieletto – dimostrano che non esiste alcun conflitto tra la sensibilità odierna e la creatività di cento o più anni fa.
La parte pianistica del “Winterreise” di Schubert è molto difficile, eppure tu riesci ad eseguire sia la parte vocale che quella pianistica con molta” destrezza”. Il pubblico come reagisce?
Sempre con grande entusiasmo. E’ un approccio abbastanza inconsueto, effettivamente, ma non peregrino. Sappiamo che lo stesso Schubert cantava e suonava i suoi propri Lieder. Non bisogna dimenticare che questo repertorio nasce per una destinazione ‘domestica’, altamente condivisa. Una esecuzione per certi versi cantautorale, dal punto di vista performativo, non può che giovare al recupero di quell’ originario Hausmusizieren.
Una perfetta conoscenza tecnica vocale e strumentale, la padronanza della lingua e l’approfondimento del testo sono gli ingredienti per poter ” dar vita” a questo repertorio e poi…
E poi deve venire in aiuto la ’vita’ veramente vissuta dall’ interprete. Quella fatta di  viaggi, di incontri, di racconti, di cose viste e ascoltate, di ore trascorse a reperire e a studiare i testi, le fonti, la memoria delle letture, l’eredità dei grandi interpreti. La curiosità è fondamentale per qualsivoglia momento interpretativo. L’ incursione conoscitiva nei confronti di un ‘tutto’, nel caso di Schubert, ancora in parte tangibile, fatto di oggetti, strumenti, luoghi, case, percorsi, lettere, lasciti pittorici, illumina e solidifica la coscienza esegetica. La Vienna Biedermeier è ancora rintracciabile nella Vienna di oggi. E poi l’approfondimento attraverso l’intero repertorio del Compositore e dei suoi contemporanei, ravvisando anticipazioni, prestiti, influssi trasversali alle opere del catalogo. Un approccio ‘sinestetico’ siffatto al testo vocale può giovare alla soluzione interpretativa, se non addirittura a quella ‘tecnica’ , assai più che ripetere un singolo passaggio o una frase restando limitatamente incollati alla pagina.
Sei un giovane uomo di grande cultura e non solo musicale. Devi a qualcuno in particolare queste tue doti?
Alla cerchia familiare prodiga di una sollecitazione  e tradizione culturale ad ampio raggio. Uno stimolo continuo fin dalla prima età. E ai maestri, intesi come riferimenti, che ho avuto la fortuna di incontrare sul mio percorso.
La tua famiglia ti ha sostenuto nelle tue scelte?
Naturalmente sì. Ho avuto sempre la libertà di scegliere in autonomia ed anche di commettere non pochi errori. Fa parte del gioco. Senza particolari rimpianti. Non ho ereditato specifiche competenze o il solco di percorsi già tracciati; a parte un avo ( Camillo de’ Nardis, compositore e docente al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli) sono il primo musicista in famiglia.
L’occasione che ci ha fatto reincontrare è stata una masterclass che hai tenuto presso il Conservatorio “Dall’Abaco” di Verona. I giovani sono interessati e quali sono i problemi che hai rilevato?
Con piacere noto che sempre più nelle classi di canto in Italia si coltiva la cultura del Lied, forse ancora in maniera non del tutto sistematica, limitatamente al curricolo di studi, ma pur sempre volenterosa ed utilissima. Ritengo che una esperienza conoscitiva del Lied per una voce ancorché non del tutto ancora strutturata a livello tecnico, possa incentivare il bisogno, la ricerca di una raffinatezza interpretativa che nella dimensione operistica, a parità di età  e preparazione tecnica, potrebbe essere più complesso o temerario raggiungere, nella preoccupazione ( erronea) della prevalente ‘ossessione’ vocale. L’opera non è un traguardo univoco o, almeno, non è necessariamente l’ unico percorso attraverso cui arrivarvi. Tutti gli studenti di canto dovrebbero confrontarsi con il repertorio liederistico e oratoriale, come fatto di conoscenza e consapevolezza. Lo ripeto spesso: il Lied non è una alternativa minore, non un espediente o un riparo nei confronti della complessità dell’ opera. Lied e opera sono due facce della medesima medaglia, che è il canto.
Cosa consiglieresti come primo ascolto per un profano?
Avrei l’imbarazzo della scelta. Il mio primo ciclo, da ascoltatore ( e poi da pianista), fu la Dichterliebe di Schumann: amore a prima vista.
Qual è per te il cantante del passato o contemporaneo che meglio interpreta sia l’Opera che la Liederistica?
Secondo il mio gusto personale, potrei rispondere, random: Fritz Wunderlich, Peter Schreier, Hermann Prey, Hans Hotter, Lotte Lehmann, la Schwarzkopf, Jessye Norman…
All’estero i cantanti italiani sono spesso considerati “incapaci” nell’interpretazione del Lied. Tu come hai fatto ad importi?
Con una gavetta durissima e la consapevolezza che per affrontare il patrimonio musicale di un’altra nazione occorre abbandonare l’idea che l’Italia sia necessariamente  l’unica patria del bello. Veniamo educati sentendoci dire che siamo la culla della civiltà e che ospitiamo il 70% del patrimonio artistico mondiale, ma rischia di essere questa un’affermazione arrogante ed etnocentrica, del tutto priva di impiego concreto. La bellezza non ha patrie e per essere rispettati all’estero occorre costruirsi un’empatia culturale che richiede molteplici strumenti e notevole umiltà.
Ti sei esibito recentemente alla Carnegie Hall di New York con il pianista Bruno Canino meritando una standing ovation. Parlami di questa esperienza e del rapporto cantante-pianista.
Sono consapevole della grande fortuna  che ho di collaborare e frequentare mostri sacri del pianismo internazionale. Personaggi che, da pianista, ho sempre guardato con immenso rispetto e soggezione sono diventati oggi miei interlocutori familiari. Penso al rapporto speciale con Antonio Ballista e Bruno Canino. Ma anche alle avventure vissute con Michele Campanella, Laura De Fusco. Al privilegio che ho avuto di parlare di Poulenc con Dalton Baldwin, di aver ristudiato Debussy con Aldo Ciccolini, di eseguire Schubert con Badura-Skoda o Schumann con Norman Shetler.  Sono esperienze umane, prima ancora che artistiche di formidabile impatto. E’ una lezione continua, uno stimolo perpetuo, che si rinnova ad ogni avventura condivisa. Ogni  singolo concerto significa conversazioni, scelta di programmi,  prove, viaggi, pranzi e cene, risate, aneddoti: il momento sul palcoscenico, sia pure illustre come quello della Carnegie Hall,  è solo la punta di un iceberg sommerso, fatto di condivisione massima e di profonda umanità.
 Un cantante italiano che esegue brani in lingua tedesca per un pubblico tedesco è una cosa rara. Raccontami come sei arrivato a questa conquista.
Ho avuto alcune occasioni iniziali per mettermi alla prova, che ho affrontate da subito attraverso uno studio rigoroso del patrimonio culturale tedesco, non solo linguistico. Non è stato troppo complicato, avendo io una formazione accademica classica: la lingua della filologia greca e latina è il tedesco. E certo, se vuoi ottenere  un ‘tedesco’ che stupisca i tedeschi devi studiarlo come se fosse l’unica lingua utile per interpretare il mondo… e per certi versi è così: è un idioma duttile che davanti alla mutevolezza della realtà si adatta con una facilità sconosciuta ad altri codici europei. Il tedesco ha la precisione del bisturi, non a caso è la lingua, oltre che della classicità, della filosofia e della teologia.
Molti teatri d’opera in Italia si trovano in gravi difficoltà. Tu che tra le tante lauree ne hai una in Economia avresti una” ricetta” per guarire?
In realtà quello in Economia e management dello spettacolo è solo un master che ho conseguito alla Bocconi in collaborazione con l’ Accademia della Scala… Non ho la presunzione di dare ricette! Certo, suggerirei di lavorare assai maggiormente sulla cooperazione tra Teatri nella fase produttiva e nella circuitazione degli allestimenti;  sulla comunicazione, certo,  e sul dato esperienziale per il continuo riposizionamento del pubblico. Negli ultimi anni, parlo anche della mia esperienza ‘on-stage’, ci si sta accorgendo che per proporre ottime produzioni non sono sempre necessari dispendi economici esorbitanti. Abbiamo esempi virtuosissimi in tal senso.
Perché il canto?
Perché adesso va bene così. Non credo, nell’arte come nella vita, alle situazioni troppo definitive.
Come gestisci il tuo ego?
Un artista è tale perché è riconosciuto, da singolo, quale  portatore di una voce collettiva, di una sensibilità plurale; per reggere questa responsabilità ci vuole un ego piuttosto strutturato, altrimenti l’applauso diventa una droga pesante che rende dipendenti e rischia di deformare scelte e comportamenti.  Ritengo che nell’arte, come nella vita, gli ego da temere siano quelli fragili, non quelli forti.
“Wanderer”, il viandante che c’è in te quali mete vuole raggiungere?
La serenità di non dover ogni volta ricominciare da capo. Cosa che accade, ahimè , ancora troppo spesso quando cambiano le interlocuzioni.  Almeno in Italia si avverte la sensazione frequente di scrivere sull’ acqua.
Quando si chiude il sipario cosa rimane?
Se la voce è tutto quel che hai, quando si chiude il sipario rischi che non resti niente, solo il silenzio e la paura che possa durare per sempre.  Mi sento un uomo privilegiato in questo senso: la mia voce, l’ultimo apporto di un vissuto multiforme nell’ ambito musicale, è stata un ponte che in questi anni mi ha permesso di costruire relazioni, esperienze e  consapevolezze che in altri mestieri –  e, talvolta, anche in questo –  non si acquisiscono in una vita intera. Non temo il sipario, che sia aperto o chiuso, perché non sono io il suo strumento, ma lui il mio.