Georg Friedrich Händel (1685-1759): “Belshazzar” (1745)

Oratorio (HWV 61) in tre parti su libretto di Charles Jennens. Allan Clayton (Belshazzar), Iestyn Davis (Daniel), Caitlin Hulcup (Cyrus), Rosemary Joshua (Nitocris), Jonathan Lemalu (Gobrias), Jean-Yves Ravoux (Arioch), Geoffroy Buffière (Messaggiero), Thibaut Lenaerts, Michael-Loughlin Smith, Damian Whiteley (Saggi). Les Arts Florissants, William Christie (direttore). Registrazione: Conservatorio Maurice Ravel de Levallois-Perret, dicembre 2012.T.Time: 2 ore e 45′. 3 CD Les Arts Florissants Editions 001
I primi anni quaranta segnano uno dei momenti più importanti della produzione händeliana, quello dei grandi oratori della maturità aperto dal “Messiah” nel 1742 e proseguito fino alla “Theodora” del 1750. Il 1744 vede il compositore contemporaneamente all’opera con “Hercules” e “Belshazzar” che vedrà la luce il 27 marzo 1745 al King Theater di Londra.
Meno noto ed eseguito di altri titoli del catalogo oratoriale del maestro sassone, “Belshazzar” non sfigura minimamente al fianco dei più noti capolavori del genere e la sua scarsa popolarità è difficilmente spiegabile. Una ragione è forse nel totale superamento delle forme proprie dell’oratorio alla luce di una drammaticità di pretta matrice teatrale. Da molti punti di vista “Belshazzar” si presenta come un’autentica opera lirica a soggetto biblico e se non fosse stato per il tempo che rendeva ancora problematica la rappresentazione delle storie sacre in teatro non avrebbe faticato a trovare sui palcoscenici il suo spazio ideale. Rispetto alla forma canonica dell’oratorio il rapporto fra parti solistiche e corali è invertito a favore delle prime, il coro, pur importante, non ha quel ruolo di protagonista che era tradizionale negli oratori e comunque svolge una funzione marginale rispetto alla centralità del canto solistico svolto spesso secondo dettami virtuosistici di matrice totalmente italiana. L’oratorio è quindi una grande successione di arie cui si alternano più limitati interventi corali – spesso con funzione di integrazione e commento al brano solistico; due duetti ed un pezzo d’insieme nel finale; una struttura quindi molto vicina a quella dell’opera di impianto italiano praticata da Händel nei decenni precedenti.
Inoltre l’oratorio, genere meno rigido e codificato di quanto non fosse l’opera italiana, permetteva al compositore sperimentazioni difficilmente perseguibili in teatro, e, se l’aria mantiene la sua struttura canonica, il recitativo viene sfruttato fino alle sue estreme conseguenze con una ricchezza strumentale e melodica veramente sorprendente per l’epoca. Risultato di questa commistione è il cosiddetto “accompagnato”, una forma intermedia fra il recitativo e l’aria, un arioso melodico più libero dell’aria e quindi più aperto a soluzioni vocali e strumentali innovative alla ricerca di un rapporto espressivo più diretto fra musica e testo che anticipa per molti aspetti certe soluzioni che diventeranno canoniche alla fine del secolo e, se è riconoscibile una suggestione francese, è innegabile che Händel affronti la prova con l’originalità che gli è propria.
Una scrittura così ricca e frastagliata non potrebbe trovare esecutori migliori de Les Arts Florissants splendidamente guidate da William Christie che della partitura offre una lettura di esemplare, cristallina chiarezza ma al contempo di incontenibile forza vitale. Le sonorità sono sempre terse, nitide, splendide ma soprattutto espressive e di volta in volto austere nelle scene di Daniele, dolorosamente commesse nei cori degli ebrei come il sublime “Recall, O king, thy rash command”, di smaltato eroismo nelle scene di Cyrus e del campo persiano, di raffinata ma palese ironia nella vuota pompa dei babilonesi. Il coro completa la perfetta riuscita dell’insieme inserendosi alla perfezione nelle scelte stilistiche ed espressive di Christie.
La compagnia di canto si fa nel complesso apprezzare. La scelta di affidare la parte di Daniele – scritta per Anne Turner Robinson – ad un controtenore può lasciare perplessi ma Iestyn Davis è innegabilmente molto bravo, musicale, elegante, precisissimo, dalla voce compatta e omogenea su tutta la gamma e interprete raffinato e sensibile capace di rendere al meglio il lirico misticismo del profeta.
Vocalmente rilevante il Belshazzar di Allan Clayton, tenore chiaro e leggero ma agilissimo e capace di affrontare con maestria le impervie coloriture di cui è costellata la parte e che raggiunge l’apice in un pezzo di bravura estremo come “I thank thee, Sesach! Thy sweet pow’r” in cui tutti i tratti caratteristici delle arie di tempesta italiana vengono sfruttati per rendere l’esaltazione del re folle prima della battaglia. Rosemary Joshua è una Nitocris non sempre inappuntabile sul piano strettamente vocale, afflitta da un vibrato un po’ troppo presente, ma molto espressiva e ben calata in un ruolo caratterizzata da un tono nobilmente dolente. Il Cyrus di Caitlin Hulcup lascia qualche dubbio in più. Cantante musicale, precisa, elegante ma dal timbro esile e soprattutto privo della regalità che il ruolo sembrerebbe esigere nei grandi accompagnati come “Methought, as on bank of deep Euphrates” o nello squillo eroico di “O God of truth”, così che l’ascolto resta piacevole ma poco emozionante. Vocalmente e tecnicamente valido ma un po’ generico il Gobrias di Jonathan Lemalu.